martedì 23 settembre 2025

Recensione di Paolo Lago al volume Beatrice Hastings in full revolt











Recensione di Paolo Lago al volume Beatrice Hastings in full revolt, Diotauti, Tortora, Le Cicale Operose, 2020

 

Se solo sapessi che crimini commettere
 per trasformarmi per sempre in una rosa!
 Beatrice Hastings

 Martedì, 18 Febbraio 2020  

Il pickwick.it

di Paolo Lago


Beatrice Hastings è stata una grande scrittrice e intellettuale ingiustamente dimenticata e relegata nell’ombra per anni. Ha attraversato la temperie culturale di inizio Novecento e, a Parigi, è entrata in contatto con svariati poeti e artisti nel momento in cui la capitale francese era il più importante centro culturale d’Europa. Fra di essi possiamo ricordare Picasso, Apollinaire, Max Jacob, Cocteau, Matisse e, soprattutto, Amedeo Modigliani, con il quale ebbe una tempestosa relazione fra il 1914 e il 1916.

A rendere giustizia a Beatrice è oggi un interessante volume curato da Maristella Diotaiuti e Federico Tortora (Beatrice Hastings in full revolt, Caffè letterario Le Cicale Operose) il quale presenta, per la prima volta in Italia, una raccolta antologica di suoi scritti tradotti, finora mai pubblicati in forma di volume: poesie, racconti, novelle, memorie, un romanzo breve, articoli politici e femministi, articoli parigini.
Maristella e Federico, napoletani di origine, da anni gestiscono a Livorno un caffè letterario, Le Cicale Operose, dove vengono organizzate presentazioni di libri, concerti, pièce teatrali, letture pubbliche, aperitivi a tema. Senza ombra di dubbio si può affermare che la loro libreria, caratterizzata fin dalla nascita  come “libreria delle donne” e sensibile a tematiche di genere, è diventata, negli anni, un vero e proprio centro di aggregazione culturale, uno dei (pochi) luoghi della città dove ancora si riesce a fare vera cultura. L’interesse verso Beatrice Hastings, come scrive Maristella nella premessa del volume, “è nato all’interno di una indagine sul grande artista livornese Amedeo Modigliani, indagine svolta dal nostro caffè letterario e libreria delle donne Le Cicale Operose, nell’ambito di un più vasto programma di valorizzazione e diffusione della scrittura delle donne, dei loro linguaggi, del loro pensiero e agire politico”. L’opera di diffusione delle scritture femminili, sia in poesia che in prosa, svolta dal caffè letterario livornese non poteva quindi certo trascurare la figura di Beatrice Hastings poiché la scrittrice “propone – continua Maristella Diotaiuti  – un modello di libertà femminile anticonformista e trasgressivo, passando attraverso la fatica del vivere, le passioni, le amicizie, gli amori, la malattia e l’isolamento, senza mai però riuscire ad addomesticare la sua vitalità”.
Hastings propone una scrittura vitale e passionale, una vera e propria espressione di ribellione nei confronti dell’universo culturale maschile il quale ha sempre rappresentato un vero e proprio predominio emarginante nei confronti di molte espressività artistiche femminili. Come scrive sempre Maristella, “Hastings fa parte, a buon diritto, di quella nutrita schiera di donne scrittrici, artiste, scienziate, che hanno occupato una posizione ‘anomala’ rispetto al contesto sociale e culturale in cui hanno operato, avvertite come una sorta di ‘violazione’ verso un insieme di ruoli, comportamenti, riti, linguaggi delineato dal pensiero maschile, per il solo fatto di rivendicare spazi di libertà o ricercare l’affermazione della propria identità in quanto donne”. Una forte identità di genere è stata impressa alla scrittura di Hastings anche nella traduzione: la traduttrice, Matilde Cini, lungi dall’aver realizzato una versione filologica dei testi di Beatrice (si tratta invece di una traduzione “che vuole sorprendere ed emozionare il lettore italiano come l’originale sorprende ed emoziona il lettore inglese”), afferma di aver raggiunto (come succede nei casi in cui l’opera di traduzione si situa a livelli alti) una vera e propria familiarità e vicinanza intellettuale nei confronti della scrittrice. Come Cini scrive in una nota iniziale, “siamo giovani donne indipendenti, sradicate, determinate ad affermare la nostra identità in un mondo complesso in cui sentiamo di dover lottare per poterci affermare”.
Come ci informa una esaustiva nota biografica a cura di Federico Tortora, Beatrice Hastings (il suo vero nome è Emily Alice Beatrice Haigh) nasce a Londra nel 1879 e, successivamente, si sposta con la famiglia ad Hastings per seguire il lavoro del padre. Ed è proprio da questa città inglese che trae il nome con il quale sarà nota al pubblico. Dopo aver trascorso alcuni anni della giovinezza in Sudafrica, a Port Elizabeth, per seguire sempre le attività paterne, Beatrice torna in Inghilterra  e, successivamente, si imbarca per New York. Tornata a Londra, inizia a collaborare con la rivista The New Age, per la quale scrive svariati articoli. Ed è proprio in qualità di corrispondente del The New Age che Beatrice si trasferisce a Parigi nel 1914 dove scrive utilizzando numerosi pseudonimi e dove incontra Amedeo Modigliani. Dopo essere tornata in Inghilterra nel 1931, la Hastings, ormai malata e sofferente, porrà fine alla sua vita il 30 ottobre 1943.
Il libro è diviso in diverse sezioni, ciascuna dedicata ai più diversi generi di scrittura con i quali la Hastings si è cimentata. La prima sezione è dedicata alla poesia e, appunto, raccoglie alcune liriche nelle quali si intersecano immagini di ricordi dell’Africa, di figure legate alla cultura classica come baccanti, nereidi e ninfe e altre legate alla cultura orientale, insieme a un profondo vitalismo che pulsa in ogni singola parola. Altre immagini poetiche, invece, sono maggiormente legate all’impegno civile della scrittrice, all’ostinata difesa degli esclusi e degli emarginati, fra i quali si possono annoverare tutti coloro che abitano le terre che subiscono il colonialismo inglese. La seconda sezione raccoglie alcuni “racconti d’Africa”, narrazioni in cui l’ambiente africano pare quasi trasfigurato entro una dimensione mitica e irreale, disseminata di immagini potenti, senza mai comunque dimenticare un ‘sostrato’ civile sempre presente negli scritti di Beatrice. Ad esempio, così scrive in Note d’oriolo I: “Conosco gli orrori dell’Africa. Ho visto i luoghi della sua pena. Essa erra, fissando con occhi assenti i suoi deserti. Percuote il petto sulle sue montagne rocciose. Singhiozza nelle paludi dei suoi fiumi sconfitti e nelle foreste senza frutti echeggiano i suoi sospiri”; mentre, nel corso delle Note d’oriolo, riecheggia il refrain “L’Africa agli Africani!”.
La terza sezione racchiude alcuni articoli femministi nei quali la Hastings espone delle riflessioni di una modernità sconcertante, tali da anticipare le teorizzazioni di Virginia Woolf o, addirittura, certe rivendicazioni del femminismo degli anni Sessanta e Settanta. All’interno del volume che raccoglie gli articoli femministi, dal titolo Il peggior nemico della donna: la donna, è presente quella che è forse la sua migliore prova giornalistica in questo senso, La donna come creditrice dello stato, uscita sul The New Age il 27 giugno 1908, una lucida rivendicazione della libertà femminile e un atto di rivolta contro il potere patriarcale dello Stato che esercita un vero e proprio dominio sul corpo delle donne imponendo l’ideale della maternità. Contro l’imposizione ideologica della maternità si scagliano i dardi di Beatrice – così scrive infatti: “Il supplizio del parto è l’aspetto più osceno della vita umana” – mentre lucide riflessioni suggellano la fine dell’articolo: “È chiaro alle donne che qualsiasi accenno di ricompensa per la loro partecipazione alla creazione dell’umanità è basato sul cinico ripudio della grandezza del loro servizio; e io ripeto che anche la meschina ricompensa offerta è priva di valore perché mal indirizzata. L’uomo ingenuo e infantile ha deciso il contratto per entrambi, per lui e per noi. Ma ha consumato la nostra innocenza. Adesso siamo pronte a dettare le nostre condizioni; e più accanita sarà l’opposizione, più ci confermerà la portata dell’assuefazione dell’uomo alla tirannia”.
La quarta sezione è dedicata agli articoli politici: l’interesse della Hastings si concentra ancora sulla difesa delle minoranze e degli emarginati, siano essi i neri d’Africa, vittime della segregazione razziale, gli Ebrei, i Rom, i carcerati e i condannati a morte. La pena capitale viene condannata come un “omicidio legalizzato” mentre la penna della scrittrice si pone dichiaratamente dalla parte dei carcerati preda dell’atrocità dei supplizi e delle pene. Un articolo è infatti intitolato La ballata del carcere di Reading, come la famosa poesia di Oscar Wilde, aperta denuncia contro l’atrocità di ogni condanna. Un altro articolo si concentra invece sulla “legge sulla tratta delle bianche”, una proposta di legge, il White Slave Traffic Bill, modellata su una analoga americana e mirata alla criminalizzazione del traffico di donne bianche per la prostituzione, che la Camera dei Comuni inglese cercò di introdurre fra il 1910 e il 1913, proposta che incontrò una forte opposizione. Gli ultimi fra gli articoli proposti sono invece incentrati sul tema della segregazione razziale in Sudafrica e su un piacevole incontro con dei bambini “gitani”, vittime di pregiudizi e paure.
Dopo la quinta sezione dedicata alle “impressioni di Parigi”, una serie di riflessioni sulla città francese in un periodo particolare, l’inizio della Prima Guerra Mondiale, incontriamo una parte non meno importante, quella che racchiude le Feminine Fables, cioè le fiabe femminili (firmate perlopiù con lo pseudonimo di Alice Morning). In esse, la scrittrice ricorre al mito per rappresentare la sua visione del femminile e per ribadire il suo pensiero femminista. All’interno di travestimenti mitici e fantastici è ancora una volta il corpo della donna a essere protagonista: sembra proprio che il fantastico si trasformi in un’arma di opposizione contro l’oggettività e la brutalità di ogni potere di stampo patriarcale che intende infierire pesantemente sul corpo femminile.
Nella sezione n. 7 è invece raccolto un romanzo breve dal titolo Sepolcri imbiancati, uscito sul The New Age fra aprile e giugno del 1907. Si tratta di una sorta di romanzo di formazione al femminile in cui la protagonista, la giovane Nan Pearson, da una situazione di inconsapevolezza, sperimenterà sulla propria pelle la dolorosa ipocrisia sociale dell’istituzione del matrimonio. Nell'ottava sezione, infine, sono raccolti alcuni brani di Madame Six, un’autobiografia scritta nel 1920 durante la degenza in un ospedale parigino.
A chiudere il libro, nella sua prima edizione, è un saggio di Anna Maria Panzera (Beatrice Hastings ritratta da Amedeo Modigliani) che, in modo suggestivo, si incentra sui ritratti che Modigliani dedicò a Beatrice nell’intenso periodo della loro relazione. Bisogna ricordare, infatti, che il libro è stato presentato per la prima volta a Livorno nell’ambito degli eventi legati alla mostra Modigliani e l’avventura di Montparnasse.
Per concludere, si può affermare che Beatrice Hastings in full revolt è un libro davvero importante, importante come lo sono le ricerche pionieristiche nei più svariati campi, in questo caso in quello letterario. Far emergere una figura come quella di Beatrice Hastings, riscattarla dall’oblio è stata sicuramente un’operazione di vera cultura, di quella stessa vera cultura che si può respirare quotidianamente nel caffè letterario livornese di Maristella e Federico.



Maristella Diotaiuti, Federico Tortora
Beatrice Hastings in full revolt
traduzione testi Matilde Cini
con un saggio di Anna Maria Panzera
Livorno, Le Cicale Operose, 2020
pp. 284



Paolo Lago è critico letterario e cinematografico, fra le sue ultime pubblicazioni: La natura ostile. Visioni e prospettive nella narrativa contemporanea, Terracqua, 2023, Salvatrici del mondo. Personaggi femminili nella fantascienza italiana contemporanea, Giorgio Pozzi editore, 2024, scritto con Francesca Fiorentin e Spazi contesi. Cinema e banlieue, Milieu, 2024, scritto con Gioacchino Toni. È in corso di pubblicazione Ibridazioni. Viaggio nell'immaginario tecnologico di David Cronenberg, Rogas, 2025, scritto con Gioacchino Toni. Docente di materie letterarie scrive in varie riviste di letteratura e cinema.

lunedì 22 settembre 2025

Aldo Galeazzi legge Maristella Diotaiuti

 












Aldo Galeazzi legge Maristella Diotaiuti


Lettura di una poesia di Maristella Diotaiuti tratta dalla raccolta 


. come cosa viva 



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domenica 21 settembre 2025

Pasquale Lenge invita Adriano Engelbrecht. Adriano Engelbrecht propone un'Euridice in dialetto parmigiano.











Pasquale Lenge invita Adriano Engelbrecht.

Adriano Engelbrecht propone un'Euridice in dialetto parmigiano.

Testo tratto da EURIDICE frammenti, di Adriano Engelbrecht


Adriano Engelbrecht: Un’Euridice (concepita e scritta in dialetto parmigiano) all’ascolto dura, aspra, che alterna invettive a sprazzi di puro lirismo melodico. Una figura che si chiede il motivo per cui dovrebbe uscire dall’Ade, contravvenendo al destino assegnatole.

Ma l’uomo è tentato dal mistero della poesia – risuonano secchi i versi in dialetto – tanto da penetrare nel profondo dell’enigma e riemergere pensando di aver riportato in luce brandelli viventi e sonanti di verità che subito, però, celano il mistero di ciò che è inesprimibile. É di nuovo il tempo di intraprendere quel viaggio verso il profondo, verso lo scosceso, verso il giù: cantando.


Buon ascolto, buona lettura.



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mì?                                                    io?

mì a mòr                                          io muoio

al mé amor                                      il mio amore


un armor?                                       un rumore?



a m’son vista                                  mi sono vista

a m’son vista                                  mi sono vista

a iò sintù al me cant                     e ho sentito il mio canto


un pass dre cl’ätor                        passo dopo passo

na parola dre cl’etra                     parola dopo parola

a torni so - al nigor                       torno al nero - giù

forsier dentor                                 scrigno dentro

al stechet dal pet                           lo steccato del petto


la parola la’m va sò                       la parola mi scende

la torna sò                                      torna al giù

l’och al l’à vista                              l’occhio l’ha vista


labor! saré!                                     labbro! sèrrati!

ch’a vag sò al cant dal sò             che scendo al canto del giù

can’nissò pu’lreva                         che nessuno più apra

ed mì al recìnt                               di me il recinto





in tal mer                                        in questo mare

l’amèr                                              l’amore

al mòra                                            muore

in tal scur                                        in questo buio

a crìda al cor                                   piange il cuore


in tal mèr                                         in questo mare

l’amèr                                               l’amare

lé amèr                                             è amaro

in tal mèr                                         in questo mare

al cor                                                 il cuore

al mòra                                             muore


cost’è chì l’é al mé cant                 questo è il mio canto

cost’è chì l’é al mé cant                 questo è il mio canto




Sonia Caporossi:

“Dei tre livelli semioticamente rintracciabili all’interno del teatro come modus espressivo, il codice verbale, il codice paralinguistico e il codice motorio-cinesico *, Engelbrecht compie un vero e proprio amalgama sinestesico, nell’intenzione di fondere le tre istanze comunicative sopra dette in una superiore sintesi metaprattica (o metaperformativa). Tale ricerca ha avuto modo di esprimersi ultimamente anche nella forma dell’installazione e dell’esposizione artistica, nonché nella modalità sonora, nell’intenzione di indagare «il rapporto tra parola, segno visivo e composizione musicale».  […] È dunque la ricorrenza di sensi, la sinestesia in senso non semplicemente retorico, bensì estetico-totale, a determinare la specificità poetica della sua ricerca. Fabio Doplicher scriveva nel 1987 che «I sostenitori di un teatro assoluto considerano la poesia come un elemento narrativo; quindi non scenico. Ma la staticità non è sinonimo della parola; anzi, un certo ritorno alla parola, con tutte le ambiguità che possono avere le mode, dipende anche da un effetto di saturazione che ha l’immagine» **. Engelbrecht ha in comune con Mariangela Gualtieri proprio la necessità del superamento intrinseco della saturazione dell’immagine subodorato già trent’anni fa da Doplicher, in direzione di un reimpiego metavisivo della parola poetica che consenta la definizione di un campo semiotico diverso, onnicomprensivo e pervasivo, sinestesico, appunto. Poeta, artista, musicista, attore, Adriano Engelbrecht propone la propria visione di poesia-performance totale in un background culturale molto preciso, quell’ambiente teatrale parmense e reggiano, gravido di febbri creative importanti.”

Da Le nostre (de)posizioni, a cura di Enzo Campi e Sonia Caporossi, Bonanno Editore, 2020.

Introduzione a Le lugliatiche, di Adriano Engelbrecht, pubblicata in Poesia del nostro tempo



Note biografiche

Adriano Engelbrecht (Germania, 1967), è poeta, artista, musicista, attore.

Parte della sua produzione poetica, articolata in un lungo percorso di ricerca tra verso e rappresentazione teatrale, si è rivolta anche alla forma installativa/espositiva e sonora indagando il rapporto tra parola, segno visivo e composizione musicale.

Ha pubblicato Dittico Gotico per Cultura Duemila Editrice (1993), Lungo la vertebrata costa del cuore (prefazione di Pierluigi Bacchini) per I Quaderni del Battello Ebbro (2003), Tristano per la rivista online L’Ulisse (LietoColle, 2007), La piscina probatica per Fedelo's Editrice (2009). Nel dicembre 2015, insieme alla poetessa Ilaria Drago, esce Ubicazione Ignota, sempre per Fedelo's Editrice. Del 2020 è la plaquette autoprodotta di_versi assenti. un requiem per LOFT Scritture. È presente nell’antologia critica Le nostre (de)posizioniPesi e contrappesi nella poesia contemporanea emiliano-romagnola a cura di Enzo Campi e Sonia Caporossi per Bonanno (2020). Nel 2023 pubblica la tramontanza per Diabasis. È tradotto in diverse lingue.

Il suo lavoro di azione poetica è stato presentato e premiato in diversi teatri, musei, gallerie, festival tra cui ParmaPoesia, Ricercare - Reggio Emilia, GenovaPoesia, Natura Dèi Teatri/Lenz Fondazione, Ermocolle, LOFT Sul Naviglio.

 


giovedì 18 settembre 2025

Nella poesia italiana del Novecento quanto conta il Sud? Finora è stato trattato come se non esistesse, di Alessandro Cannavale.












Tracce di pensieri meridiani

Bruno Di Pietro e Pasquale Vitagliano invitano Alessandro Cannavale.

*nell'articolo, l'autore riprende la riflessione di Pasquale Vitagliano sul libro di Simone Giorgino, nel presente blog.

Nella poesia italiana del Novecento quanto conta il Sud? Finora è stato trattato come se non esistesse.

di Alessandro Cannavale

Esiste una linea meridiana, lungo la poesia italiana del Novecento? Quanto è importante riscoprire una geografia della letteratura, anche per ridiscutere alcune poetiche, percepite come egemoni sul territorio nazionale? Ne scrive Simone Giorgino in Eretico barocco, pubblicato da Carocci Editore. Nel volume, il docente dell’Università del Salento riunisce gli studi legati a eterodossie poetiche che richiamano alla memoria autori troppo spesso trascurati, persino dai più attenti lettori di poesia; autori che pure hanno animato il dibattito culturale nella penisola salentina nel secolo scorso. Stiamo parlando di figure di rilievo come Vittorio Bodini, Girolamo Comi, Raffaele Carrieri, Carmelo Bene, solo per citarne alcuni. Poeti eretici, sì, perché si affrancarono decisamente dall’ortodossia delle poetiche maggioritarie del proprio tempo. Vittorio Bodini, ad esempio, fu tra i primi a interpretare la necessità di dare dignità letteraria a un territorio tanto vasto - quanto assente - dalle cartografie letterarie dominanti.

Con un intento simile, ma sa un territorio più ampio, Giorgino aveva già pubblicato, tre anni fa, un volume intitolato Carta poetica del Sud, edito da Musicaos. Come faceva notare l’autore, facendo riferimento al DM 211/10, troppo spesso i dicasteri dell’istruzione trattano il Sud tamquam non esset, come se non esistesse: “La letteratura del Sud non esiste, e parrebbe che più di cento anni di storia letteraria non abbiano visto neanche uno scrittore meridionale contribuire in maniera significativa allo sviluppo del patrimonio letterario italiano”. Si tratta di una deliberata “discriminazione della letteratura del Sud”, di cui le indicazioni ministeriali citate sono soltanto un appariscente episodio? Probabilmente,  argomenta Giorgino, si tratta di scelte influenzate anche dall’assenza strutturale di un’industria editoriale competitiva e di centri di aggregazione intellettuale in grado di raggiungere tutto il territorio nazionale.

Con un grado di attualità formidabile, l’amore e l’odio per la propria terra destinata all’emigrazione emergono dai versi di Leonardo Sinisgalli: “Qui dovevo vivere,/ verrò a morire tra i ruscelli/ le vigne le pietre”. “I meridionali contano i giorni che mancano alla fuga”. Così scriveva a proposito del conflitto tra i giovani e il patriarcato ancora dominante. Non si può tacere dei versi impegnati di Danilo Dolci: “vogliamo materiale da museo/ i mafiosi e i residui parassiti/ memorie antiche di un tempo incredibile”. O anche: “ho cercato con voi/ di guardare oltre l’attimo, vivendolo,/ di vedere oltre i giorni, oltre gli anni/ di imparare a collaborare/ premendo con la gente per cambiare/ questa terra”. Con Dolci, si delinea l’idea di una poesia che può catalizzare il cambiamento attraverso un’azione corale di stampo pedagogico.  È altrettanto importante – pur nella brevità imposta dal contesto – richiamare lo sforzo del poeta Antonio Leonardo Verri, salentino, che prestò costantemente il proprio sguardo alla cultura del proprio territorio, prestando attenzione a conterranei come Rina Durante, Vittorio Pagano, Salvatore Toma. Anche attraverso la poesia, il Sud potrà dire qualcosa per non ridursi a un ruolo di “eden per turisti oltraggiato da una diffusa illegalità e dalla criminalità organizzata”. Recuperando, così, la sfida lanciata dal Pensiero Meridiano di Franco Cassano, che auspicava un nuovo modello di sviluppo “meridiano”. Il tema è stato ripreso, nelle sue linee programmatiche, dal poeta napoletano Bruno Di Pietro in una sua recente riflessione (https://lecicaleoperose.blogspot.com/2025/08/per-iniziare-costruire-un-movimento.html) sul tema della “linea meridiana” della poesia: riprende temi cari al sociologo barese, come la “lentezza”, per sfuggire alle logiche del produttivismo, il senso del limite e il rapporto con il mare Mediterraneo, luogo di scambi e ritorni. La sua riflessione si chiude con una citazione de L’uomo in rivolta, di Albert Camus: “In cuore alla notte europea, il pensiero solare, la civiltà dal duplice volto, attende la sua aurora”.


Articolo pubblicato ne Il Fatto Quotidiano (ringraziamo l'autore per aver citato la pagina del blog de Le Cicale nell'articolo):

https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/09/14/linea-meridiana-poesia-italiana-giorgino-notizie/8119293/


Alessandro Cannavale

Insegno in ambito universitario e svolgo attività di ricerca. Mi occupo di tecnologie innovative per la transizione energetica e mi piace dedicarmi alla divulgazione scientifica. A questo scopo, ho collaborato con le testate Sapere e La Repubblica. Da dieci anni, curo questo blog, in quanto appassionato di Questione Meridionale. Trovo ispirazione negli esempi di eroi della coerenza, come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ho scritto A me piace il Sud (Armando Editore 2017) con Andrea Leccese. Più recentemente, ho pubblicato due sillogi poetiche con l’editore Les Flâneurs: Versi randagi (2019) e Il sarto dei piccoli strappi (2020) e una con l’editore BesaMuci: L’agguato della tenerezza (2023). 

Fonte: Il Fatto Quotidiano

martedì 16 settembre 2025

La poesia dialettale Lucana (murese) di Salvatore Pagliuca.












 La poesia dialettale Lucana (murese) di Salvatore Pagliuca

Pasquale Lenge, poeta Lucano, accoglie nella sua rubrica, Torrenti, la poesia di Salvatore Pagliuca, poeta di Muro Lucano, scrittore, archeologo, purtroppo recentemente scomparso, su invito de Le Cicale Operose

Letture di quattro poesie a cura di Rosa Maria Cerone, su gentile invito di Pasquale Lenge.



    Per ascoltare l'audio cliccare sull'immagine.



A giarl’, a sicchj, varlìl’

ruvàch’ ogn’ mument’ lu mar’

p’ nummaffucà ra intr’.

E nu luuàt’ r’ acqu’ e sal’

rifonn’ l’onn’, assàl’ a mont’

tra lu stomach’ e li suonn’,

e sfrahanescj  sott’  p’ sciglià

e summòv’ la ren’ r’ stu cor’.

 

A giarle, a secchi, barili/svuoto ogni momento il mare/per non affogarmi di dentro./ E un lievito di acqua e sale/riversa l’onda, sale sopra/tra lo stomaco e le tempia,/e frana sotto per scompigliare/e smuovere la sabbia di questo cuore.

(da Cor’ šcantàt/Stupido cuore spaventato)


A na cert’ or’. Tann’.

…………………

A l’ombr’, quann’ la nott’

s’ accov’ intra lu iuorn’

e lu suròr’ s’ rufredd’.         

T’ allum’ meglj tann’.

T’ cont’ li capigghj

a un’ a un’, m’ cech’ l’uocchj

lu ianch’ strullucènt’

ru lu cuogghj ca penz’ sott’.

E t’ misur’ l’ogn’ cu rr’ mman’

p’ m’ fà nu cunt’ r’ quanta

iasch’ iènghj strazziannom’ rr’ carn’.

 

Ad una certa ora. Allora./…………../All’ombra, quando la notte/si nasconde dentro il giorno/ed il sudore si raffredda./Ti vedo meglio allora./Ti conto i capelli/ad uno ad uno, m’abbaglia/il bianco brillante/del collo che immagino sotto./E ti misuro le unghia con le mani/per farmi un calcolo di quanti/fiaschi riempi straziandomi le carni.

 (inedita)

 

***


Allandrasàt’ m’ arruot’ e po’ m‘ allisc’,

m’ faj lu nghirr’ nghirr’

com’ a na hatt’. M’ allisc’ li cauzùn’,

t’ faj ntustà la cor’ e ij t’ allisc’,

t’ allisc’ ancor’ e po’ sparisc’.

 

All’improvviso mi giri intorno e poi mi accarezzi,/mi fai le fusa/come una gatta. Ti strofini ai pantaloni,/ti fai drizzare la coda e io ti accarezzo,/ti accarezzo ancora e poi sparisci.

(inedita)


***


Vir’, n’ appauràm’ r’

ciazzeccà e n’ alleccàm’

rr’ parol’ com’ a nu

gelat’ accer’ a sol’.

Parol’ mpruffumat’

ca sann’ r’ crem’ e ciucculat’.

Ma vuless’ na parol’

senz’ addor’, fatt’ r’

zenzel’, na parola zunzulos’

ca ric’ r’ quann’ stam’ citt’

e caminam’ dritt’

guardann’ nnant’.

 

Vedi, ci spaventiamo di/accostarci e ci lecchiamo/le parole come un/gelato di fronte al sole./Parole improfumate/al sapore di crema e cioccolato./Ma vorrei una parola/senza odore, fatta di/stracci, una parola stracciona/che dicesse di quando stiamo zitti/e camminiamo dritti/guardando avanti.

(inedita)


***


SALVATORE PAGLIUCA: DUE ARTICOLI DI "POETI DEL PARCO"

Manuel Cohen

https://poetidelparco.it/la-terra-e-la-lingua-tra-orti-e-pietre-la-parola-di-salvatore-pagliuca/

Anna Maria Curci

https://poetidelparco.it/ricordo-di-salvatore-pagliuca/


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Ringraziamo Rosa Maria Cerone per le letture delle poesie di Salvatore Pagliuca.

Rosa Maria CeroneNon potrei conoscere meglio l’archeologo-scrittore Salvatore  Pagliuca,  se non attraverso le sue poesie, scritte  nel dialetto di Muro Lucano dalle radici di terra, che non fatico a comprendere ma che fatico a pronunciare, io emigrante. Quattro poesie che sono piccoli camei, contemporanee certo, ma in qualche modo antiche, per quella capacità che ha il dialetto (ogni dialetto) di pennellare quadri di vita vissuta e stati d’animo in pochi versi e d’altri tempi.  Vite e sentimenti del quotidiano: un focolare a terra, le cime dei monti al cielo, nel mezzo l’uomo, che sente tutto faticoso e ostile, duro com’è dura la vita sua, che fatica a esprimere lo stupore del pane e del mare, le carezze ad un gatto o sul capo di moglie e figli. Nel dialetto murese le poesie d’amore ri-suonano maggiormente di dolcezza, quella insolente, che si interstizia tra le crepe dei muri colpiti da un terremoto e si fanno semplici come è semplice impastare acqua, farina, luuàt’ e sale, com’è semplice l’onda che fa il mare. Ecco, tutto ciò è tema di una poesia di Salvatore, che ha parole legate alla sostanza materiale di cui è fatto il giorno e del romanticismo fanciullo di cui è fatta la notte, temendole quasi, perché le parole non sono altro che viaggio e silenzio ed è proprio di questo che è fatta la ‘nostra’ Lucania, sua più che mia, decifrandone così, a poesie e scoperte archeologiche,  l’appartenenza.


Rosa Maria Cerone è una studiosa, appassionata lettrice di poesia, che ha vissuto tra Muro Lucano e Manduria prima di trasferirsi al Nord. Scrive poesie erotiche-esistenzialiste con lo pseudonimo di R@, per scelta ancora inedite.










 




domenica 7 settembre 2025

I due infiniti, di Lucio Macchia

 


I due infiniti, di Lucio Macchia

  

Haec res,

ricade a te:

nel momento esatto

in cui ti ritrai,

quando distogli il viso,

tutto l’eterno impensato

ti si fa avanti eludendo

gli occhi, e ti giunge

– immediato.

(L. Macchia

da “cosmi | minimi”)

 

 

Corro nel mattino ancora caldissimo di settembre, tra chiazze di sole e di ombra, strade e alberi di Roma. Corro attraverso i due infiniti di Bergson: questa idea meravigliosa mi accompagna nella fatica del gesto, con la sua capacità di fecondare il pensiero. «Non fidarsi dei pensieri che non sono nati all’aria aperta e in movimento»[i]. La metabolizzo, ricordo gli splendidi passaggi di Ronchi[ii], ma non la penso semplicemente come un’idea perché in realtà questo intreccio, come fra due amanti, di due infiniti insondabili, è concettualmente imprendibile. L’argomentazione cede all’esperienza. Le idee potenti sono per strada, si incontrano nel “fuori”. Due infiniti. Da una parte l’Uno, la perfetta cosmica unità del tutto, sorgente indicibile del secondo infinito, quello della innumerabile molteplicità delle cose. Ma non sorgente in senso causativo “classico”. Non vi è un loro darsi duale, ma un intreccio indissolubile, “organico”, una implicazione interna inafferrabile. Il darsi “tutto insieme” eppure molteplice, come ripetizione di una differenza assoluta. Il piegarsi incessante dell’essere in tutte le cose intorno, in me stesso, nella corsa e nel respiro. «La chose, s'intende ogni cosa, ogni ente attualmente esistente, accade, c'è, scindendosi in due direzioni [...] i due sensi dell'infinito: l'infinito attuale e l'infinito potenziale (o indefinito)»[iii]. Ogni scorcio di strada, ogni albero e ogni foglia, ogni palazzo e chiazza di luce, si dà come atto perfetto di una totalità infinita, come sua presenza pura, e, al contempo, si moltiplica nella infinità delle entità particolari, delle minime cose divisibili senza termine. La linea del fiume si mostra e insieme esplode nelle innumerabili increspature della superficie. Così ogni mio passo, ogni vetrina, ogni persona incontrata, increspa l’orizzonte dell’esistenza. Non c’è un “Uno” da qualche parte, in una trascendenza, che genera il molteplice. C’è, qui, ogni albero lungo la strada che è l’Uno, che è il molteplice. Essere qui, nell’istante, come apertura a questa cosmicità continua del cambiamento incessante. Esserne partecipe come lo sono i sassi, le foglie, le formiche nelle crepe delle cortecce. Pura immanenza di cui sentiamo l’istanza come “precedente” a ogni giudizio, concetto, parola. Una pura quodditas, un qualcosa che semplicemente è, in modo diretto, precategoriale.  Appena lo pensiamo a un livello che non sia questo semplice evento corporeo dell’ordine del trauma, tutto precipita nel “solito mondo” e, oggettivizzandosi, perde vitalità. «Per definire lo schema generale dell'esperienza, Bergson stabilisce, quindi, un rapporto di implicazione necessaria tra due infiniti differenti per natura. L'assoluto, scrive, è "infinito", nella misura in cui "si presta nel medesimo tempo a esser compreso come totalità ed enumerato senza esaurirsi. Questa è la proposizione speculativa di una filosofia dell'immanenza assoluta»[iv]. Essere inscritti nell’esperienza assoluta dello “n=1” del molteplice che è uno, in un’equazione in cui i due termini si equivalgono non come fatti, oggetti, cose date, ma come istanze in atto, in processo continuo di cambiamento, il cui movimento, la perpetua azione di mutua compenetrazione, consegna l’uno all’altro, in una danza infinita, di due infiniti stretti in un abbraccio fuori dal tempo, che è la vita stessa. La vita in sé.

Immagine: Mondrian


[i] F. Nietzsche, Ecce homo

[ii] R. Ronchi, Il canone minore – Verso una filosofia della natura (ed. digitale Feltrinelli, 2017)

[iii] R. Ronchi, op. cit. pos. 3552

[iv] R. Ronchi, op. cit. pos. 3586


mercoledì 27 agosto 2025

Nota di lettura di Rita Ciatti per il volume "Anche Hitler era vegano. Demagogia e stereotipi della vegafobia", di Dario Martinelli.

 















Nota di lettura di Rita Ciatti per il volume 

Anche Hitler era vegano. Demagogia e stereotipi della vegafobia, di Dario Martinelli2025, Mimesis Edizioni.

 

Diciamocelo, noi vegani non stiamo molto simpatici alla maggior parte delle persone: moralmente superiori, arroganti, aggressivi, fanatici, estremisti, irragionevoli, patosensibili, misantropi, saccenti, rompiballe. Questi alcuni degli aggettivi con cui le persone definiscono le persone che per motivi etici hanno deciso di smettere di consumare gli animali e i loro derivati.

Questo testo di Dario Martinelli, semiologo, musicologo, poeta e autore di canzoni, scritto in maniera tanto accurata e documentata quanto spassosa (qualità che fa sempre piacere trovare anche in un saggio e non solo nelle opere di narrativa) esplora le ragioni di quella che lui definisce una vera e propria vegafobia, assimilabile cioè alle altre forme di fobia esistenti nei confronti di minoranze o di gruppi percepiti come “alterità” minacciose nei confronti del sistema dominante, con i suoi valori e tradizioni; perché indubbiamente una persona che per motivi personali, per esempio di salute o religiosi, dichiari di non poter mangiare il maiale o le cosiddette carni rosse non costituisce una minaccia all’ordine costituito e quindi non c’è ragione che venga bullizzata o attaccata al fine di dimostrare la sua “irragionevolezza” o “estremismo”, ragion per cui condizione essenziale della vegafobia è che il o la veg* di turno dichiari di esserlo per ragioni etiche.

Non c’è dubbio che tirarsi fuori da quella che è una pratica consolidatasi nei secoli, normalizzata e naturalizzata, non possa che essere visto come un modo di vivere quanto meno bizzarro, cioè non conforme a un certo ordine costituito, soprattutto quando le ragioni di questa scelta vanno a intaccare convinzioni profonde e radicate su più piani, non solo strettamente materiali, ma anche simbolici.

La parte, a mio avviso fondamentale e centrale di questo testo, senza la quale sarebbe anche impossibile comprendere appieno la vegafobia, è infatti propria quella che introduce il concetto di antropoteosi, ossia la teorizzazione di quella che sembra essere una vera e propria fissazione della nostra specie:  il bisogno di distinguerci qualitativamente dalle altre specie, ignorando la continuità evolutiva tra noi e gli altri animali e la percentuale altissima di attributi che con loro condividiamo (dati alla mano, condividiamo il 98% del nostro patrimonio genetico con i primati, infatti siamo primati anche noi, il 90% con in mammiferi e il 60% con i moscerini, tanto per fare alcuni esempi), di fatto quasi negando, consapevolmente o meno, di essere animali anche noi. Le ragioni di questa “dimenticanza” sono ovviamente molteplici, spesso ideologiche, ma la più elementare è che sostanzialmente non vogliamo ammettere di essere animali tra gli animali proprio perché li abbiamo sempre privati di quegli attributi positivi (o che riteniamo tali) che invece riconosciamo solo a noi stessi, fallacemente individuando ed enfatizzando quel poco che ci differenzia rispetto al tanto che invece ci unisce. Per meglio dire, definirci animali ci svilisce perché di fatto noi sviliamo gli animali: processo fondamentale per trovare giustificazione morale al loro sfruttamento e uccisione. L’antropoteosi è una sorta di mito o mitizzazione dell’umanità in opposizione all’animalità, gruppo che comprenderebbe quindi tutti gli animali, tranne noi. Per costruirlo ci sono voluti secoli, il sostegno di pensatori illustri, nonché delle principali religioni monoteiste, ma anche distorsioni e strumentalizzazioni a fini ideologici, ad esempio, delle teorie darwiniste.

La vegafobia, come tutte le discriminazioni verso un gruppo, si serve e nutre di vari elementi, tra cui gli stereotipi e i pregiudizi. Nella parte introduttiva del libro Dario ricostruisce l’origine di questi termini e di ciò che significano. Non sapevo ad esempio che il concetto di pregiudizio fu introdotto da Francis Bacon nel XVII secolo nella sua opera Instauratio Magna. Bacon, scrive Dario, “fornì una spiegazione di quelli che chiamò errori e superstizioni intrinseci e profondi nella natura della mente, chiamati idola mentis. Idola è un termine che possiamo tradurre come idoli, ovvero miti che l’essere umano onora al posto della verità” e che si distinguono in quattro tipi, idola tribus, idola specus, idola fori, idola theatri.

Segue una spiegazione molto interessante che ci aiuta a comprendere non solo la vegafobia, ma in generale i miti e credenze errate su molti argomenti e che, anche involontariamente, spacciamo per verità, addirittura per verità scientifiche (esempio: la carne fa bene, il latte fa bene, non è possibile vivere senza mangiare carne; miti che persistono nonostante l’evidenza di persone vegane da venti o più anni o di bambini svezzati con alimentazione vegetale, vale a dire che non hanno mai assaggiato carne di animali in vita loro e che godono di ottima salute).

Successivamente si passa alla definizione degli stereotipi, i quali, secondo l’analisi del giornalista Lippmann, che nel 1922 li teorizzò in un saggio, sono in stretta relazione con i pregiudizi, “essendo la base cognitiva di questi ultimi”, ossia in una relazione di causa-effetto.

Comprendere cosa siano i pregiudizi e gli stereotipi, come si formano e per quale esigenza della mente umana è fondamentale dunque per comprendere la vegafobia e in generale il processo con cui cataloghiamo e raggruppiamo, per facilità, le informazioni che ci arrivano dall’esterno. Si tratta di processi mentali in una certa misura anche naturali, cioè utili per raggruppare e sintetizzare le tante informazioni che ci arrivano, ma poi sostenuti e rafforzati da convinzioni molto spesso antiscientifiche e non corrispondenti al vero.

Il testo prosegue con la trattazione dei materiali audiovisivi, ossia di come il cinema, la televisione e in generale i media mainstream trattano il veganismo e i veg* (da specificare che Dario mette insieme vegetariani e vegani non perché non sappia la differenza e cosa comporti in termini di scelta etica, ma perché ai fini di questo libro entrambi i gruppi sono oggetto di vegafobia, sebbene i vegani, per ovvie ragioni, lo siano in misura maggiore).

Come sono rappresentati i veg* nel cinema? Come vengono caratterizzati i personaggi, marginali o meno, in un’opera filmica e televisiva? Prendendo in esame una trentina di opere, spaziando tra cartoni animali, sit-com, serie TV, film, stand-up comedy, scopriamo così che i veg* hanno sempre delle caratteristiche comuni e ben specifiche: strani, ingenui, bizzarri, idealisti, troppo buoni, ma anche ossessivi, polemici, rigidi mentalmente, incapaci di godersi la vita, talvolta, come la protagonista di Hungry Hearts di Saverio Costanzo, ortoressici, ossia eccessivamente preoccupati di contaminare il proprio corpo con alimenti ritenuti dannosi, preoccupazione che sconfina nella patologia. L’ortoressia, è bene ribadirlo, è appunto una patologia e può riguardare sia le persone veg* che quelle non veg*; rientra nello spettro dei disturbi alimentari, affine quindi all’anoressia e bulimia. Il regista Saverio Costanzo all’epoca dichiarò che non era suo intento criticare le persone vegane, eppure, guarda caso, Mina, la protagonista, è anche vegana, particolare che sicuramente ha contribuito ad alimentare lo stereotipo del veg* fuori di testa che per le sue manie si ammala. Piccolo aneddoto personale: quando comunicai a mio padre la decisione di diventare vegetariana (nemmeno vegana, quello lo sarei diventata successivamente), la prima cosa che mi disse fu: “Questa è una mania che ti ha trasmesso Andrea” (mio marito), mettendo insieme ben due pregiudizi in uno: che il vegetarianismo fosse una mania e che le manie si possono attaccare come un virus. Un esempio pertinente di vegafobia.

Sappiamo che queste rappresentazioni audiovisive sono a dir poco ingenerose e non centrano il focus della motivazione per cui si diventa vegani, ma è importante capire come i media ci rappresentano in quanto, essendo mezzi in grado di raggiungere una vasta fetta di popolazione, contribuiscono a rafforzare o delineare tout court l’immagine dei veg* e quindi ad alimentare la costruzione della vegafobia, di fatto allontanando la comprensione della serietà della questione animale.

Senza spoilerare troppo, come si dice in gergo, ossia elencarvi i numerosi punti affrontati in questo libro (tra cui ad esempio la differenza tra onnivori, polifagi e carnivori, già anticipata da Dario nell’altro suo libro Lettera a un futuro animalista o la parte dedicata all’ironia e alla satira), vi dico perché questo è un libro che ogni persona vegana farebbe bene a leggere, e non solo quindi, auspicabilmente, i diretti interpellati - cioè chiunque almeno una volta nella vita abbia pronunciato qualcuna o più delle seguenti frasi “Anche Hitler era vegano”, “Anche le piante soffrono”, “Però le zanzare le ammazzi”, “E se ti trovassi su un’isola deserta come faresti?”, “Senza proteine nobili ci si ammala”, “Siamo carnivori perché abbiamo i canini”, “I leoni mangiano le gazzelle”, “E il ferro dove lo prendi?” ecc.-; perché è importante comprendere il terreno di scontro, diciamo così, entro cui ci muoviamo e capire anche le motivazioni che portano i non vegani a percepirci come ostili, delegittimando quindi la portata etica della nostra scelta definendoci dei nullafacenti che anziché occuparsi delle cause davvero importanti pensano agli animali. Non è utile, facendo un po’ di autocritica (altra parte che si affronta nel libro), ergersi su un piedistallo dando degli idioti ignoranti a tutti coloro che ci criticano (tanto meno definirsi “illuminati”, “risvegliati” rispetto a una “massa dormiente”) perché se vogliamo avere dei risultati dobbiamo essere in grado di comprendere come gli altri ci vedono e percepiscono e se sono chiari i motivi che ci hanno fatto diventare veg*; dobbiamo conoscere quali sono i processi mentali che portano a costruire metaforicamente muri di incomunicabilità che poi di fatto impediscono di ottenere i risultati auspicabili nella questione che ci sta a cuore, ossia aiutare gli animali a liberarsi dal giogo della nostra oppressione e discriminazione.

Già, in conclusione, dove sono gli animali in questo testo? Ovunque. Perché è ovvio che il testo va a parare in una direzione, ossia: le persone non prendono sul serio i veg* perché sostanzialmente non prendono sul serio la questione animale, cioè gli animali.

In quanto gruppo di nicchia, sebbene in crescita, Dario ci invita anche a valorizzare ciò che unisce la galassia animalista anziché evidenziare ciò che ci differenzia (esattamente come per decostruire l’antropoteosi dovremmo iniziare a considerare ciò che ci unisce agli altri animali anziché ciò che ci differenzia). Abbiamo la responsabilità di fare del nostro meglio per rendere comprensibile la nostra causa, senza svenderla, ma con un pizzico di strategia.

Senza esagerare e senza adulazione, definisco questo libro tra i più interessanti che abbia letto sul veganismo. Ovviamente ognuno di noi ha delle preferenze, ossia predilige questo o quel punto di vista per analizzare un tema, scelta che dipende anche dalla propria formazione e non c’è dubbio che a me interessi moltissimo tutto ciò che riguarda segni, linguaggio, comunicazione in generale, processi mentali individuali e frutto di condizionamenti sociali, ma a prescindere da questo Anche Hitler era vegano affronta argomenti importanti finora trascurati nella letteratura animalista, argomenti che ritengo utili non sono ai fini di una conoscenza personale, ma anche per migliorare il proprio attivismo e approccio verso i non veg*. Sembra paradossale, nel senso che dovrebbero essere i non veg* a mettere in discussione i loro pregiudizi verso di noi, ma la comunicazione efficace necessita sempre di un punto di incontro e se non ci riesce il gruppo esterno alla nostra comunità, che poi è quello maggioritario, rendiamoci dunque parte virtuosa perché in ballo non c’è la soddisfazione di vincere o meno in una discussione, ma letteralmente la vita di milioni di animali.

Per cui, grazie Dario, ho imparato tanto, e ho anche riso spesso, cosa che non guasta mai!

Per ultimo, ma non in ordine di importanza, menzione speciale anche alla splendida copertina realizzata dal bravissimo Bruno Bozzetto, che di certo non ha bisogno di presentazioni. Come diciamo in gergo: è uno di noi e con la sua arte si dedica moltissimo alla causa.

Rita Ciatti