L’albero e il vento, di Lucio Macchia
«e
l’albero che respira il suo avvolgersi:
il
suo incoglibile nesso – parlante»
(L. Macchia da Spersi stupori)
In un passaggio di Mille piani[i], nel plateau dedicato al Ritornello, gli autori ci parlano del ritmo. «Dal caos nascono gli Ambienti e i Ritmi»[ii]. Vi sono zone di passaggio in cui, nello scambio di codice tra un ambiente e l’altro, si produce il ritmo che è «replica degli ambienti al caos […]. Quel che è comune al ritmo e al caos è l’intervallo, intermezzo fra due ambienti, ritmo-caos o caosmo […] come fra due corsi d’acqua, fra due ore, fra cane e lupo, twilight o zwielicht»[iii]. Buio e luce. Danza del divenire. Dove i codici si incontrano scaturisce il ritmo come musicale sospensione tra caos (disordine) e cosmo (ordine): caosmo. Immanenza. Ciò emerge con maggior forza in quelle particolari transcodificazioni tra ambienti in cui i codici si mescolano, si compenetrano, come nel caso ragno-mosca: «si direbbe che il ragno abbia una mosca nel cervello, un “motivo” di mosca, un “ritornello” di mosca […] come per la vespa e l’orchidea, la bocca di leone e il calabrone»[iv]. Gli autori citano il rapporto della foglia con l’acqua che non realizza necessariamente questo tipo di compenetrazione di codici, cosa che invece avviene nel caso della foglia con la pioggia. Foglie nella pioggia: una presenza in cui il divenire si produce in incessante differenza di forma, in consistenza di quodditas, di pura esistenza peculiare, irriferibile, non generalizzabile. In altri termini, ecceità. Ma, per il mio particolare sentire, la massima evidenza di questo meraviglioso ritmo viene colta negli alberi al vento, nel tremore infinitamente variabile delle foglie, nell’ansimare e volteggiare. Nel respiro stesso delle figure, dei volumi. L’albero al vento non è albero, e non vento: i due codici non sono più separabili ma si annodano in un nuovo che non ha nome, che sfarfalla all’orlo del caos, mostrandocelo nella massima misura alla quale ci può esser dato. Un infinitesimo in meno ci riporterebbe all’ordine regolare della periodicità, un infinitesimo di più e verrebbe cancellato dal gorgo del caos. In quel limine si presentifica – intoccabile, ineffabile – il mondo come possibilità dell’esperienza dell’immanenza. Come ciò che diviene e divenendo si differenzia, qui di fronte a noi, senza rimandi, senza trascendenze. Semplicemente l’evidenza di ciò che è, e che ci si offre. Ciò che a noi traspare attraverso «un setaccio teso sul caos»[v].
[i] G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, prima edizione originale 1980 (per le citazioni qui ho usato la traduzione italiana edita Orthotes 2017, versione kindle)
[ii] Mille piani, p. 356
[iii] Ibid. p. 357
[iv] Ibid. p. 358
[v] Espressione tratta da Che cos’è la filosofia di Deleuze e Guattari