giovedì 22 maggio 2025

L’albero e il vento, di Lucio Macchia

 











L’albero e il vento, di Lucio Macchia

«e l’albero che respira il suo avvolgersi:

il suo incoglibile nesso – parlante»

(L. Macchia da Spersi stupori)


In un passaggio di Mille piani[i], nel plateau dedicato al Ritornello, gli autori ci parlano del ritmo. «Dal caos nascono gli Ambienti e i Ritmi»[ii]. Vi sono zone di passaggio in cui, nello scambio di codice tra un ambiente e l’altro, si produce il ritmo che è «replica degli ambienti al caos […]. Quel che è comune al ritmo e al caos è l’intervallo, intermezzo fra due ambienti, ritmo-caos o caosmo […] come fra due corsi d’acqua, fra due ore, fra cane e lupo, twilight o zwielicht»[iii]. Buio e luce. Danza del divenire. Dove i codici si incontrano scaturisce il ritmo come musicale sospensione tra caos (disordine) e cosmo (ordine): caosmo. Immanenza.  Ciò emerge con maggior forza in quelle particolari transcodificazioni tra ambienti in cui i codici si mescolano, si compenetrano, come nel caso ragno-mosca: «si direbbe che il ragno abbia una mosca nel cervello, un “motivo” di mosca, un “ritornello” di mosca […] come per la vespa e l’orchidea, la bocca di leone e il calabrone»[iv]. Gli autori citano il rapporto della foglia con l’acqua che non realizza necessariamente questo tipo di compenetrazione di codici, cosa che invece avviene nel caso della foglia con la pioggia. Foglie nella pioggia: una presenza in cui il divenire si produce in incessante differenza di forma, in consistenza di quodditas, di pura esistenza peculiare, irriferibile, non generalizzabile. In altri termini, ecceità. Ma, per il mio particolare sentire, la massima evidenza di questo meraviglioso ritmo viene colta negli alberi al vento, nel tremore infinitamente variabile delle foglie, nell’ansimare e volteggiare. Nel respiro stesso delle figure, dei volumi. L’albero al vento non è albero, e non vento: i due codici non sono più separabili ma si annodano in un nuovo che non ha nome, che sfarfalla all’orlo del caos, mostrandocelo nella massima misura alla quale ci può esser dato. Un infinitesimo in meno ci riporterebbe all’ordine regolare della periodicità, un infinitesimo di più e verrebbe cancellato dal gorgo del caos. In quel limine si presentifica – intoccabile, ineffabile – il mondo come possibilità dell’esperienza dell’immanenza. Come ciò che diviene e divenendo si differenzia, qui di fronte a noi, senza rimandi, senza trascendenze. Semplicemente l’evidenza di ciò che è, e che ci si offre. Ciò che a noi traspare attraverso «un setaccio teso sul caos»[v].

 



[i] G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, prima edizione originale 1980 (per le citazioni qui ho usato la traduzione italiana edita Orthotes 2017, versione kindle)

[ii] Mille piani, p. 356

[iii] Ibid. p. 357

[iv] Ibid. p. 358

[v] Espressione tratta da Che cos’è la filosofia di Deleuze e Guattari


mercoledì 21 maggio 2025

Le ragioni del veganismo e le risposte dei fedeli al carnismo, di Rita Ciatti.

 










Le ragioni del veganismo e le risposte dei fedeli al carnismo.

di Rita Ciatti. Pubblicato nel blog https://www.viverevegan.org/  il 24 settembre 2021.


Quando i carnisti* si confrontano con i vegani, per difendere la loro posizione, danno vita ad una serie infinita di obiezioni, spesso davvero fantasiose. Le argomentazioni spaziano su diversi livelli e Rita Ciatti le divide in quattro macro-insiemi: quello dell’etica al ribasso; quello della nutrizione; quello della zoologia/etologia; quello dell’antropologia. Questo articolo affronta il primo, l’etica al ribasso.


La maggioranza ha sempre ragione?

Mettete una persona vegana in una stanza (anche virtuale, cioè l’account o la pagina di un social qualsiasi) insieme a carnisti convinti (l’aggettivo “convinti” potrebbe essere quasi pleonastico, dal momento che il carnismo*, come lo specismo in generale, è assimilabile a un atto di fede, cioè è l’adesione incondizionata a una credenza culturale basata su presupposti che oggi possono essere facilmente smontati e dimostrati come fallaci) e quasi inevitabilmente si scatenerà una rissa (metaforica, si spera). Il luogo comune vede la persona vegana pronta ad accusare, giudicare, aggredire tutte le altre; nella realtà accade quasi sempre il contrario: basta che si dichiari di non mangiare animali e derivati e subito si viene tempestati da obiezioni di vario tipo, volte sia a rassicurare e confermare la propria fede nel carnismo, sia ad attaccare e screditare il veganismo da più parti.

Il solo fatto di esporsi su un argomento così divisivo ci rende facilmente vulnerabili in quanto minoranza che mette in discussione credenze e idee radicate culturalmente (almeno per quanto riguarda il mangiare gli animali e derivati, pratica che comunque non esaurisce lo specismo), sostenute dalla maggioranza e che possono essere riassunte nella proposizione: mangiare “carne”, cioè animali, è normale, naturale, necessario.

Stanchi di rispondere sempre alle stesse obiezioni, a volte ci salviamo ricorrendo all’ironia e sarcasmo. I social pullulano di meme, post e persino account Instagram di attivisti che usano l’arma della comicità per prendere in giro i carnisti.

La semplice esistenza delle persone vegane (e spesso vegane da decenni) è la conferma che mangiare carne e derivati non è necessario ed è per questo che la sola nostra presenza in determinati contesti sociali può disturbare.

Le obiezioni possono essere riassunte in quattro macro-insiemi che contengono quattro fallacie logiche, cioè ragionamenti che sono illogici di per sé poiché partono da presupposti viziati, errati oppure semplicemente eludono il tema principale introducendone un altro apparentemente affine, ma concettualmente distante. Questi macro-insiemi sono: quello dell’etica al ribasso; quello della nutrizione; quello della zoologia/etologia; quello dell’antropologia.

Oggi affronteremo quello dell’etica al ribasso.

In questo insieme rientrano tutte quelle risposte/obiezioni che fanno appello all’impossibilità di adottare comportamenti etici al cento per cento, da cui il rifiuto di fare almeno quello che è nelle nostre possibilità fare e l’intento di screditare il veganismo assimilandolo a una sorta di pratica ascetica che non raggiunge i suoi obiettivi, come se l’obiettivo del veganismo non fosse quello di opporsi allo sterminio sistematico di miliardi di individui senzienti, ma di raggiungere l’immortalità di tutti i viventi (sì, sono ironica, ma quando ti dicono “Anche i vegani ogni volta che respirano possono uccidere un moscerino e poi anche l’insalata soffre” forse è proprio questo che pensano); e anche quelle obiezioni che confondono il tema dell’antispecismo con quello dell’ecologismo e dei diritti umani.

Un pomodoro, un telefonino, una mucca: trova le differenze.

Qualche esempio: “Anche i pomodori implicano sfruttamento perché vengono raccolti da persone sfruttate economicamente”; “Anche il telefonino o pc dal quale stai scrivendo comporta sfruttamento”.

In sé queste proposizioni sono vere. Spesso la frutta e verdura che compriamo è stata raccolta da operai sfruttati. Per produrre telefonini e PC vengono sfruttate persone, talvolta bambini.

Ma, uno, non abbiamo realmente la certezza che sia sempre così (almeno nel caso della frutta e verdura) e abbiamo comunque la possibilità di informarci sulla provenienza, evitando magari i prodotti che provengono da zone che sappiamo essere controllate dalla mafia o camorra e prediligendo quelli a Km. 0 che vendono nei mercati cittadini; due, si sta mettendo sullo stesso piano ontologico un animale con un pomodoro o un animale con un telefonino, dimenticando che lo sfruttamento delle persone che raccolgono la frutta o che sono impiegate nella produzione di alcuni prodotti è semmai un argomento indiretto rispetto allo sfruttamento e uccisione degli animali. Peraltro non è che gli addetti ai mattatoi o gli operai impiegati negli allevamenti siano trattati meglio e anzi, in alcune regioni, tipo la Campania, spesso gli allevamenti di bufale per produrre la nota mozzarella di bufala sono controllati dalla Camorra, quindi, a parità di sfruttamento indiretto di chi lavora per raccogliere pomodori, telefonini o “carne” e derivati animali, almeno scegliendo prodotti vegetali non siamo complici dello sterminio di altri esseri senzienti, che poi è questo il motivo per cui si diventa vegani, non altri (altrimenti non dovremmo parlare di veganismo, ma di alimentazione vegetale).

In tutti e tre i casi citati come esempio abbiamo più attori: animale ucciso, allevatore, macellaio e consumatore; frutto raccolto (poniamo sia il pomodoro), agricoltore, raccoglitore, consumatore; prodotto lavorato, operaio, consumatore.

Quindi, se a livello di sfruttamento degli attori umani che lavorano il “prodotto” in alcuni casi possiamo porci su un piano di presunta parità, quello che cambia enormemente è la natura ontologica del “prodotto”. In un caso è un frutto della terra, un pomodoro; in un altro ancora è un mero oggetto; nell’altro è invece un essere senziente, un individuo che viene considerato al pari di una merce, che viene ucciso per essere trasformato in prodotto, ma che non è un prodotto, non è un oggetto, non è una macchina per produrre qualcosa. Eludere questa differenza fondamentale significa ragionare in modo illogico e fallace.

Quindi, al netto delle problematiche etiche indirette che possono esserci nella produzione di ortaggi/verdure/frutta è comunque sempre più etico scegliere i prodotti vegetali anziché quelli che comportano l’uccisione di individui senzienti.

Un pomodoro non viene privato della sua esistenza ed esperienza nel mondo. Un telefonino è un oggetto, una cosa. Una mucca, un maiale, un pollo, un pesce, una gallina, un tacchino, una bufala ecc. invece sono esseri senzienti che vengono allevati per essere trasformati in prodotti.

La fallacia logica è nel considerarli già prodotti da consumare: al pari di un pomodoro, una carota o un PC.

E no, non si è consumatori consapevoli se si dichiara di conoscere la provenienza degli animali allevati e uccisi, a meno che per consapevole non si intenda: sì, sono consapevole di prender parte di un sistema che schiavizza e stermina esseri senziente, quindi di essere complice di un sistema di dominio e violenza.

E allora i batteri?

Rientrano nell’etica al ribasso anche tutte le scuse inerenti l’impossibilità di evitare l’uccisione di animali molto piccoli: “Quando vai in macchina schiacci insetti sul parabrezza, quando cammini uccidi le formiche, non puoi evitare di investire un gatto e ucciderlo”.

Anche questa proposizione è vera, ma non possiamo usarla come scusa in quanto c’è differenza tra un’azione intenzionale e un’azione involontaria.

Ovviamente se parlassimo di esseri umani non useremmo mai questa scusa per giustificare l’omicidio.

Pur non potendo evitare di ferire, investire con l’auto, far del male a qualcuno involontariamente; di certo non useremmo un incidente come scusa per promuovere campi di concentramento umani (semmai se ne usano altre e storicamente spesso prima di arrivare a compiere atrocità su altre etnie si è sempre ricorso alla loro riduzione all’animalità in quanto insieme ontologico negativo e degradato per eccellenza proprio per innalzare l’umano e alcune tipologie di umano in particolare a seconda dei periodi storici e del paese in cui si vive).

Siamo animali molto grandi e possiamo uccidere involontariamente insetti o altri piccoli animali nel solo atto di muoverci e uscire di casa; ciò non deve esimerci però dall’evitare la violenza intenzionale. Possiamo uccidere parassiti o batteri (i batteri non credo siano senzienti, come non lo sono i virus) per sopravvivenza, ma si tratta appunto di una forma di legittima difesa e non è di questo che si occupano il veganismo e l’antispecismo.

Il pescatore thailandese è più vegano del vegano occidentale? No.

L’altra fallacia logica invece tiene in considerazione l’impatto ambientale e anche in questo caso si mettono sullo stesso piano i prodotti vegetali e gli animali. Il parametro usato è quello dell’impatto, dimenticando la natura senziente degli animali e la loro soggettività.

Forse è vero che a livello di impatto ambientale un pescatore della Thailandia inquina meno di una persona vegana che consuma prodotti industriali in occidente, ma ancora si stanno mettendo sullo stesso piano due entità molto diverse. Il pescatore e il consumatore occidentale vegano sono entrambe due persone umane, ma il primo uccide un ulteriore individuo, il secondo no.

Un prodotto vegetale, per quanto comporti sfruttamento umano, consumo idrico, dei territori ecc., almeno non contempla l’uccisione di un ulteriore individuo senziente. Lo ripeto: il veganismo è l’opposizione allo sterminio sistematico degli animali e va di pari passo con l’antispecismo. Altrimenti non possiamo parlare di veganismo, ma di alimentazione vegetale per altri fini.

E comunque sia, produrre vegetali è sempre conveniente in termini di: risparmio idrico, consumo dei territori, inquinamento ambientale e persino sfruttamento umano perché raccogliere un pomodoro, per quanto possa essere faticoso, è quanto meno un’attività che non comporta violenza diretta su altri individui. Di fatto i consumatori carnisti delegano ad altri ciò che essi stessi farebbero malvolentieri: cioè uccidere, spellare, sezionare, tagliare, trinciare individui senzienti.

Consumare vegetali è più etico

Consumare animali e consumare vegetali sono due pratiche che non potranno mai essere messe sullo stesso piano etico, nemmeno al netto del miglioramento della loro produzione.

Anche l’allevatore più attento, il pescatore più ecologista che ci sia e il consumatore più consapevole sono comunque colpevoli o mandanti di aver tolto la vita a esseri senzienti. La pratica di allevare, schiavizzare, usare, trasformare in prodotti gli altri animali è una pratica di violenza. Per quanto normalizzata, normata da leggi assurde, naturalizzata, alla fine si riduce sempre comunque all’atto pratico definitivo e irreversibile di sgozzare esseri senzienti.

Questi ragionamenti di etica al ribasso vengono sempre adottati quando si parla degli altri animali a causa, ovviamente, dello specismo.

Infatti non diremmo mai a una persona che fa volontariato per i bambini orfani “Anche il pc da cui stai scrivendo probabilmente ha reso qualche bambino orfano”, o a chi fa volontariato per i diritti umani in qualche paese del mondo assediato dalla guerra “L’aereo con cui vai in quel paese ha sterminato un miliardo di insetti”.

Il veganismo non può essere disgiunto dall’antispecismo, altrimenti viene svuotato di ogni significato e diventa una dieta tra le tante. Gli altri animali devono restare soggetti centrali, altrimenti il campo delle argomentazioni indirette mostra il fianco ad obiezioni di vario tipo, ugualmente smontabili, ma che aggiungono confusione alla già scarsa conoscenza dell’argomento.

Rita Ciatti
Progetto Vivere Vegan


*Il termine carnismo è stato coniato dalla psicologa statunitense Melanie Joy nel libro “Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche?” pubblicato da Sonda.


lunedì 19 maggio 2025

Tour per Beatrice Hastings: Napoli. Teatro Ichos. 18 maggio, 2025. Performance artistica e approfondimento.

 









Tour per Beatrice Hastings: Napoli. Teatro Ichos. 18 maggio, 2025.

Performance artistica e approfondimento.
Enzo Nini (musicista),
Maristella Diotaiuti (curatrice delle opere: introduzione),
Salvatore Mattiello (Teatro Ichos),
Maurizio Magnetta (ripresa video).

In questa meravigliosa performance, la voce, la parola, la personalità, il pensiero di Beatrice Hastings sono stati colti perfettamente da Patrizia Di Martino ed Enzo Nini nella dimensione artistica. L'opera in acrilico "Beatrice Hastings", di Marek Maria Dutka, silenziosa protagonista sul palco.

Nei tre frammenti del video di Maurizio Magnetta:

1) Un passo dalla Dichiarazione di Beatrice Hastings sulla maternità, pubblicata in Woman's Worst Enemy: Woman, Beatrice Hastings, a cura di Maristella Diotaiuti, traduzione di Carolina Paolicchi, Astarte Edizioni, Pisa, 2023:
https://www.youtube.com/clip/UgkxtVguwYFsArNRsaz-DxpEKHkkIctIwZe7

            
2) Lettura della poesia anticolonialista Le terre rubate, di Beatrice Hastings, pubblicata nel volume Beatrice Hastings in full revolt, Diotaiuti, Tortora, Le Cicale Operose, 2020.





3) lettura dall'opera La commedia delle fanciulle, di Beatrice Hastings, a cura di Maristella Diotaiuti, traduzione di Rubina Valli, Terra d'ulivi Edizioni, 2025. Testo raccolto da Federico Tortora (Le Cicale Operose).





Immagine: Opera in acrilico "Beatrice Hastings, di Marek Dutka

mercoledì 14 maggio 2025

Appunti di Maristella Diotaiuti per il Simposio on-line sulle sorellanze, ideato e a cura di Valeria Bianchi Miani: “Luci e ombre del femminile plurale”

 











Appunti di Maristella Diotaiuti per il Simposio on-line sulle sorellanze, ideato e a cura di Valeria Bianchi Miani: “Luci e ombre del femminile plurale” (14 maggio, 2025).

Con Valeria Bianchi Mian, Cinzia Caputo, Maristella Diotaiuti, Silvia Rosa.


La sorellanza è un legame orizzontale, tra donne che si incontrano e si relazionano, ma è anche un legame verticale, un’eredità che si tramanda, un modo per passare le une alle altre quegli anticorpi che è necessario acquisire per contrastare lo sguardo patriarcale che anche le donne sono state educate a utilizzare per osservare se stesse e le altre.

Da questo punto di vista, Hastings è sicuramente una figura emblematica, direi paradigmatica in tal senso, utile per parlare dei rapporti tra donne, della sororanza, dei chiaroscuri del femminile, dal momento che non solo ha sollevato, nelle sue opere, la problematicità di questi rapporti e le ambivalenze del femminile del suo tempo (siamo nella prima metà del ‘900), ma che ha anche subìto in prima persona gli effetti di un certo sguardo e di una certa mancata solidarietà femminile.

Hastings ha avuto il coraggio di dire cose scomode sulle donne ma che riteneva necessarie, di contestare non solo il maschile, verso il quale si è scagliata sempre violentemente, senza riserve, ma anche un femminile che ancora vedeva compromesso da un patriarcato pervasivo e fortemente introiettato, di criticare quelle donne che avevano assunto come proprio il sistema valoriale maschile e lo difendevano e agivano, a scapito del proprio femminile. (immagine quanto mai attuale, direi, purtroppo!)

E molte sue idee poi erano talmente all’avanguardia, e in anticipo sui tempi, da risultare irricevibili, disturbanti e anche pericolose (dagli uomini sicuramente, ma anche dalle donne, o almeno un certo tipo di donne, diremo più avanti).

Hastings ha parlato di “sorellanza” in termini politici in tempi in cui non è ancora nemmeno coniato il termine. Il concetto di sorellanza arriva, infatti, piuttosto recentemente e in una certa accezione, di unione di anime, di empatia. In Italia il termine sorellanza viene addirittura proposto da un uomo, Vittorio Ceroni, in una lettera all’Accademia della Crusca (proponeva di usare appunto la parola “sorellanza” perché trovava poco adatta la parola fratellanza per spiegare certi legami tra donne soprattutto legati al corpo).

Il termine sorellanza poi entrerà nel linguaggio comune negli anni settanta, con le femministe della seconda ondata, che introdussero il motto “la sorellanza è potente”, e a dargli una portata politica, portandolo alla base stessa del movimento come motivo di unione per la lotta contro il patriarcato.

Anche per Hastings la sorellanza è potente, come sente potente il femminile. Crede fortemente nel femminile come forza, energia creativa, generatrice e rigeneratrice, è per un femminile libero, liberato, luminoso, propone il pensiero e le pratiche delle donne: pratiche di relazione, di solidarietà, di soluzione pacifica dei conflitti, di pace, libertà e felicità, piacere, di bellezza (il sistema valoriale che realizza, se pur nella finzione letteraria, in una sua opera, un romanzo epico-cavalleresco La commedia delle fanciulle, Terra d’ulivi Edizioni, 2025), attraverso quella che lei chiama la crociata della bellezza. Un femminile che non si è mai realizzato nella storia, nel mondo, perché la storia è stata fatta, ed è fatta dagli uomini. Il mondo è un mondo tutto declinato al maschile, complici, dice Hastings, anche le donne che si fanno servitrici, ancelle del patriarcato.

Per questo Hastings sente l’esigenza di chiamare a raccolta le donne, una chiamata a fare gruppo, all’impegno condiviso, alla lotta condivisa contro l’ingiustizia patriarcale (pensiero che fu poi del femminismo degli anni ‘70). E lo fa attraverso la sua scrittura, le sue opere, è un filo rosso che percorre tutte le sue opere: articoli, saggi, romanzi, novelle, poesie quali Vashti, Compagne, Le terre rubate e molte poesie che si rifanno al mito, ove recupera figure femminili mitologiche in una rilettura moderna e anche femminista.

Hastings è consapevole che la solidarietà femminile non è realizzabile in seno al patriarcato, che occorre un atto di forza, anche da parte sua come scrittrice donna. Questo atto di forza lo compie soprattutto in un suo saggio, Il peggior nemico della donna: la donna (Astarte Edizioni, 2022), il suo libro più politico, più urticante e più eversivo, e anche più duro e dirompente, che già dal titolo rivela tutta la sua portata provocatoria e di rottura, perché va a toccare punti nevralgici e nervi scoperti, tanto da provocare, già all’indomani della sua uscita, le reazioni degli uomini e delle donne, da quelle più compromesse col sistema patriarcale a quelle più vicine ai movimenti di rivendicazione femminile, a cominciare dalla suffragiste che l’hanno a più riprese attaccata ferocemente e definita una disfattista, una nemica delle donne e una antifemminista, fraintendendo totalmente il suo messaggio. Tutte si sono sentite colpite, chiamate in causa, ma era esattamente lo scopo di Hastings scuotere coscienze. Infatti, in questo libro sottopone a critica feroce tutta la costruzione patriarcale della femminilità e della maternità, del matrimonio e della sessualità, e quindi il topos, lo stereotipo di donna moglie-madre-angelo del focolare, stucchevole e ingabbiante per le donne e voluto dal patriarcato, in cui però le donne si sono accomodate. Ma il suo assalto non è portato indiscriminatamente a tutte le donne, ma solo a coloro che hanno tradito il femminile, perché hanno sottratto se stesse e le proprie figlie, le giovani donne, fin dalla nascita, alla genealogia (ideale e reale) del materno, del femminile, ascrivendole invece all’ordine valoriale paterno e maschile, rendendosi complici, vestali, ancelle dell’ordine patriarcale. Hastings è contro quelle donne che hanno assunto la maternità e il matrimonio come viatico sociale, come strumento, mezzo per garantirsi privilegi e protezioni e, attraverso lo status di donna sposata, opprimere le figlie, destinandole inevitabilmente e forzatamente allo stesso ruolo, quindi perpetuando il patriarcato. Opprimere anche le altre donne non conformi a quel modello, e nel pamphlet, in maniera molto puntuale e radicale, Hastings elenca queste altre tipologie femminili. Anche in questo è molto moderna, anticipando molti temi dell’intersezionalità, perché comprende che finché le donne usano il loro potere di classe o di razza per dominare altre donne, la sorellanza femminista non può realizzarsi. Anche qui Hastings anticipa tematiche che ancora oggi resistono. Sappiamo quanto ancora oggi le donne che non hanno figli sono stigmatizzate, ritenute incomplete, inconcluse, come se l’identità della donna, e in alcuni casi, il suo ruolo nel mondo, passasse ancora e solo attraverso la maternità e il matrimonio. Per Hastings ogni donna ha il diritto di poter scegliere se essere madre o no, di rinunciare ad essere madre senza riceverne uno stigma sociale. È contro la maternità imposta alle donne come un destino inevitabile, come un obbligo imprescindibile e naturale, ma ha un’idea altissima della maternità se scelta e consapevole, assimila la vera madre a una dea, colloca la maternità in una dimensione sacrale. Hastings vorrebbe la donna liberata, a partire dall’educazione, la cultura, l’istruzione, il lavoro, di stampo sempre patriarcale, se non misogino, e anche capitalistico, libera da un’idea di sessualità finalizzata alla procreazione che non prevede il piacere della donna, che la vuole asessuata (secondo la dicotomia madonna/puttana). È per la pratica dell’amore libero, che lei stessa ha realizzato nella sua vita personale di donna.

Il patriarcato ci ha privato da secoli l’una dell’altra attraverso un processo di deprivazione materiale e simbolico, funzionale al nostro sfruttamento, che ci separa costantemente. Le dinamiche patriarcali che tutte, nostro malgrado, abbiamo interiorizzato ci rendono allo stesso tempo attratte e diffidenti l’una verso l’altra.

Per questo Hastings ha scelto, sollecitato il confronto tra donne, smantellando gli stereotipi sessisti interiorizzati. Il conflitto è per Hastings una pratica politica e un modo per costruire la vera solidarietà, una solida sorellanza.

 M.D.

Poesia e Tempo, di Lucio Macchia

 



Poesia e Tempo, di Lucio Macchia

« Parigi cambia!

ma nulla

nella mia malinconia

si è mutato»

(C. Baudelaire)

 

Baudelaire non poteva accordare la sua durata a quella del mondo della tecnica. Il suo divenire umano a quello mercificato del mondo mercantile. Il non mutare della sua malinconia non è da intendersi nel senso di una sorta di “costanza interiore” ma come impossibilità di sincronia con la legge della città. Il divenire percepito dal poeta non si articola nel tempo degli orologi (cfr. Heidegger), ma in quello evolutivo della durata bergsoniana. Il gesto della rivolta della poesia moderna nei confronti dell'aggressione reificante della tecnica ha, come terreno privilegiato di scontro, proprio il sentimento del tempo. Bergson[i] porta avanti una critica radicale al tempo della tecnoscienza che si presenta come "processo cinematografico" in cui il divenire è ridotto alla transizione prevedibile tra fotogrammi immobili di una realtà congelata dallo sguardo meduseo del pensiero calcolante. A tale concezione sfugge completamente la natura del movimento. Persino la semplice azione di sollevare un braccio, ci fa osservare Bergson, contiene un farsi del nuovo, una creazione interna, che viene invece ignorata a favore della riduzione del mistero irriducibile del movimento a una successione di stati stazionari che non restituiscono la natura del dinamismo ma sono in rapporto con esso come un ponte al fluire del fiume sottostante (altra meravigliosa immagine bergsoniana). Se la materia ci apparisse come un perpetuo scorrimento non potremmo assegnare alcun termine a nessuna delle nostre azioni. […] Noi concentriamo un periodo di questa evoluzione in un aspetto stabile che chiamiamo forma […] In realtà, però, il corpo cambia forma in ogni momento. O, meglio, non esiste forma, in quanto la forma attiene a ciò che è immobile, mentre la realtà è movimento. Reale è soltanto il cambiamento continuo di forma: la forma non è altro che un’istantanea presa su una transizione (Bergson). Sempre torniamo a constatare come la ripetizione dell'identico cancelli la ripetizione della differenza (cfr. Deleuze) in modo da consentire all'artiglio dell'idea di afferrare (begriff) il mondo. Di irretire la vita. Di farne concetto.


Immagine: Giacomo Balla



[i] Tutti i riferimenti e le citazioni di Bergson sono tratti dal suo saggio L’evoluzione creatrice (edizione italiana Raffaello Cortina, 2002).

martedì 13 maggio 2025

Addomesticare, schiavizzare, discriminare i viventi. La questione animale oltre la visione morale. Di Rita Ciatti

 










Addomesticare, schiavizzare, discriminare i viventi. La questione animale oltre la visione morale. 

Di Rita Ciatti

Gira il video di una tipa che dichiara di sentirsi offesa perché nel giorno della festa della mamma una minoranza di persone (leggasi: comunità vegan) ha parlato della maternità delle altre specie; la tipa asserisce che non si possono paragonare le madri umane a una pecora, mucca, capra, scrofa perché una mucca a cui viene portato via il figlio al massimo piange per un secondo e poi si volta dall'altra parte e se ne dimentica.
Ora, qui c'è una serie di riflessioni da fare, anche critiche.
La prima è sulla presunzione di sapere cosa provino gli altri animali rispetto a noi, ovviamente basata sui luoghi comuni specisti che abbiamo appreso culturalmente e che si rende necessario confermare e rafforzare per poter legittimare e rafforzare la loro schiavitù; simili considerazioni erano notoriamente diffuse anche ai tempi della schiavitù delle persone africane in cui intere famiglie venivano separate per essere vendute agli occidentali. Nel pensiero comune avveniva un processo di riduzione all'animalità, cioè si diceva che le donne nere, ad esempio, erano come le femmine animali, partorivano, allattavano, ma se le si separava dai loro figli dopo un tot di tempo si rassegnavano perché, ignoranti e di costumi bestiali, non sarebbero state in grado di provare sentimenti complessi.
Oggi infatti diciamo che lo specismo è affine al razzismo e che il modo in cui consideriamo gli animali è funzionale a esprimere altre considerazioni di valore riguardo altre etnie, genere, o singoli individui; basta paragonarli agli animali, stabilito una volta per tutte che sono inferiori, e il gioco è fatto.
Ora, non starò a smentire questo punto perché il punto non è giustificare l'oppressione sulla base di una presunta o vera diversità (fisica, mentale, etologica), bensì potersi arrogare il diritto di opprimere qualcuno sulla base di un rapporto di forza. Posso, dunque lo faccio.
Certamente le giustificazioni inerenti il valore di qualcuno sono funzionali a naturalizzare e normalizzare il dominio, e vengono prodotte man mano fino a cristallizzarsi culturalmente, però ciò che è funzionale al dominio alla fine è il dominio stesso, ossia il prodursi di condizioni materiali che lo rendano possibile ed efficiente. Certamente alcune specie, per delle loro caratteristiche intrinseche biologiche, sono state via via addomesticate, cioè sottomesse con coercizione, per soddisfare determinate richieste di produzione alimentare e mercificarli come capitale mobile ed è stato possibile farlo proprio in virtù di determinate caratteristiche, ad esempio il fatto che si trattasse di animali erbivori o onnivori e non di grossi carnivori che sarebbe stato difficile maneggiare o allevare in massa; questo sfruttamento sistematico e perfezionato al massimo dell'efficienza grazie alla tecnologia (zootecnia) ha poi prodotto una vera e propria differenza ontologica tra noi che esercitiamo il dominio e ci raccontiamo in un certo modo, attribuendoci una serie di caratteristiche positive, e le altre specie ormai racchiuse nella sola e unica dimensione possibile a noi congeniale al fine di poter continuare a trarne profitto, quella di essere risorse rinnovabili o selvatici da controllare, gestire, limitare.
Una volta prodotta la differenza ontologica il gioco è fatto, ma per produrla è stato necessario ridurre e limitare la complessità vitale ed esistenziale delle specie allevate fino a che non è stato possibile vederle solo entro quell'unico orizzonte produttivo. Ovviamente determinante è stato il fatto che gli altri animali non fossero dotati di logos (comunicano, lottano, resistono e si ribellano, ma ce ne freghiamo e usiamo tecnologie sempre più raffinate per contenerli o ci inventiamo narrazioni teriofobiche ad hoc per giustificare le uccisioni dei selvatici).
Certamente nei secoli ci sono state sempre minoranze composte da singoli pensatori capaci di andare oltre il pensiero comune e di scorgere la violenza sugli animali, ma evidentemente non organizzate a sufficienza da scalfire queste pratiche sistematiche e via via rese sempre più sofisticate.
Ciò che rende inferiori gli animali è lo stato di asservimento a cui li abbiamo sottoposti o il contrario? È il fatto di aver appreso e interiorizzato una serie di luoghi comuni e averli visti messi in pratica ogni giorno tramite una serie di raffinati procedimenti (atti linguistici, materiali) funzionali a reprimere il nostro sentire, la nostra empatia, la nostra integrità cognitiva così rendendo possibile la miopia che ad esempio ci impedisce di riconoscere l'individuo nella fetta di prosciutto o la sofferenza di una mucca separata dal figlio o il fatto di averli definiti inferiori sin dal primo istante in cui ci siamo riconosciuti come diversi? L'antropologia culturale ci insegna che i processi identitari si formano sempre sulla base di una cesura, di una differenziazione tra noi e l'altro, a partire dal neonato che è tutt'uno con la madre e con la realtà (sente e manifesta solo i propri bisogni) fino a che non se ne distacca durante il processo di crescita e apprende ciò che la società gli insegna (ad esempio, le donne valgono meno degli uomini, gli animali meno di noi).
Direi che oggi è difficile stabilire un prima e un dopo di un processo che ha richiesto millenni perché i luoghi comuni sono divenuti "cultura" appresa, trasmessa e interiorizzata, ma che certamente è necessario invertire il processo rendendo sempre più difficili le condizioni di chi sfrutta gli animali e ne trae vantaggio. E questo non avverrà semplicemente appellandosi al buon senso morale di chi li opprime traendone profitto economico o di chi li mangia traendone piacere ed esercitando un privilegio di specie.
Quando lessi I diritti animali di Regan rimasi convinta delle sue argomentazioni morali (ma perché io, come singola, ho una certa sensibilità verso gli animali; ma se fossi stata figlia di allevatori e mi fossi abituata a vederli uccidere?), però una domanda continuò ad aleggiarmi in testa per tutto il tempo ed ha continuato in tutti questi anni: noi siamo animali morali? La morale, cioè il fare bene o male, giusto o sbagliato, è sufficiente a muovere le nostre azioni, scelte, a influire sui nostri comportamenti? A voi sembra che il mondo sia organizzato secondo questi principi?
Allora come si fa a fermare la schiavitù animale? Dicendo alle persone che è sbagliato? Ci ascoltano? Qualcuno predisposto sì, ma chi ne trae profitto diretto non dismetterà la sua attività solo perché glielo diciamo noi, ma quando questa non sarà più economicamente conveniente. Quindi devono cambiare le condizioni materiali di produzione basate sugli animali.
Una volta restituita agli animali la loro piena dimensione, complessa e variegata, di fare esperienza del mondo, sarà anche più facile smettere di vederli solo come macchine o come prodotti. Vedere la schiavitù animale sin da quando nasciamo (che sia il cavallo che traina la botticella, il maiale immerso nei suoi escrementi, la mucca senza vitello attaccata alla pompa per spremere il latte dalle sue mammelle, ma anche il cane alla catena o il barboncino toy nella borsetta) fa sì che la normalizziamo, la accettiamo, la interiorizziamo, la naturalizziamo; fa sì che quando il bambino mostra un accenno di empatia, lo rassicuriamo secondo i modi che anche noi abbiamo appreso, così minimizzando la sofferenza degli altri animali, fino a negarla, così desensibilizzandoci nei confronti del loro dolore fino a non saperlo più riconoscere.
Come movimento per porre fine alla schiavitù animale ha ragione chi dice che dovremmo pensare strategie politiche ampie e diversificate per togliere innanzitutto potere a chi trae profitto degli animali perché convincere le persone che gli altri animali invece sono intelligenti ecc. da sola, come strategia, non può bastare. Non possono bastare i discorsi sulla morale (ed è inutile e dannatamente frustrante discutere con persone come la tipa soprammenzionata che si indigna per aver sentito parlare della maternità delle altre specie. Non cambierà idea nemmeno se staremo a discuterci per una settimana. I processi cognitivi sono lenti).
E lo dico da persona che per anni ha creduto nella sensibilizzazione basata sulla morale (certo, sono sempre stata critica sul mero proselitismo vegano e ho sempre pensato che le strategie dovessero essere ampie, che si dovesse fare l'uno e l'altro, però oggi penso che un certo tipo di attivismo sia debole e che ci faccia consumare un sacco di energie). Del resto dobbiamo farci due domande se ogni generazione di attivisti si sente sempre muovere le stesse sciocche obiezioni sulle piante che soffrono e la mucca che si dimentica del vitello.
È una gara impari in cui siamo sempre in perdita.
Non ho soluzioni facili da attuare, ma vedo la debolezza di un approccio solo morale. Lo dico con onestà intellettuale, avendo io creduto tanto in questo approccio.
Penso che funzioni e arrivi solo fino a un certo punto, a formare una massa più ampia, sì, ma il punto è che finora quello che è aumentato è solo il numero di persone che mangiano vegetale, ma non delle aziende, piccole o grandi che siano, che sono fallite o hanno convertito la produzione.
Una cosa, però: non bisogna deresponsabilizzare i singoli, ma indirizzarli verso pratiche e campagne politiche efficaci e non invitarli al solo mangiare vegetale. E bisogna trovare alleati politici validi, facendo bene attenzione a che non strumentalizzino la lotta per la liberazione animale (come fanno alcuni partiti che la includono solo per raccattare voti).

Immagine: Autore sconosciuto