Addomesticare, schiavizzare, discriminare i viventi. La questione animale oltre la visione morale.
Di Rita Ciatti
Gira il video di una tipa che dichiara di sentirsi offesa perché nel giorno della festa della mamma una minoranza di persone (leggasi: comunità vegan) ha parlato della maternità delle altre specie; la tipa asserisce che non si possono paragonare le madri umane a una pecora, mucca, capra, scrofa perché una mucca a cui viene portato via il figlio al massimo piange per un secondo e poi si volta dall'altra parte e se ne dimentica.
La prima è sulla presunzione di sapere cosa provino gli altri animali rispetto a noi, ovviamente basata sui luoghi comuni specisti che abbiamo appreso culturalmente e che si rende necessario confermare e rafforzare per poter legittimare e rafforzare la loro schiavitù; simili considerazioni erano notoriamente diffuse anche ai tempi della schiavitù delle persone africane in cui intere famiglie venivano separate per essere vendute agli occidentali. Nel pensiero comune avveniva un processo di riduzione all'animalità, cioè si diceva che le donne nere, ad esempio, erano come le femmine animali, partorivano, allattavano, ma se le si separava dai loro figli dopo un tot di tempo si rassegnavano perché, ignoranti e di costumi bestiali, non sarebbero state in grado di provare sentimenti complessi.
Oggi infatti diciamo che lo specismo è affine al razzismo e che il modo in cui consideriamo gli animali è funzionale a esprimere altre considerazioni di valore riguardo altre etnie, genere, o singoli individui; basta paragonarli agli animali, stabilito una volta per tutte che sono inferiori, e il gioco è fatto.
Ora, non starò a smentire questo punto perché il punto non è giustificare l'oppressione sulla base di una presunta o vera diversità (fisica, mentale, etologica), bensì potersi arrogare il diritto di opprimere qualcuno sulla base di un rapporto di forza. Posso, dunque lo faccio.
Certamente le giustificazioni inerenti il valore di qualcuno sono funzionali a naturalizzare e normalizzare il dominio, e vengono prodotte man mano fino a cristallizzarsi culturalmente, però ciò che è funzionale al dominio alla fine è il dominio stesso, ossia il prodursi di condizioni materiali che lo rendano possibile ed efficiente. Certamente alcune specie, per delle loro caratteristiche intrinseche biologiche, sono state via via addomesticate, cioè sottomesse con coercizione, per soddisfare determinate richieste di produzione alimentare e mercificarli come capitale mobile ed è stato possibile farlo proprio in virtù di determinate caratteristiche, ad esempio il fatto che si trattasse di animali erbivori o onnivori e non di grossi carnivori che sarebbe stato difficile maneggiare o allevare in massa; questo sfruttamento sistematico e perfezionato al massimo dell'efficienza grazie alla tecnologia (zootecnia) ha poi prodotto una vera e propria differenza ontologica tra noi che esercitiamo il dominio e ci raccontiamo in un certo modo, attribuendoci una serie di caratteristiche positive, e le altre specie ormai racchiuse nella sola e unica dimensione possibile a noi congeniale al fine di poter continuare a trarne profitto, quella di essere risorse rinnovabili o selvatici da controllare, gestire, limitare.
Una volta prodotta la differenza ontologica il gioco è fatto, ma per produrla è stato necessario ridurre e limitare la complessità vitale ed esistenziale delle specie allevate fino a che non è stato possibile vederle solo entro quell'unico orizzonte produttivo. Ovviamente determinante è stato il fatto che gli altri animali non fossero dotati di logos (comunicano, lottano, resistono e si ribellano, ma ce ne freghiamo e usiamo tecnologie sempre più raffinate per contenerli o ci inventiamo narrazioni teriofobiche ad hoc per giustificare le uccisioni dei selvatici).
Certamente nei secoli ci sono state sempre minoranze composte da singoli pensatori capaci di andare oltre il pensiero comune e di scorgere la violenza sugli animali, ma evidentemente non organizzate a sufficienza da scalfire queste pratiche sistematiche e via via rese sempre più sofisticate.
Ciò che rende inferiori gli animali è lo stato di asservimento a cui li abbiamo sottoposti o il contrario? È il fatto di aver appreso e interiorizzato una serie di luoghi comuni e averli visti messi in pratica ogni giorno tramite una serie di raffinati procedimenti (atti linguistici, materiali) funzionali a reprimere il nostro sentire, la nostra empatia, la nostra integrità cognitiva così rendendo possibile la miopia che ad esempio ci impedisce di riconoscere l'individuo nella fetta di prosciutto o la sofferenza di una mucca separata dal figlio o il fatto di averli definiti inferiori sin dal primo istante in cui ci siamo riconosciuti come diversi? L'antropologia culturale ci insegna che i processi identitari si formano sempre sulla base di una cesura, di una differenziazione tra noi e l'altro, a partire dal neonato che è tutt'uno con la madre e con la realtà (sente e manifesta solo i propri bisogni) fino a che non se ne distacca durante il processo di crescita e apprende ciò che la società gli insegna (ad esempio, le donne valgono meno degli uomini, gli animali meno di noi).
Direi che oggi è difficile stabilire un prima e un dopo di un processo che ha richiesto millenni perché i luoghi comuni sono divenuti "cultura" appresa, trasmessa e interiorizzata, ma che certamente è necessario invertire il processo rendendo sempre più difficili le condizioni di chi sfrutta gli animali e ne trae vantaggio. E questo non avverrà semplicemente appellandosi al buon senso morale di chi li opprime traendone profitto economico o di chi li mangia traendone piacere ed esercitando un privilegio di specie.
Quando lessi I diritti animali di Regan rimasi convinta delle sue argomentazioni morali (ma perché io, come singola, ho una certa sensibilità verso gli animali; ma se fossi stata figlia di allevatori e mi fossi abituata a vederli uccidere?), però una domanda continuò ad aleggiarmi in testa per tutto il tempo ed ha continuato in tutti questi anni: noi siamo animali morali? La morale, cioè il fare bene o male, giusto o sbagliato, è sufficiente a muovere le nostre azioni, scelte, a influire sui nostri comportamenti? A voi sembra che il mondo sia organizzato secondo questi principi?
Allora come si fa a fermare la schiavitù animale? Dicendo alle persone che è sbagliato? Ci ascoltano? Qualcuno predisposto sì, ma chi ne trae profitto diretto non dismetterà la sua attività solo perché glielo diciamo noi, ma quando questa non sarà più economicamente conveniente. Quindi devono cambiare le condizioni materiali di produzione basate sugli animali.
Una volta restituita agli animali la loro piena dimensione, complessa e variegata, di fare esperienza del mondo, sarà anche più facile smettere di vederli solo come macchine o come prodotti. Vedere la schiavitù animale sin da quando nasciamo (che sia il cavallo che traina la botticella, il maiale immerso nei suoi escrementi, la mucca senza vitello attaccata alla pompa per spremere il latte dalle sue mammelle, ma anche il cane alla catena o il barboncino toy nella borsetta) fa sì che la normalizziamo, la accettiamo, la interiorizziamo, la naturalizziamo; fa sì che quando il bambino mostra un accenno di empatia, lo rassicuriamo secondo i modi che anche noi abbiamo appreso, così minimizzando la sofferenza degli altri animali, fino a negarla, così desensibilizzandoci nei confronti del loro dolore fino a non saperlo più riconoscere.
Come movimento per porre fine alla schiavitù animale ha ragione chi dice che dovremmo pensare strategie politiche ampie e diversificate per togliere innanzitutto potere a chi trae profitto degli animali perché convincere le persone che gli altri animali invece sono intelligenti ecc. da sola, come strategia, non può bastare. Non possono bastare i discorsi sulla morale (ed è inutile e dannatamente frustrante discutere con persone come la tipa soprammenzionata che si indigna per aver sentito parlare della maternità delle altre specie. Non cambierà idea nemmeno se staremo a discuterci per una settimana. I processi cognitivi sono lenti).
E lo dico da persona che per anni ha creduto nella sensibilizzazione basata sulla morale (certo, sono sempre stata critica sul mero proselitismo vegano e ho sempre pensato che le strategie dovessero essere ampie, che si dovesse fare l'uno e l'altro, però oggi penso che un certo tipo di attivismo sia debole e che ci faccia consumare un sacco di energie). Del resto dobbiamo farci due domande se ogni generazione di attivisti si sente sempre muovere le stesse sciocche obiezioni sulle piante che soffrono e la mucca che si dimentica del vitello.
È una gara impari in cui siamo sempre in perdita.
Non ho soluzioni facili da attuare, ma vedo la debolezza di un approccio solo morale. Lo dico con onestà intellettuale, avendo io creduto tanto in questo approccio.
Penso che funzioni e arrivi solo fino a un certo punto, a formare una massa più ampia, sì, ma il punto è che finora quello che è aumentato è solo il numero di persone che mangiano vegetale, ma non delle aziende, piccole o grandi che siano, che sono fallite o hanno convertito la produzione.
Una cosa, però: non bisogna deresponsabilizzare i singoli, ma indirizzarli verso pratiche e campagne politiche efficaci e non invitarli al solo mangiare vegetale. E bisogna trovare alleati politici validi, facendo bene attenzione a che non strumentalizzino la lotta per la liberazione animale (come fanno alcuni partiti che la includono solo per raccattare voti).
Immagine: Autore sconosciuto