Nota di lettura di Rita Ciatti per il volume
Anche Hitler era vegano. Demagogia e stereotipi della vegafobia, di Dario Martinelli, 2025, Mimesis Edizioni.
Diciamocelo, noi vegani non
stiamo molto simpatici alla maggior parte delle persone: moralmente superiori,
arroganti, aggressivi, fanatici, estremisti, irragionevoli, patosensibili,
misantropi, saccenti, rompiballe. Questi alcuni degli aggettivi con cui le
persone definiscono le persone che per motivi etici hanno deciso di smettere di
consumare gli animali e i loro derivati.
Questo testo di Dario
Martinelli, semiologo, musicologo, poeta e autore di canzoni, scritto in
maniera tanto accurata e documentata quanto spassosa (qualità che fa sempre
piacere trovare anche in un saggio e non solo nelle opere di narrativa) esplora
le ragioni di quella che lui definisce una vera e propria vegafobia,
assimilabile cioè alle altre forme di fobia esistenti nei confronti di
minoranze o di gruppi percepiti come “alterità” minacciose nei confronti del
sistema dominante, con i suoi valori e tradizioni; perché indubbiamente una
persona che per motivi personali, per esempio di salute o religiosi, dichiari
di non poter mangiare il maiale o le cosiddette carni rosse non costituisce una
minaccia all’ordine costituito e quindi non c’è ragione che venga bullizzata o
attaccata al fine di dimostrare la sua “irragionevolezza” o “estremismo”,
ragion per cui condizione essenziale della vegafobia è che il o la veg* di
turno dichiari di esserlo per ragioni etiche.
Non c’è dubbio che tirarsi
fuori da quella che è una pratica consolidatasi nei secoli, normalizzata e
naturalizzata, non possa che essere visto come un modo di vivere quanto meno
bizzarro, cioè non conforme a un certo ordine costituito, soprattutto quando le
ragioni di questa scelta vanno a intaccare convinzioni profonde e radicate su
più piani, non solo strettamente materiali, ma anche simbolici.
La parte, a mio avviso
fondamentale e centrale di questo testo, senza la quale sarebbe anche
impossibile comprendere appieno la vegafobia, è infatti propria quella che
introduce il concetto di antropoteosi, ossia la teorizzazione di quella
che sembra essere una vera e propria fissazione della nostra specie: il bisogno di distinguerci qualitativamente
dalle altre specie, ignorando la continuità evolutiva tra noi e gli altri
animali e la percentuale altissima di attributi che con loro condividiamo (dati
alla mano, condividiamo il 98% del nostro patrimonio genetico con i primati,
infatti siamo primati anche noi, il 90% con in mammiferi e il 60% con i
moscerini, tanto per fare alcuni esempi), di fatto quasi negando,
consapevolmente o meno, di essere animali anche noi. Le ragioni di questa
“dimenticanza” sono ovviamente molteplici, spesso ideologiche, ma la più
elementare è che sostanzialmente non vogliamo ammettere di essere animali tra
gli animali proprio perché li abbiamo sempre privati di quegli attributi
positivi (o che riteniamo tali) che invece riconosciamo solo a noi stessi,
fallacemente individuando ed enfatizzando quel poco che ci differenzia rispetto
al tanto che invece ci unisce. Per meglio dire, definirci animali ci svilisce
perché di fatto noi sviliamo gli animali: processo fondamentale per trovare
giustificazione morale al loro sfruttamento e uccisione. L’antropoteosi è una
sorta di mito o mitizzazione dell’umanità in opposizione all’animalità, gruppo
che comprenderebbe quindi tutti gli animali, tranne noi. Per costruirlo ci sono
voluti secoli, il sostegno di pensatori illustri, nonché delle principali
religioni monoteiste, ma anche distorsioni e strumentalizzazioni a fini
ideologici, ad esempio, delle teorie darwiniste.
La vegafobia, come tutte le
discriminazioni verso un gruppo, si serve e nutre di vari elementi, tra cui gli
stereotipi e i pregiudizi. Nella parte introduttiva del libro Dario
ricostruisce l’origine di questi termini e di ciò che significano. Non sapevo
ad esempio che il concetto di pregiudizio fu introdotto da Francis Bacon nel
XVII secolo nella sua opera Instauratio Magna. Bacon, scrive Dario,
“fornì una spiegazione di quelli che chiamò errori e superstizioni intrinseci e
profondi nella natura della mente, chiamati idola mentis. Idola è un
termine che possiamo tradurre come idoli, ovvero miti che l’essere umano onora
al posto della verità” e che si distinguono in quattro tipi, idola tribus,
idola specus, idola fori, idola theatri.
Segue una spiegazione molto
interessante che ci aiuta a comprendere non solo la vegafobia, ma in generale i
miti e credenze errate su molti argomenti e che, anche involontariamente,
spacciamo per verità, addirittura per verità scientifiche (esempio: la carne fa
bene, il latte fa bene, non è possibile vivere senza mangiare carne; miti che
persistono nonostante l’evidenza di persone vegane da venti o più anni o di
bambini svezzati con alimentazione vegetale, vale a dire che non hanno mai
assaggiato carne di animali in vita loro e che godono di ottima salute).
Successivamente si passa alla
definizione degli stereotipi, i quali, secondo l’analisi del giornalista
Lippmann, che nel 1922 li teorizzò in un saggio, sono in stretta relazione con
i pregiudizi, “essendo la base cognitiva di questi ultimi”, ossia in una
relazione di causa-effetto.
Comprendere cosa siano i
pregiudizi e gli stereotipi, come si formano e per quale esigenza della mente
umana è fondamentale dunque per comprendere la vegafobia e in generale il
processo con cui cataloghiamo e raggruppiamo, per facilità, le informazioni che
ci arrivano dall’esterno. Si tratta di processi mentali in una certa misura
anche naturali, cioè utili per raggruppare e sintetizzare le tante informazioni
che ci arrivano, ma poi sostenuti e rafforzati da convinzioni molto spesso
antiscientifiche e non corrispondenti al vero.
Il testo prosegue con la
trattazione dei materiali audiovisivi, ossia di come il cinema, la televisione
e in generale i media mainstream trattano il veganismo e i veg* (da specificare
che Dario mette insieme vegetariani e vegani non perché non sappia la
differenza e cosa comporti in termini di scelta etica, ma perché ai fini di
questo libro entrambi i gruppi sono oggetto di vegafobia, sebbene i vegani, per
ovvie ragioni, lo siano in misura maggiore).
Come sono rappresentati i
veg* nel cinema? Come vengono caratterizzati i personaggi, marginali o meno, in
un’opera filmica e televisiva? Prendendo in esame una trentina di opere,
spaziando tra cartoni animali, sit-com, serie TV, film, stand-up comedy,
scopriamo così che i veg* hanno sempre delle caratteristiche comuni e ben
specifiche: strani, ingenui, bizzarri, idealisti, troppo buoni, ma anche
ossessivi, polemici, rigidi mentalmente, incapaci di godersi la vita, talvolta,
come la protagonista di Hungry Hearts di Saverio Costanzo, ortoressici, ossia
eccessivamente preoccupati di contaminare il proprio corpo con alimenti
ritenuti dannosi, preoccupazione che sconfina nella patologia. L’ortoressia, è
bene ribadirlo, è appunto una patologia e può riguardare sia le persone veg*
che quelle non veg*; rientra nello spettro dei disturbi alimentari, affine
quindi all’anoressia e bulimia. Il regista Saverio Costanzo all’epoca dichiarò
che non era suo intento criticare le persone vegane, eppure, guarda caso, Mina,
la protagonista, è anche vegana, particolare che sicuramente ha contribuito ad
alimentare lo stereotipo del veg* fuori di testa che per le sue manie si
ammala. Piccolo aneddoto personale: quando comunicai a mio padre la decisione
di diventare vegetariana (nemmeno vegana, quello lo sarei diventata
successivamente), la prima cosa che mi disse fu: “Questa è una mania che ti ha
trasmesso Andrea” (mio marito), mettendo insieme ben due pregiudizi in uno: che
il vegetarianismo fosse una mania e che le manie si possono attaccare come un
virus. Un esempio pertinente di vegafobia.
Sappiamo che queste
rappresentazioni audiovisive sono a dir poco ingenerose e non centrano il focus
della motivazione per cui si diventa vegani, ma è importante capire come i
media ci rappresentano in quanto, essendo mezzi in grado di raggiungere una
vasta fetta di popolazione, contribuiscono a rafforzare o delineare tout court
l’immagine dei veg* e quindi ad alimentare la costruzione della vegafobia, di
fatto allontanando la comprensione della serietà della questione animale.
Senza spoilerare troppo, come
si dice in gergo, ossia elencarvi i numerosi punti affrontati in questo libro
(tra cui ad esempio la differenza tra onnivori, polifagi e carnivori, già
anticipata da Dario nell’altro suo libro Lettera a un futuro animalista o la
parte dedicata all’ironia e alla satira), vi dico perché questo è un libro che
ogni persona vegana farebbe bene a leggere, e non solo quindi, auspicabilmente,
i diretti interpellati - cioè chiunque almeno una volta nella vita abbia
pronunciato qualcuna o più delle seguenti frasi “Anche Hitler era vegano”,
“Anche le piante soffrono”, “Però le zanzare le ammazzi”, “E se ti trovassi su
un’isola deserta come faresti?”, “Senza proteine nobili ci si ammala”, “Siamo
carnivori perché abbiamo i canini”, “I leoni mangiano le gazzelle”, “E il ferro
dove lo prendi?” ecc.-; perché è importante comprendere il terreno di scontro,
diciamo così, entro cui ci muoviamo e capire anche le motivazioni che portano i
non vegani a percepirci come ostili, delegittimando quindi la portata etica
della nostra scelta definendoci dei nullafacenti che anziché occuparsi delle
cause davvero importanti pensano agli animali. Non è utile, facendo un po’ di
autocritica (altra parte che si affronta nel libro), ergersi su un piedistallo
dando degli idioti ignoranti a tutti coloro che ci criticano (tanto meno
definirsi “illuminati”, “risvegliati” rispetto a una “massa dormiente”) perché
se vogliamo avere dei risultati dobbiamo essere in grado di comprendere come
gli altri ci vedono e percepiscono e se sono chiari i motivi che ci hanno fatto
diventare veg*; dobbiamo conoscere quali sono i processi mentali che portano a
costruire metaforicamente muri di incomunicabilità che poi di fatto impediscono
di ottenere i risultati auspicabili nella questione che ci sta a cuore, ossia
aiutare gli animali a liberarsi dal giogo della nostra oppressione e
discriminazione.
Già, in conclusione, dove
sono gli animali in questo testo? Ovunque. Perché è ovvio che il testo va a
parare in una direzione, ossia: le persone non prendono sul serio i veg* perché
sostanzialmente non prendono sul serio la questione animale, cioè gli animali.
In quanto gruppo di nicchia,
sebbene in crescita, Dario ci invita anche a valorizzare ciò che unisce la
galassia animalista anziché evidenziare ciò che ci differenzia (esattamente
come per decostruire l’antropoteosi dovremmo iniziare a considerare ciò che ci
unisce agli altri animali anziché ciò che ci differenzia). Abbiamo la
responsabilità di fare del nostro meglio per rendere comprensibile la nostra
causa, senza svenderla, ma con un pizzico di strategia.
Senza esagerare e senza
adulazione, definisco questo libro tra i più interessanti che abbia letto sul
veganismo. Ovviamente ognuno di noi ha delle preferenze, ossia predilige questo
o quel punto di vista per analizzare un tema, scelta che dipende anche dalla
propria formazione e non c’è dubbio che a me interessi moltissimo tutto ciò che
riguarda segni, linguaggio, comunicazione in generale, processi mentali
individuali e frutto di condizionamenti sociali, ma a prescindere da questo Anche
Hitler era vegano affronta argomenti importanti finora trascurati nella
letteratura animalista, argomenti che ritengo utili non sono ai fini di una
conoscenza personale, ma anche per migliorare il proprio attivismo e approccio
verso i non veg*. Sembra paradossale, nel senso che dovrebbero essere i non
veg* a mettere in discussione i loro pregiudizi verso di noi, ma la comunicazione
efficace necessita sempre di un punto di incontro e se non ci riesce il gruppo
esterno alla nostra comunità, che poi è quello maggioritario, rendiamoci dunque
parte virtuosa perché in ballo non c’è la soddisfazione di vincere o meno in
una discussione, ma letteralmente la vita di milioni di animali.
Per cui, grazie Dario, ho
imparato tanto, e ho anche riso spesso, cosa che non guasta mai!
Per ultimo, ma non in ordine
di importanza, menzione speciale anche alla splendida copertina realizzata dal
bravissimo Bruno Bozzetto, che di certo non ha bisogno di presentazioni. Come
diciamo in gergo: è uno di noi e con la sua arte si dedica moltissimo
alla causa.
Rita Ciatti