Appunti di
Maristella Diotaiuti per la presentazione del volume di Chiara Serani, Dialoghi della sedia. Azioni a più voci, Anterem Edizioni, 2023, Libreria Tra le Righe, Pisa,
13 giugno, 2025, con Chiara Serani, Bianca Del Buono, Maristella Diotaiuti.
Opera vincitrice del Premio Lorenzo Montano
(sezione opere inedite, 2022), finalista al Premio Nazionale Elio Pagliarani
(2024) e al Premio Versante Ripido (2024).
Il femminile
nell’opera di Chiara Serani, Dialoghi
della sedia
di Maristella
Diotaiuti
Su questo testo
è stato detto molto e da critici,
scrittori, lettori autorevoli, anche perché permette, nella sua complessità, molteplici percorsi interni, molti
itinerari di lettura e di analisi, e sollecita
numerosi spunti di riflessione e di intuizioni, di tematiche, ma nel
quale possiamo rintracciare (anche per comodità di analisi) due grandi direttrici:
- quella della
letterarietà, della forma,
della costruzione del testo, e
della ricerca formale di chiara,
del lavoro sul linguaggio, sul
linguaggio poetico, sulla
significazione, di cui è stato già detto molto.
- invece
vorrei concentrarmi sull’altro filo rosso che attraversa tutto il testo, anzi, direi, ne è l’ossatura, lo scheletro
portante, sul quale forse non si
è ancora abbastanza posto l’accento, cioè l’elemento del femminile, della problematizzazione del femminile.
Ma prima
vorrei dire due cose sul primo aspetto (che poi si intreccia con
l’altro, hanno dei punti di connessione). È un testo di forte potenza linguistica e di rappresentazione, connotato da molti elementi di assoluta novità, pur muovendosi dentro a una più generale categoria di quella che viene definita (della c.d.) poesia di ricerca, perché questo è un testo poetico che apre anche a
una ridefinizione del canone poetico, che poi significa anche rifondare il linguaggio, e un linguaggio, una lingua,
che includa la donna, la preveda, la rappresenti, e quindi recuperare
una sorta di grado zero del
linguaggio. Non è un caso che la
protagonista non parla – occorre recuperare
una lingua prestrutturata, prelogica, precodificato.
Nella stessa
direzione va anche l’invenzione
dell’azione scenica che Chiara realizza proprio attraverso il
linguaggio – e non a caso anche
qui c’è un teatro azzerato, nel senso che Chiara costruisce un immaginario teatrale (e performativo) in assenza, la performance teatrale non c’è, e quello che leggiamo è uno scritto che immagina una performance e la mima,
(questo poi fa entrare in gioco anche la figura dell’ekfrasis, di cui poi ci parleranno Chiara
o Bianca), e quindi l’azione scenica diventa linguaggio e il linguaggio diventa azione scenica.
Quindi il
linguaggio non è più una rappresentazione di qualcosa che preesiste, ma crea l’oggetto nel momento in cui lo nomina,
è quello che fa la lingua materna
– lingua prelogica per eccellenza,
è il momento sorgivo del linguaggio e
del mondo, la lingua materna crea il
mondo e le cose nello stesso momento in cui dà loro un nome, è
oggettivante, e Chiara fa le cose con
le parole, per parafrasare
(parafrasando) il titolo di un libro di John Austin (filosofo e linguista inglese) che parla appunto di atti
linguistici.
Proprio per come è strutturato, per il suo linguaggio, è un libro che assolve pienamente a quella
che secondo me deve essere la funzione
principale della letteratura, e
soprattutto della poesia, cioè
di mettere in crisi, aprire le crisi, problematizzare,
aprire tagli, ferite, e di ferite e di crisi, non a caso, nel testo di Chiara ce ne sono tante
È quindi un
testo che disorienta il lettore, lo mette in crisi appunto, perché disattende totalmente alle sue aspettative, alle sue richieste pacificatorie, non risponde alle domande che il lettore si fa preventivamente delle quale vuole trovare risposta
nel testo, deve quindi riformulare
il suo statuto di lettore, e questo mi sembra molto importante anche
alla luce dell’editoria moderna e dei gusti attuali del lettore/lettrice.
È un testo
destrutturante dell’idea stessa
di testo, dell’io autoriale,
anche dell’ oggetto, del soggetto poetico, e anche dello statuto
di lettore che deve rivedersi. Un lavoro che va di pari passo con la
de-costruzione del corpo-identitario
femminile, dell’immagine della
donna : così come è stata
costruita nel corso della storia:
in maniera funzionale al pensiero e alla
cultura patriarcale, perché è sul
corpo della donna che il
patriarcato ha agito con violenza
da millenni, con azioni predatorie e di dominio, deprivandolo, snaturandolo, assoggettandolo,
diminuendolo, così come ha fatto con la natura, con il corpo
della natura. La physis si
trasforma in oggetto da controllare e dominare. Al pari del corpo della
donna. L’immagine della terra madre e
nutrice, della madre primordiale gaia, si trasforma in terra-patria e territorio da difendere e luogo
di esercizio del potere. il
potere dell’uomo che si esercita anche sugli altri gruppi
minoritari, ai margini,
considerati ‘abietti’ (citando Butler),
quelli che stanno sempre dall’“altra parte”. un potere che dimostra il bisogno di porre dei confini, tracciare i limiti del “campo”
per renderlo controllabile,
“governabile”. Scenario tristemente attuale.
Quindi, per tornare al linguaggio, nella costruzione
di una identità, una immagine di donna per la cui costruzione il linguaggio ha contribuito fortemente.
C’è un punto
del libro in cui ho trovato
questa connessione molto evidente:
(pag. 31) nella sezione Ballate
del tintinnio dei semi, in cui il corpo si copre, si riveste interamente dei fogli di un
libro scritto da altri (Chiara
dice scritto e illustrato dall’altra donna che è qui). Poi però li stacca questi fogli dal suo corpo,
ma viene via anche la pelle, la pelle
“si scortica”, si ferisce,
tanto gli si sono appiccicati addosso, perché l’azione di riscrittura del corpo-identitario della donna. La liberazione, non è indolore. Questa immagine
poi ritorna spesso nel testo, ad es. a
pag. 53, nella sezione Requiem del confessore, c’è sul corpo
disegnata, tatuata una serie di immagini, di oggetti, tutta una grammatica (sociale patriarcale e
capitalistica,liberistica) una codifica,
una normazione di cui liberarsi, che bisogna cancellare, ma non è facile farlo, delle cose restano incistate, dietro la schiena in un punto irraggiungibile:
siamo talmente dentro a questa cultura da esserne, a volte, inconsapevoli
portatori, ma occorre farlo, come fa Chiara in questo libro, mettersi dentro un
percorso, un percorso identitario
di autocoscienza, di individuazione e di liberazione, come
fa la protagonista di Chiara, [io la chiamerei personaggia, Chiara la chiama soggetto poetico, con grande consapevolezza teorica e auto-teorica,
ma credo che a questa definizione si
possa affiancare quella di personaggia, questo termine coniato, creato, conquistato dalla critica femminista moderna, nato in ambito letterario ma estensibile
direi ad altri ambiti, un termine che tanto disturba ma che individua
bene certe caratteristiche del femminile e della scrittura delle donne, perché davvero questo soggetto di Chiara è totalmente connotato al femminile.
Un percorso doloroso e non lineare,
tortuoso, quindi quello
messo in scena, pagina dopo pagina, sezione dopo sezione è una sequenza di stazioni rituali, di riti nient’affatto pacificatori. Per usare
un’altra immagine cara a Chiara: è un
lungo e doloroso travaglio, e un
parto al contrario, che implica sangue e umori, una maternità altra, che
richiede, implica forzature del corpo, gesti contrari,
rovesciati, ci sono contorsioni
e posizioni innaturali, e anche atti di autolesionismo, azioni ferenti. È un corpo in movimento, che si muove in maniera antifrastica,
direi ironica, dove per ironia si intende proprio una inversione del senso, una infrazione del senso comune, corrente, logico.
È un corpo-teatro,
è il corpo che mette in scena se
stesso, attraverso una performance che Chiara mutua, per sua dichiarazione, dalla body art degli anni ‘70, e non a
caso. Una performatività che
quindi funziona proprio come forma di resistenza e soprattutto
di ribellione al genere così
come codificato.
Come dice Judith
Butler: la performatività del
genere può essere un’azione sia di conformità che di resistenza alle
norme esistenti. Si può scegliere di fare genere in modi che sfidano le norme
esistenti, creando così una nuova
grammatica del genere. Ed
è proprio ciò che fa Chiara. Butler
parte dal presupposto che la performatività del genere non è una semplice
rappresentazione del genere, ma il suo stesso processo di costituzione – il
genere non è un’entità preesistente, ma viene “fatto” attraverso la ripetizione
di gesti, azioni e parole che sono socialmente riconosciuti come espressione di
quel genere: come parlare in un certo modo, indossare determinati vestiti, o
interagire con gli altri in un certo modo, costituisce il genere e lo rende
visibile e riconoscibile. quindi per scardinare questa normazione occorre
mettere in atto azioni “ostinate e contrarie”. Quindi la personaggia di Chiara
trasgredisce queste norme proprio con gesti contrari, rovesciati, destrutturati
e destrutturanti.
Un percorso, un parto, che si fa in solitudine, su una sedia inospitale, ma che convoca implicitamente, o più o meno esplicitamente, le altre donne a fare da levatrici.
Perché poi, alla fine, più o
meno ci rispecchiamo tutte in questa
donna.
Quindi siamo
dentro il femminile, è operazione
tutta al femminile, perché è un processo, che riguarda le donne, l’uomo
nel testo compare una sola volta, nella sezione Interludio della seggiola, dove tra l’altro è ferinizzato, è un cane che gira su
stesso con tutta la sua costruzione, il suo mondo patriarcale sulla schiena, non riesce a uscire da se stesso, dalla sua idea di maschilità - lo vediamo quotidianamente, purtroppo con
i femminicidi, le violenze sulle donne.
Questo apre a
tutta una serie di riflessioni sul maschile, su che tipo di maschile oggi è agito, sulla mancata rielaborazione del maschile un po’ ammuffito, ancora
attestato su posizioni misogine e patriarcali, per cui oggi gli uomini fanno fatica a confrontarsi, a ripensarsi
di fronte a una donna che non risponde più al loro
immaginario e alle loro
richieste, e apre anche alla
riflessione se il femminismo, se le donne debbano aprire agli
uomini, aiutarli o meno nel loro
percorso di cambiamento. Sono tutti
temi aperti, che il testo di Chiara
sollecita.
Ma intanto
qui, nel testo di Chiara protagonista è una donna col suo corpo sessuato, un corpo nudo di donna che si accampa sulla scena, dice delle cose
importanti, fortissime col proprio
corpo, è un corpo-parola, un corpo che si racconta partendo da uno spazio chiuso angusto, imprigionante: una
sedia (una delle tante emergenze
del testo, uno dei tanti oggetti-
simbolo che affollano il testo di Chiara) con la quale questo corpo
dovrebbe dialogare, ma che
– come ci dice anche il “della” del titolo Dialoghi
della sedia - non è un “con” che implica un rapporto dialogico, la sedia impone le sue leggi, la sua legislazione,
cosalizza il corpo. È lo spazio
asfittico destinato alla donna nel corso della storia, relegata nel chiuso delle pareti domestiche. Vi
rimando al bel libro di Daniela Brogi, Lo spazio
delle donne, dove si parla proprio di questo, e dove c’è anche quell’immagine efficacissima
della donna paragonata a un elefante in una stanza tanto ingombrante
da non essere vista, una donna
invisibile, muta, senza voce, che deve stare ferma, composta.
Elemento sacrificale:
è richiesto un sacrificio alle donne, in
quanto donne, proprio perché sono donne e anche nel testo di Chiara è presente
questo l’elemento sacrificale delle donne, rappresentato da Giovanna d’Arco, una irregolare, una disobbediente,
una eccentrica, una fuori-centro, il centro maschile, che aveva ricoperto ruoli di esclusivo
appannaggio maschile, aveva indossato
panni maschili, si era fatta
guerriera, aveva imbracciato le
armi, (e aveva anche vinto) e quindi, per questo, andava sanzionata, punita, sacrificata, messa al rogo.
Siamo quindi di fronte a un corpo in rivolta, è il
corpo in rivolta del femminismo degli
anni ’70.
Chiara mette
in scena, in campo, il privato,
– il corpo privato – il corpo così diventa politico, riportando
così, nella contemporaneità, rimettendo in circolo, rivitalizzando un vecchio slogan del femminismo storico, degli anni ’70:
“il personale è politico”, slogan che ha avuto il merito di dire
che i problemi delle donne vanno individuati e risolti nel sistema sociale perché
questo ne è la causa, e quindi la società deve confrontarsi con lo spazio
dell’esistenza individuale relegato nel privato. È così il testo poetico di Chiara si attesta
chiaramente come un testo politico.
- oggetti-simbolo:
in questo percorso di consapevolezza, di autoconsapevolezza, la personaggia
incontra tutta una serie di oggetti-simbolo,
di situazioni e personaggi simbolici,
anzi è un corpo assediato da
oggetti-simbolo c’è proprio un accumulo di oggetti che veicolano un femminile
stereotipato e normato, codificato e di cui quindi bisogna disfarsene.
– il primo
oggetto simbolo che incontriamo,
è quello che fa riferimento alla madre,
all’eredità materna, e allo stereotipo della donna angelo del focolare
(che sembra ormai superato, cancellato ma che ogni tanto ritorna). Non a caso, la
prima sezione si intitola Del
ferro, della lana, e dei capelli, ci sono dei gomitoli di lana, forbici, un paio di vecchi ferri da maglia che Chiara
individua con precisione, non
sono ferri qualunque, ma sono ferri
precisi, quelli suoi: della
madre, li riconosce, da
tutta una serie di caratteristiche, il
nastrino e quant’altro. Quindi
bisogna liberarsi dalle madri, dalla eredità delle altre donne che hanno introiettato, interiorizzato i modelli patriarcali (elaborati dagli uomini) e si sono fatte custodi dell’ordine patriarcale, e che
quindi propongono una immagine di sé,
un esempio di donna, davvero misero e distorto, un cattivo rispecchiamento. Occorre abbandonare i simboli di
questo femminile, di questo materno, gli strumenti delle madri, utilizzarne di nuovi, ripensare cioè un femminile diverso.
infatti
a pag. 16: Chiara scrive: per
terra davanti a me, è ammassato un accumulo di vecchi ferri da maglia, tutti
ammonticchiati in un grande shangai […] me li butto dietro la spalla sinistra
come fossero manciate di sale […]
(uno scongiuro quasi, un rito apotropaico, ) alla fine raggiungo i miei ferri, e comincio a dipanare,
lenta, il filo. lo lavoro […] finché la lana non è del tutto esaurita. lo
adagio a terra. si spengono le luci. (ha compiuto il suo atto liberatorio )
E c’è, a pag. 20, la costruzione
di un nuovo corpo, una nuova
pelle, una nuova identità:
si è liberata di tutti gli strumenti,
gli abiti. Nella sezione Suite dell’armadio,
gli abiti-identitari ,
simbolicamente parlando, che le sono
stati messi addosso, cuciti come
una cappa pesante.
- partenogenesi:
e quindi siamo dentro un percorso di
disnascita e rinascita, ma una
nascita questa volta per partenogenesi,
è un nascere da sé, mettere al mondo se stesse da se stesse, partorirsi, usare i propri strumenti, i propri “ferri”. È
quella immagine efficacissima di
lei che mangia tutta la marmellata di
ciliegie della madre: ingurgitare e
digerire, espellere l’eredità
materna, e rielaborarla, farne qualcosa di nuovo, di proprio (pag.
25).
Questo nascere da sé mi fa venire in mente le Partenoi, le Partenopi: le dee
primordiali e poi sacerdotesse
di queste dee, che generavano
senza l’ausilio del maschio, erano le madri-vergini dedite all’autoconcepimento
e al parto virginale (parthenos
significa “vergine, fanciulla” ma anche autogenesi). Queste dee ancestrali, primigenie,
pre-greche, avevano generato
se stesse, il cosmo, la terra e tutta la vita, senza l’ausilio del maschio,
da se stesse, dalla propria essenza.
E così, allo stesso modo, tutta la classe sacerdotale femminile, le sacerdotesse del culto di queste dee, specializzate nel concepire nuove vite (divine) in modi non
ordinari, attraverso sacri riti
riproduttivi erano in grado
di indurre una miosi spontanea degli
ovuli attraverso la quale generavano
altre divinità.
Anche la Madonna
cristiana, che ha sostituito le
Partenoi, incarna questo potere,
e sul quale la dottrina cattolica ha
costruito il dogma dell’Immacolata Concezione. Questa
capacità delle donne, che
ritroviamo ancora all’interno dei miti, è stata sepolta dal patriarcato che ha spodestato le antiche dee depredandole, violentandole e usurpando il naturale e congenito potere,
soprattutto quando si scoprì un ruolo attivo del seme maschile nel processo
riproduttivo.
Molto significativamente il libro si chiude poi
con nuovi oggetti e nuove figure di donna: l’uovo e la papessa, la
papessa Giovanna, dove l’uovo,
la cova, è una immagine di
rinascita, della potenza
generativa e rigenerativa del corpo di donna.
L’uovo rappresenta il
principio materno della natura, da cui tutto ha origine e in cui tutto ritorna. Quindi è il simbolo della nascita e della
rinascita, del ciclo infinito della
vita.
La figura
della papessa è figura
matriarcale per eccellenza,
è una custode sapienziale (della
sapienza femminile) e della capacità
generativa, tanto che nei
tarocchi (marsigliesi) cova un
uovo, simbolo di gestazione e di rinascita, simbolo di potere, saggezza e intuizione, ma anche della conoscenza sia intuitiva che razionale,
quindi rappresenta la unione del
mondo materiale e il mondo spirituale, tra conosciuto e ignoto, tra luce e
ombra. quindi ricompone il femminile scisso dalla cultura e dalla cultura
patriarcale.
Quindi alla
fine del testo c’è proprio questa parola “fine” che nella sua ambivalenza è la fine, il termine di
qualcosa, ma anche lo scopo a cui si tende, è la conquista, raggiungimento
dello scopo, ecco alla fine la donna si
è ripresa tutto: il proprio
corpo, lo spazio pubblico,
il potere, l’unità del suo essere,
si è ricomposta nella sua interezza,
si è riappropriata della sua ferinità,
selvatichezza, l’inaddomesticato, e insieme del pensiero, accanto alla
papessa, otre all’uovo c’è il libro,
perché dice la filosofa Angela Putino,
anche le donne pensano.
E si è riappropriata della sua
sacralità.
A pag. 58: alla
mia sinistra c’è un uovo. Sono nuda, ma ho una mitra papale sulla testa, in
grembo un libro (riductio ad unum)
Maristella Diotaiuti