I due
infiniti, di Lucio Macchia
Haec res,
ricade a te:
nel
momento esatto
in
cui ti ritrai,
quando
distogli il viso,
tutto
l’eterno impensato
ti
si fa avanti eludendo
gli
occhi, e ti giunge
–
immediato.
(L.
Macchia
da
“cosmi | minimi”)
Corro nel mattino ancora caldissimo di settembre, tra chiazze di sole e di ombra, strade e alberi di Roma. Corro attraverso i due infiniti di Bergson: questa idea meravigliosa mi accompagna nella fatica del gesto, con la sua capacità di fecondare il pensiero. «Non fidarsi dei pensieri che non sono nati all’aria aperta e in movimento»[i]. La metabolizzo, ricordo gli splendidi passaggi di Ronchi[ii], ma non la penso semplicemente come un’idea perché in realtà questo intreccio, come fra due amanti, di due infiniti insondabili, è concettualmente imprendibile. L’argomentazione cede all’esperienza. Le idee potenti sono per strada, si incontrano nel “fuori”. Due infiniti. Da una parte l’Uno, la perfetta cosmica unità del tutto, sorgente indicibile del secondo infinito, quello della innumerabile molteplicità delle cose. Ma non sorgente in senso causativo “classico”. Non vi è un loro darsi duale, ma un intreccio indissolubile, “organico”, una implicazione interna inafferrabile. Il darsi “tutto insieme” eppure molteplice, come ripetizione di una differenza assoluta. Il piegarsi incessante dell’essere in tutte le cose intorno, in me stesso, nella corsa e nel respiro. «La chose, s'intende ogni cosa, ogni ente attualmente esistente, accade, c'è, scindendosi in due direzioni [...] i due sensi dell'infinito: l'infinito attuale e l'infinito potenziale (o indefinito)»[iii]. Ogni scorcio di strada, ogni albero e ogni foglia, ogni palazzo e chiazza di luce, si dà come atto perfetto di una totalità infinita, come sua presenza pura, e, al contempo, si moltiplica nella infinità delle entità particolari, delle minime cose divisibili senza termine. La linea del fiume si mostra e insieme esplode nelle innumerabili increspature della superficie. Così ogni mio passo, ogni vetrina, ogni persona incontrata, increspa l’orizzonte dell’esistenza. Non c’è un “Uno” da qualche parte, in una trascendenza, che genera il molteplice. C’è, qui, ogni albero lungo la strada che è l’Uno, che è il molteplice. Essere qui, nell’istante, come apertura a questa cosmicità continua del cambiamento incessante. Esserne partecipe come lo sono i sassi, le foglie, le formiche nelle crepe delle cortecce. Pura immanenza di cui sentiamo l’istanza come “precedente” a ogni giudizio, concetto, parola. Una pura quodditas, un qualcosa che semplicemente è, in modo diretto, precategoriale. Appena lo pensiamo a un livello che non sia questo semplice evento corporeo dell’ordine del trauma, tutto precipita nel “solito mondo” e, oggettivizzandosi, perde vitalità. «Per definire lo schema generale dell'esperienza, Bergson stabilisce, quindi, un rapporto di implicazione necessaria tra due infiniti differenti per natura. L'assoluto, scrive, è "infinito", nella misura in cui "si presta nel medesimo tempo a esser compreso come totalità ed enumerato senza esaurirsi. Questa è la proposizione speculativa di una filosofia dell'immanenza assoluta»[iv]. Essere inscritti nell’esperienza assoluta dello “n=1” del molteplice che è uno, in un’equazione in cui i due termini si equivalgono non come fatti, oggetti, cose date, ma come istanze in atto, in processo continuo di cambiamento, il cui movimento, la perpetua azione di mutua compenetrazione, consegna l’uno all’altro, in una danza infinita, di due infiniti stretti in un abbraccio fuori dal tempo, che è la vita stessa. La vita in sé.
Immagine: Mondrian
[i] F. Nietzsche, Ecce homo
[ii] R. Ronchi, Il canone minore – Verso una filosofia della natura (ed. digitale Feltrinelli, 2017)
[iii] R. Ronchi, op. cit. pos. 3552
[iv] R. Ronchi, op. cit. pos. 3586