Per il ciclo Sette incontri di poesia contemporanea, a cura de Le Cicale Operose.
Giovedì 4 dicembre, 2025, Le Cicale Operose, Livorno.
Evento proposto dall'Associazione Borgo dei Greci, Livorno.
Appunti di Maristella Diotaiuti per la presentazione del volume Addio Mai. Poesie 1956-2016, di Kikì Dimulà, a cura di Paola Maria Minucci e Francesca Zaccone, Donzelli Editore, 2025. Breve riflessione a inizio serata.
Mi è
stato chiesto di fare una breve
riflessione sulla poesia di Kikì
Dimulà, lo faccio volentieri ma mi sono chiesta cosa potessi
aggiungere a quanto già detto
magistralmente da Paola e Francesca, ho attinto a quanto ho maturato durante
questi anni di riflessioni alle
Cicale Operose circa la scrittura delle donne e ho cercato di individuare nella
poesia di Kikì Dimulà alcuni
tratti della scrittura femminile, delle donne (non entro nel ginepraio se esista o meno una
scrittura delle donne, cosa la caratterizza nella sua specificità, la do per
acquisita).
Il primo tratto che ho creduto di individuare è quella che
viene definita dal femminismo storico la pratica del “partire da sé”, partire
dalla propria personale esperienza del
mondo, partire dal proprio
sguardo sul mondo, dal quotidiano, anche dal proprio corpo, che sono - sguardo e corpo – sessuati, di donna, non sono neutri,
sono identità. È “uno stare al mondo nella fedeltà a sé’” come dice Luisa Muraro, ma, aggiungo, in relazione col mondo,
parla al contempo di noi, del mondo, e del legame che ci unisce.
Perché è una esperienza personale che però non si ripiega su se stessa ma si apre al mondo.
Allo
stesso modo nelle poesie di Kikì Dimulà
ritroviamo il suo sguardo, la sua personale esperienza di mondo, il suo sentire, ma questo
personale poi si apre (soprattutto nella seconda fase del suo fare
poetico) verso il mondo e verso
l’altro, la sua scrittura si fa,
è, atto politico: si fa
militante e storica, nella
ricerca di verità, di senso, si fa luogo di resistenza etica, politica
e al femminile o del femminile. Quindi la sua poesia non è solo osservazione, ma è intervento, vedere è prendersi
carico, è masticazione della realtà,
atto fisico e simbolico insieme. una parola poetica che non si accontenta di nominare il mondo, ma lo
attraversa con lo sguardo,
con il corpo, con la memoria, con la lingua. Diventa testimonianza incarnata.
Diventa scrittura dell’esperienza, scrittura del corpo, la scrittura è essa
stessa corpo (diceva Luce Irigaray), perché esiste una correlazione tra identità femminile – corporeità – e scrittura:
nella scrittura, nel testo irrompe l’alterità femminile. Hélene Cixous scrive, ne Il Riso
della Medusa: “La donna scrive con l’inchiostro
bianco” (cioè con il latte materno), che non è come si scrive
, ma perché si scrive, e da dove.
Così Kikì Dimulà irrompe nella sua poesia come donna, in quanto donna,
come soggetto imprevisto, accade nella sua alterità. Come
leggiamo nella sua poesia Trasgressioni:
Mi espando e vivo / illegalmente /
in aree che gli altri / non riconoscono reali / Là mi fermo ed espongo / il mio
mondo perseguitato, / Là lo riproduco / con amarezza ribelle, / Là
accado.
Questa alterità traspare chiaramente nella forma dei suoi versi: una forma inquieta, non irreggimentata, deviante,
irruente nelle sue contratture aperte, nei
suoi neologismi di parole che si
accavallano per l’urgenza del dire. La scrittura di Kikì Dimulà, in quanto scrittura
di donna, è una scrittura sovversiva, travolge la sintassi.
Cito ancora Cixous che scriveva:
La sua lingua non contiene, porta, non trattiene, rende possibile. Sono parole che,
secondo me, ben si adattano alla scrittura e alla lingua di Kikì Dimulà.
Una lingua che porta, che rende possibile è, in sostanza, una lingua che crea, è un atto linguistico, la parola non
descrive ma crea (secondo le teorie del linguista Austin, che ha anche citato
puntualmente Francesca Zaccone), e una
lingua che crea è sovversiva.
Come la lingua di Kikì Dimulà che, infatti, smonta dall’interno la struttura patriarcale, maschile della lingua usando dispositivi, molto bene individuati ed elencati da Francesca Zaccone,
che operano una messa in crisi del
significato, uno slittamento di senso,
uno straniamento, costringono il
lettore, l’interlocutore a un
processo di riflessione e a
rivalutare il contesto e le sue
assunzioni implicite.
Si chiarisce così anche il significato
di scrittura dell’esperienza:
come scrivono Maria Rosa Buttarelli
e Federica Giardini, ne Il
pensiero dell’esperienza: L’esperienza porta dissesto nelle parole correnti,
ci rimette continuamente in gioco, perché il senso della realtà è un compito da
realizzare. È così che l’appello a un pensiero dell’esperienza indica una
ricerca che apre campi di contesa sul senso delle relazioni nel mondo in cui
viviamo.
E la parola di Kikì Dimulà, secondo me, nasce proprio dalla convinzione che la scrittura,
il linguaggio – se abitato criticamente, se attraversato dalla soggettività femminile
– possa ancora generare spostamenti reali.
Sempre
nella direzione della messa in crisi del senso comune va
letto l’altro tratto che ho individuato nella scrittura di Kikì Dimulà, l’uso dell’ironia, per il suo essere eversiva,
spiazzante, per essere logos
decentrato, l’ironia è una lama
che taglia il pensiero e il linguaggio convenzionali, viola le convenzioni linguistiche e sociali,
taglia il pensiero dogmatico.
L’ironia è uno sguardo obliquo,
un posizionamento disallineato, una sorta di strabismo, il solo che permette di vedere ciò che non cade immediatamente sotto i nostri occhi,
ciò che non vediamo solitamente. Kikì
Dimulà lo dice chiaramente in
una poesia, parlando di presbiopia, Terra
maiuscola, scrive: Ultimamente, per
leggere, / riconoscere, conoscere, / mi tiro un po’ indietro / e spingo un po’
più lontano / quel che voglio vedere, /subentra una nuova distanza / tra me e
ciò a cui guardo, / altrimenti non vedo.
Ci leggo una messa a fuoco sfocata che però paradossalmente serve a vedere meglio, a vedere ciò che sfugge a uno sguardo normale e normalizzato, una posizione di marginalità che le donne hanno avuto nella storia, e che però hanno saputo trasformare da posizione svantaggiata a opportunità di sguardo altro, epifanico.
Inoltre,
l’ironia crea relazione, nasce in
relazione perché ha bisogno della
complicità dell’altro per essere
riempita di senso, prevede l’altro, lo
convoca, non lo distrugge come fa il sarcasmo che ride-contro, l’ironia ride-con, e quindi in questo senso è politica, ed è performativa: perché attraverso l’uso dell’antifrasi (dire
il contrario di ciò che si intende) l’ironia agisce come pratica che modifica
la percezione della realtà e le
relazioni sociali, ha la
capacità di agire e produrre effetti nel mondo.
Questa
performatività della parola poetica di Kikì
Dimulà è sicuramente un tratto femminile, anzi femminista, perché il femminismo, d’altra parte, è stato soprattutto politica della parola, ricerca femminile di un linguaggio per dirsi, per trasformarsi, per aprire passaggi di comunicazione, per cambiare il mondo anche attraverso il linguaggio.
Scriveva Carla Lonzi (non a caso anche storica
dell’arte), nella sua autobiografia: Adesso capisco che il soggetto non cerca la
cosa di cui ha bisogno, ma la fa esistere.
M.D.
