Il soggetto poetico, di Lucio Macchia.
«Noi
non abbiamo mai,
nemmeno
per un giorno, lo spazio puro
innanzi
a noi, in cui si aprono i fiori
senza
fine. È sempre un mondo e mai
un
nessun luogo senza no: il puro,
insorvegliato che si respira e si sa
all’infinito, e non si desidera»
(Rilke,
Elegie Duinesi VIII, 15)
Jacques Lacan ha dedicato tutta la sua straordinaria ricerca allo studio del soggetto. Chi è il soggetto? Che vuol dire essere un “soggetto”? Questa domanda non può non interessare l’animale umano, lo strambo essere parlante che abita la Terra. La risposta di Lacan è che il soggetto umano è generato dall’incontro tra il corpo vivente del “piccolo umano” – “non-ancora-umano”, in immanenza con il corpo materno – e il linguaggio. Lo statuto del linguaggio, nel corso del ‘900, è stato al centro dell’attenzione della riflessione filosofica, ed è emerso come qualcosa di completamente diverso da ciò che il senso comune intende. Non un modo di comunicare dei presunti pensieri, non un sistema di nominazione delle cose, ma una istanza che precede l’uomo stesso, in cui l’infante si trova avviluppato, e attraverso cui accede al mondo in quanto organizzato e ordinato dal linguaggio. La presa del linguaggio sulla carne viva consente l’accesso alla dimensione che Lacan definisce del “simbolico” con l’effetto traumatico di disarcionare il corpo dalla sua immanenza nell’essere, di dividerlo da quella condizione, facendone oggetto per la sua stessa percezione, ovvero facendolo accedere alla dimensione sdoppiante della coscienza. Sorge il soggetto “barrato” che è dell'ordine del significante, del concetto: è un soggetto parlante e quindi, proprio per questo, rappresentato dal significante e, al contempo, irrapresentabile dal significante che lo ha scisso dal suo stato "originario" di immanenza. Un soggetto alienato, la cui esistenza singolare ha subito una cancellatura ad opera del “morso” del linguaggio, e che emerge in superficie, alla luce del simbolico, lasciando rimossa in profondità l’azione traumatica di questa cancellatura e il residuo inafferrabile (non simbolizzabile) del suo stato di puro vivente “preverbale”. Questo sommerso è abitato dall’inconscio, con le sue logiche e le sue pulsioni. Dentro al linguaggio, il reale della vita è perduto e barattato con la realtà delle rappresentazioni, delle idee, della trascendenza, e l’animale umano è votato a vivere in una sorta di simulazione costruita con il sistema di significanti che l’Altro (ovvero il linguaggio stesso) struttura intorno a lui. Il poeta abita questa frattura. Vive la nostalgia, nell’orizzonte edenico di una cosa perduta. E, aporeticamente, la cerca. Cerca, oltre la realtà, il reale. Si affida al gesto di tentare, pur dall’interno del linguaggio, pur nella trama del simbolico, di far trasparire un mondo-non-mondo, un irrappresentato. In una inaggirabile antinomia, parla dell’imparlabile, forza e deforma e stira i significanti al limite del non-senso per svelare i buchi della significazione, per catturare frammenti, sensazioni, molecole di una perdita che ci costituisce, che è il nostro nucleo più essenziale. Non una perdita che avvenne all’inizio, una volta per tutte, ma che si istanzia in ogni momento, in ogni vita. Una mancanza che ci costituisce, un orizzonte dove si gioca la possibilità dell’autenticità. L’inaggirabile tensione a voler dire del nostro stare qui, come pure esistenze, unicità costituite da un impatto che si ripete senza fine e che presentifica il nostro singolare, specifico differire. Pur precario e fragilissimo. Una questione di orli, soglie, ombre. E mai un luogo senza no: il puro, insorvegliato che si respira e si sa all’infinito, e non si desidera (Rilke).
Immagine: J. Pollock