venerdì 5 dicembre 2025

Appunti di Maristella Diotaiuti per la presentazione del volume Addio Mai. Poesie 1956-2016, di Kikì Dimulà.

 










Per il ciclo Sette incontri di poesia contemporanea, a cura de Le Cicale Operose.

Giovedì 4 dicembre, 2025, Le Cicale Operose, Livorno.

Evento proposto dall'Associazione Borgo dei Greci, Livorno.


Appunti di Maristella Diotaiuti per la presentazione del volume Addio Mai. Poesie 1956-2016, di Kikì Dimulà, a cura di Paola Maria Minucci e Francesca Zaccone, Donzelli Editore, 2025. Breve riflessione a inizio serata.


Mi è stato chiesto di fare una breve riflessione sulla poesia di Kikì Dimulà, lo faccio volentieri ma mi sono chiesta cosa potessi aggiungere a quanto già detto magistralmente da Paola e Francesca, ho attinto a quanto ho maturato durante questi anni di riflessioni alle Cicale Operose circa la scrittura delle donne e ho cercato di individuare nella poesia di Kikì Dimulà alcuni tratti della scrittura femminile, delle donne (non entro nel ginepraio se esista o meno una scrittura delle donne, cosa la caratterizza nella sua specificità, la do per acquisita).

Il primo tratto che ho creduto di individuare è quella che viene definita dal femminismo storico la pratica del “partire da sé”, partire dalla propria personale esperienza del mondo, partire dal proprio sguardo sul mondo, dal quotidiano, anche dal proprio corpo, che sono - sguardo e corpo – sessuati, di donna, non sono neutri, sono identità. È uno stare al mondo nella fedeltà a sé” come dice Luisa Muraro, ma, aggiungo, in relazione col mondo, parla al contempo di noi, del mondo, e del legame che ci unisce. Perché è una esperienza personale che però non si ripiega su se stessa ma si apre al mondo.

Allo stesso modo nelle poesie di Kikì Dimulà ritroviamo il suo sguardo, la sua personale esperienza di mondo, il suo sentire, ma questo personale poi si apre (soprattutto nella seconda fase del suo fare poetico) verso il mondo e verso l’altro, la sua scrittura si fa, è, atto politico: si fa militante e storica, nella ricerca di verità, di senso, si fa luogo di resistenza etica, politica e al femminile o del femminile. Quindi la sua poesia non è solo osservazione, ma è intervento, vedere è prendersi carico, è masticazione della realtà, atto fisico e simbolico insieme. una parola poetica che non si accontenta di nominare il mondo, ma lo attraversa con lo sguardo, con il corpo, con la memoria, con la lingua. Diventa testimonianza incarnata.

Diventa scrittura dell’esperienza, scrittura del corpo, la scrittura è essa stessa corpo (diceva Luce Irigaray), perché esiste una correlazione tra identità femminile corporeità – e scrittura: nella scrittura, nel testo irrompe l’alterità femminile. Hélene Cixous scrive, ne Il Riso della Medusa: “La donna scrive con l’inchiostro bianco” (cioè con il latte materno), che non è come si scrive , ma perché si scrive, e da dove.

Così Kikì Dimulà irrompe nella sua poesia come donna, in quanto donna, come soggetto imprevisto, accade nella sua alterità. Come leggiamo nella sua poesia Trasgressioni: Mi espando e vivo / illegalmente / in aree che gli altri / non riconoscono reali / Là mi fermo ed espongo / il mio mondo perseguitato, / Là lo riproduco / con amarezza ribelle, / Là accado.    

Questa alterità traspare chiaramente nella forma dei suoi versi: una forma inquieta, non irreggimentata, deviante, irruente nelle sue contratture aperte, nei suoi neologismi di parole che si accavallano per l’urgenza del dire. La scrittura di Kikì Dimulà, in quanto scrittura di donna, è una scrittura sovversiva, travolge la sintassi. Cito ancora Cixous che scriveva: La sua lingua non contiene, porta, non trattiene, rende possibile. Sono parole che, secondo me, ben si adattano alla scrittura e alla lingua di Kikì Dimulà.

Una lingua che porta, che rende possibile è, in sostanza, una lingua che crea, è un atto linguistico, la parola non descrive ma crea (secondo le teorie del linguista Austin, che ha anche citato puntualmente Francesca Zaccone), e una lingua che crea è sovversiva.

Come la lingua di Kikì Dimulà che, infatti, smonta dall’interno la struttura patriarcale, maschile della lingua usando dispositivi, molto bene individuati ed elencati da Francesca Zaccone, che operano una messa in crisi del significato, uno slittamento di senso, uno straniamento, costringono il lettore, l’interlocutore a un processo di riflessione e a rivalutare il contesto e le sue assunzioni implicite.

Si chiarisce così anche il significato di scrittura dell’esperienza: come scrivono Maria Rosa Buttarelli e Federica Giardini, ne Il pensiero dell’esperienza: L’esperienza porta dissesto nelle parole correnti, ci rimette continuamente in gioco, perché il senso della realtà è un compito da realizzare. È così che l’appello a un pensiero dell’esperienza indica una ricerca che apre campi di contesa sul senso delle relazioni nel mondo in cui viviamo.

E la parola di Kikì Dimulà, secondo me, nasce proprio dalla convinzione che la scrittura, il linguaggiose abitato criticamente, se attraversato dalla soggettività femminilepossa ancora generare spostamenti reali.

Sempre nella direzione della messa in crisi del senso comune va letto l’altro tratto che ho individuato nella scrittura di Kikì Dimulà, l’uso dell’ironia, per il suo essere eversiva, spiazzante, per essere logos decentrato, l’ironia è una lama che taglia il pensiero e il linguaggio convenzionali, viola le convenzioni linguistiche e sociali, taglia il pensiero dogmatico. L’ironia è uno sguardo obliquo, un posizionamento disallineato, una sorta di strabismo, il solo che permette di vedere ciò che non cade immediatamente sotto i nostri occhi, ciò che non vediamo solitamente. Kikì Dimulà lo dice chiaramente in una poesia, parlando di presbiopia, Terra maiuscola, scrive: Ultimamente, per leggere, / riconoscere, conoscere, / mi tiro un po’ indietro / e spingo un po’ più lontano / quel che voglio vedere, /subentra una nuova distanza / tra me e ciò a cui guardo, / altrimenti non vedo.  

Ci leggo una messa a fuoco sfocata che però paradossalmente serve a vedere meglio, a vedere ciò che sfugge a uno sguardo normale e normalizzato, una posizione di marginalità che le donne hanno avuto nella storia, e che però hanno saputo trasformare da posizione svantaggiata a opportunità di sguardo altro, epifanico.

Inoltre, l’ironia crea relazione, nasce in relazione perché ha bisogno della complicità dell’altro per essere riempita di senso, prevede l’altro, lo convoca, non lo distrugge come fa il sarcasmo che ride-contro, l’ironia ride-con, e quindi in questo senso è politica, ed è performativa: perché attraverso l’uso dell’antifrasi (dire il contrario di ciò che si intende) l’ironia agisce come pratica che modifica la percezione della realtà e le relazioni sociali, ha la capacità di agire e produrre effetti nel mondo.

Questa performatività della parola poetica di Kikì Dimulà è sicuramente un tratto femminile, anzi femminista, perché il femminismo, d’altra parte, è stato soprattutto politica della parola, ricerca femminile di un linguaggio per dirsi, per trasformarsi, per aprire passaggi di comunicazione, per cambiare il mondo anche attraverso il linguaggio.

Scriveva Carla Lonzi (non a caso anche storica dell’arte), nella sua autobiografia: Adesso capisco che il soggetto non cerca la cosa di cui ha bisogno, ma la fa esistere.

M.D.