mercoledì 27 agosto 2025

Nota di lettura di Rita Ciatti per il volume "Anche Hitler era vegano. Demagogia e stereotipi della vegafobia", di Dario Martinelli.

 















Nota di lettura di Rita Ciatti per il volume 

Anche Hitler era vegano. Demagogia e stereotipi della vegafobia, di Dario Martinelli2025, Mimesis Edizioni.

 

Diciamocelo, noi vegani non stiamo molto simpatici alla maggior parte delle persone: moralmente superiori, arroganti, aggressivi, fanatici, estremisti, irragionevoli, patosensibili, misantropi, saccenti, rompiballe. Questi alcuni degli aggettivi con cui le persone definiscono le persone che per motivi etici hanno deciso di smettere di consumare gli animali e i loro derivati.

Questo testo di Dario Martinelli, semiologo, musicologo, poeta e autore di canzoni, scritto in maniera tanto accurata e documentata quanto spassosa (qualità che fa sempre piacere trovare anche in un saggio e non solo nelle opere di narrativa) esplora le ragioni di quella che lui definisce una vera e propria vegafobia, assimilabile cioè alle altre forme di fobia esistenti nei confronti di minoranze o di gruppi percepiti come “alterità” minacciose nei confronti del sistema dominante, con i suoi valori e tradizioni; perché indubbiamente una persona che per motivi personali, per esempio di salute o religiosi, dichiari di non poter mangiare il maiale o le cosiddette carni rosse non costituisce una minaccia all’ordine costituito e quindi non c’è ragione che venga bullizzata o attaccata al fine di dimostrare la sua “irragionevolezza” o “estremismo”, ragion per cui condizione essenziale della vegafobia è che il o la veg* di turno dichiari di esserlo per ragioni etiche.

Non c’è dubbio che tirarsi fuori da quella che è una pratica consolidatasi nei secoli, normalizzata e naturalizzata, non possa che essere visto come un modo di vivere quanto meno bizzarro, cioè non conforme a un certo ordine costituito, soprattutto quando le ragioni di questa scelta vanno a intaccare convinzioni profonde e radicate su più piani, non solo strettamente materiali, ma anche simbolici.

La parte, a mio avviso fondamentale e centrale di questo testo, senza la quale sarebbe anche impossibile comprendere appieno la vegafobia, è infatti propria quella che introduce il concetto di antropoteosi, ossia la teorizzazione di quella che sembra essere una vera e propria fissazione della nostra specie:  il bisogno di distinguerci qualitativamente dalle altre specie, ignorando la continuità evolutiva tra noi e gli altri animali e la percentuale altissima di attributi che con loro condividiamo (dati alla mano, condividiamo il 98% del nostro patrimonio genetico con i primati, infatti siamo primati anche noi, il 90% con in mammiferi e il 60% con i moscerini, tanto per fare alcuni esempi), di fatto quasi negando, consapevolmente o meno, di essere animali anche noi. Le ragioni di questa “dimenticanza” sono ovviamente molteplici, spesso ideologiche, ma la più elementare è che sostanzialmente non vogliamo ammettere di essere animali tra gli animali proprio perché li abbiamo sempre privati di quegli attributi positivi (o che riteniamo tali) che invece riconosciamo solo a noi stessi, fallacemente individuando ed enfatizzando quel poco che ci differenzia rispetto al tanto che invece ci unisce. Per meglio dire, definirci animali ci svilisce perché di fatto noi sviliamo gli animali: processo fondamentale per trovare giustificazione morale al loro sfruttamento e uccisione. L’antropoteosi è una sorta di mito o mitizzazione dell’umanità in opposizione all’animalità, gruppo che comprenderebbe quindi tutti gli animali, tranne noi. Per costruirlo ci sono voluti secoli, il sostegno di pensatori illustri, nonché delle principali religioni monoteiste, ma anche distorsioni e strumentalizzazioni a fini ideologici, ad esempio, delle teorie darwiniste.

La vegafobia, come tutte le discriminazioni verso un gruppo, si serve e nutre di vari elementi, tra cui gli stereotipi e i pregiudizi. Nella parte introduttiva del libro Dario ricostruisce l’origine di questi termini e di ciò che significano. Non sapevo ad esempio che il concetto di pregiudizio fu introdotto da Francis Bacon nel XVII secolo nella sua opera Instauratio Magna. Bacon, scrive Dario, “fornì una spiegazione di quelli che chiamò errori e superstizioni intrinseci e profondi nella natura della mente, chiamati idola mentis. Idola è un termine che possiamo tradurre come idoli, ovvero miti che l’essere umano onora al posto della verità” e che si distinguono in quattro tipi, idola tribus, idola specus, idola fori, idola theatri.

Segue una spiegazione molto interessante che ci aiuta a comprendere non solo la vegafobia, ma in generale i miti e credenze errate su molti argomenti e che, anche involontariamente, spacciamo per verità, addirittura per verità scientifiche (esempio: la carne fa bene, il latte fa bene, non è possibile vivere senza mangiare carne; miti che persistono nonostante l’evidenza di persone vegane da venti o più anni o di bambini svezzati con alimentazione vegetale, vale a dire che non hanno mai assaggiato carne di animali in vita loro e che godono di ottima salute).

Successivamente si passa alla definizione degli stereotipi, i quali, secondo l’analisi del giornalista Lippmann, che nel 1922 li teorizzò in un saggio, sono in stretta relazione con i pregiudizi, “essendo la base cognitiva di questi ultimi”, ossia in una relazione di causa-effetto.

Comprendere cosa siano i pregiudizi e gli stereotipi, come si formano e per quale esigenza della mente umana è fondamentale dunque per comprendere la vegafobia e in generale il processo con cui cataloghiamo e raggruppiamo, per facilità, le informazioni che ci arrivano dall’esterno. Si tratta di processi mentali in una certa misura anche naturali, cioè utili per raggruppare e sintetizzare le tante informazioni che ci arrivano, ma poi sostenuti e rafforzati da convinzioni molto spesso antiscientifiche e non corrispondenti al vero.

Il testo prosegue con la trattazione dei materiali audiovisivi, ossia di come il cinema, la televisione e in generale i media mainstream trattano il veganismo e i veg* (da specificare che Dario mette insieme vegetariani e vegani non perché non sappia la differenza e cosa comporti in termini di scelta etica, ma perché ai fini di questo libro entrambi i gruppi sono oggetto di vegafobia, sebbene i vegani, per ovvie ragioni, lo siano in misura maggiore).

Come sono rappresentati i veg* nel cinema? Come vengono caratterizzati i personaggi, marginali o meno, in un’opera filmica e televisiva? Prendendo in esame una trentina di opere, spaziando tra cartoni animali, sit-com, serie TV, film, stand-up comedy, scopriamo così che i veg* hanno sempre delle caratteristiche comuni e ben specifiche: strani, ingenui, bizzarri, idealisti, troppo buoni, ma anche ossessivi, polemici, rigidi mentalmente, incapaci di godersi la vita, talvolta, come la protagonista di Hungry Hearts di Saverio Costanzo, ortoressici, ossia eccessivamente preoccupati di contaminare il proprio corpo con alimenti ritenuti dannosi, preoccupazione che sconfina nella patologia. L’ortoressia, è bene ribadirlo, è appunto una patologia e può riguardare sia le persone veg* che quelle non veg*; rientra nello spettro dei disturbi alimentari, affine quindi all’anoressia e bulimia. Il regista Saverio Costanzo all’epoca dichiarò che non era suo intento criticare le persone vegane, eppure, guarda caso, Mina, la protagonista, è anche vegana, particolare che sicuramente ha contribuito ad alimentare lo stereotipo del veg* fuori di testa che per le sue manie si ammala. Piccolo aneddoto personale: quando comunicai a mio padre la decisione di diventare vegetariana (nemmeno vegana, quello lo sarei diventata successivamente), la prima cosa che mi disse fu: “Questa è una mania che ti ha trasmesso Andrea” (mio marito), mettendo insieme ben due pregiudizi in uno: che il vegetarianismo fosse una mania e che le manie si possono attaccare come un virus. Un esempio pertinente di vegafobia.

Sappiamo che queste rappresentazioni audiovisive sono a dir poco ingenerose e non centrano il focus della motivazione per cui si diventa vegani, ma è importante capire come i media ci rappresentano in quanto, essendo mezzi in grado di raggiungere una vasta fetta di popolazione, contribuiscono a rafforzare o delineare tout court l’immagine dei veg* e quindi ad alimentare la costruzione della vegafobia, di fatto allontanando la comprensione della serietà della questione animale.

Senza spoilerare troppo, come si dice in gergo, ossia elencarvi i numerosi punti affrontati in questo libro (tra cui ad esempio la differenza tra onnivori, polifagi e carnivori, già anticipata da Dario nell’altro suo libro Lettera a un futuro animalista o la parte dedicata all’ironia e alla satira), vi dico perché questo è un libro che ogni persona vegana farebbe bene a leggere, e non solo quindi, auspicabilmente, i diretti interpellati - cioè chiunque almeno una volta nella vita abbia pronunciato qualcuna o più delle seguenti frasi “Anche Hitler era vegano”, “Anche le piante soffrono”, “Però le zanzare le ammazzi”, “E se ti trovassi su un’isola deserta come faresti?”, “Senza proteine nobili ci si ammala”, “Siamo carnivori perché abbiamo i canini”, “I leoni mangiano le gazzelle”, “E il ferro dove lo prendi?” ecc.-; perché è importante comprendere il terreno di scontro, diciamo così, entro cui ci muoviamo e capire anche le motivazioni che portano i non vegani a percepirci come ostili, delegittimando quindi la portata etica della nostra scelta definendoci dei nullafacenti che anziché occuparsi delle cause davvero importanti pensano agli animali. Non è utile, facendo un po’ di autocritica (altra parte che si affronta nel libro), ergersi su un piedistallo dando degli idioti ignoranti a tutti coloro che ci criticano (tanto meno definirsi “illuminati”, “risvegliati” rispetto a una “massa dormiente”) perché se vogliamo avere dei risultati dobbiamo essere in grado di comprendere come gli altri ci vedono e percepiscono e se sono chiari i motivi che ci hanno fatto diventare veg*; dobbiamo conoscere quali sono i processi mentali che portano a costruire metaforicamente muri di incomunicabilità che poi di fatto impediscono di ottenere i risultati auspicabili nella questione che ci sta a cuore, ossia aiutare gli animali a liberarsi dal giogo della nostra oppressione e discriminazione.

Già, in conclusione, dove sono gli animali in questo testo? Ovunque. Perché è ovvio che il testo va a parare in una direzione, ossia: le persone non prendono sul serio i veg* perché sostanzialmente non prendono sul serio la questione animale, cioè gli animali.

In quanto gruppo di nicchia, sebbene in crescita, Dario ci invita anche a valorizzare ciò che unisce la galassia animalista anziché evidenziare ciò che ci differenzia (esattamente come per decostruire l’antropoteosi dovremmo iniziare a considerare ciò che ci unisce agli altri animali anziché ciò che ci differenzia). Abbiamo la responsabilità di fare del nostro meglio per rendere comprensibile la nostra causa, senza svenderla, ma con un pizzico di strategia.

Senza esagerare e senza adulazione, definisco questo libro tra i più interessanti che abbia letto sul veganismo. Ovviamente ognuno di noi ha delle preferenze, ossia predilige questo o quel punto di vista per analizzare un tema, scelta che dipende anche dalla propria formazione e non c’è dubbio che a me interessi moltissimo tutto ciò che riguarda segni, linguaggio, comunicazione in generale, processi mentali individuali e frutto di condizionamenti sociali, ma a prescindere da questo Anche Hitler era vegano affronta argomenti importanti finora trascurati nella letteratura animalista, argomenti che ritengo utili non sono ai fini di una conoscenza personale, ma anche per migliorare il proprio attivismo e approccio verso i non veg*. Sembra paradossale, nel senso che dovrebbero essere i non veg* a mettere in discussione i loro pregiudizi verso di noi, ma la comunicazione efficace necessita sempre di un punto di incontro e se non ci riesce il gruppo esterno alla nostra comunità, che poi è quello maggioritario, rendiamoci dunque parte virtuosa perché in ballo non c’è la soddisfazione di vincere o meno in una discussione, ma letteralmente la vita di milioni di animali.

Per cui, grazie Dario, ho imparato tanto, e ho anche riso spesso, cosa che non guasta mai!

Per ultimo, ma non in ordine di importanza, menzione speciale anche alla splendida copertina realizzata dal bravissimo Bruno Bozzetto, che di certo non ha bisogno di presentazioni. Come diciamo in gergo: è uno di noi e con la sua arte si dedica moltissimo alla causa.

Rita Ciatti