Ora il mio stupore
è
conservato?
[…]
Saprà
che ho visto
l’intero
mondo divenire
ancora
e ancora
– e
sempre –
il
differente
– e il
medesimo?
(L.
Macchia, cosmi | minimi)
Come sempre, si parte dai greci. Il verbo “meravigliarsi”
è, in greco antico, thaumazein e, a questo termine, è associato l’inizio
di ogni filosofia, in quanto meraviglia di fronte al cosmo. Questo atto
fondativo lo troviamo in Platone, nel Teeteto: «Si addice particolarmente al
filosofo questa tua sensazione: il meravigliarti [thaumazein nell’originale].
Non vi è altro inizio della filosofia, se non questo, e chi affermò che Iride
era figlia di Taumante come sembra, non fece male la genealogia». Iride, la policromia,
la bellezza, l’arco tra il cielo e la terra, è intimamente connessa alla
meraviglia. La stessa idea la troviamo in Aristotele, nella Metafisica: «Per la
meraviglia [thaumazein nell’originale] gli esseri umani cominciarono a
filosofare»: uno stupore che ebbe di mira, all’inizio, le cose del quotidiano e
che poi, via via, si estese al cosmo intero. Dunque, all’origine della nostra
cultura, è collocato questo atto del meravigliarsi.
Eppure, proprio in questo “filosofare a partire dalla
meraviglia” è insita la “limitazione” di questo thaumazein, che
attraversa l’intera storia del pensiero. Infatti, la «meraviglia originaria»[i],
ai primordi dell’umano, viene subito catturata dall’azione del logos. Alla
meraviglia fa subito seguito un atteggiamento in cui l’umano si pone come
soggetto ordinatore al centro del creato, lo struttura secondo le sue
rappresentazioni, lo “strappa”, per dirlo con Zambrano, dal puro vitale: «meraviglia,
sì, stupore di fronte all’immediatezza delle cose, cui fa improvvisamente seguito
uno strappo»[ii].
La ragione di questo movimento di “fuga” dalla meraviglia originaria è insita nella
sua stessa “ombra” che è già rintracciabile, secondo Severino[iii],
proprio nell’etimo della parola thauma (meraviglia) che, nel suo
significato originario, indica “angosciante stupore” e “terrore”. L’uomo,
insomma, riordina il cosmo attorno a lui per paura dell’ignoto, perché avverte
l’incommensurabile abissalità della sua condizione. Seguendo Ronchi[iv],
possiamo dire che il pensiero occidentale è stato dominato da questa idea
antropocentrica della meraviglia, costruita sul rapporto soggetto/oggetto, basato
sul distacco dal livello vitale – immanente all’esistenza – a favore di
rappresentazioni trascendenti, il cui modello primo è l’idea platonica. Addirittura
la filosofia, nei suoi esiti fenomenologici, è divenuta una riflessione sulla
coscienza umana, sul suo modo di meravigliarsi, una sorta di «meraviglia alla
seconda»[v].
C’è, insomma, una meraviglia che è il prologo dell’azione sistematizzante del logos,
il quale riordina il cosmo a misura umana. Una meraviglia che è tale solo nello
stato nascente, e che è subito catturata dalla risposta rappresentativa che ne
fa “sistema-mondo”, ne spegne il mistero.
Ma allora, esiste un’altra meraviglia, un fuoco dello
stupore che non è immediatamente spento dall’azione codificante del logos?
Seguendo ancora Ronchi, rintracciamo una formula greca molto vicina a thaumazein:
è il thaumaston, il meraviglioso, ciò che stupisce e sorprende. Di fatto
questa parola non è che una variante grammaticale di thaumazein, ne ha
la stessa radice thauma. Non esprime l’azione del meravigliarsi, come thaumazein,
ma il carattere di ciò che è meraviglioso. Ma opporre thaumaston a thaumazein
non ha un senso linguistico bensì strettamente filosofico, anche se possiamo
osservare che già il passaggio dal verbo thaumazein all’aggettivo thaumaston
indica un percorso di fuoriuscita dall’antropocentrismo: dal paradigma “io mi
meraviglio” a quello “c’è del meraviglioso”. Ronchi associa il termine thaumaston a
un passaggio fondamentale del Parmenide, il dialogo platonico più
complesso e indecifrabile, nel quale Platone sembra fare i conti con i limiti
del suo approccio idealista, con le difficoltà connesse proprio a quel famoso
“strappo” zambraniano. Il passaggio è quello in cui Socrate dice che se
qualcuno gli dimostrasse: «che ciò che è Uno, proprio per questo stesso è
molti, e che ciò che è molti è Uno, di questo mi meraviglierei davvero[vi]».
Ecco allora emergere una meraviglia diversa, che non è qualcosa che subito si
accomoda nell’alveo del logos, ma è uno stupore più radicale, che nasce
dal considerare un Uno che «Non è l’Uno della sintesi, non è l’Uno della
unificazione di un molteplice già dato […] ma un Uno che è immediatamente
molteplice […] un molteplice che è immediatamente Uno»[vii].
Questa coincidenza dei due infiniti, dell’Uno e del molteplice, animerà una
linea filosofica che, attraverso Plotino, condurrà a Bergson e Deleuze. In quel
passaggio platonico vi è dunque il seme di una visione filosofica completamente
divergente da quella emersa dalla cattura della meraviglia da parte del logos.
Questo è il senso di intendere il thaumaston come un “modo” radicalmente
diverso della meraviglia rispetto al thaumazein. Uno stupore che
disordina il logos, che non consente un facile riassestamento, che
obbliga a pensare in termini di immanenza assoluta. L’adozione del termine thaumaston
per denotare questa meraviglia “imprendibile”, antecedente a ogni “strappo”,
pienamente vitale, trova una sponda anche nella Poetica di Aristotele
che parla appunto di thaumaston come elemento essenziale nella tragedia,
che scuote la verosimiglianza della catena degli eventi, scioccando gli
spettatori, portandoli a domandarsi in merito a ciò che potrebbe accadere. Con
questa ulteriore nozione ci spostiamo verso una concezione di thaumaston
come trauma, colpo, elemento inaspettato e non concettualizzabile.
Sulla direttrice del thaumaston come trauma
incontriamo, ancora seguendo Ronchi, il concetto di ekplexis sul quale il
filosofo fornisce un esempio per noi estremamente interessante perché chiama in
causa la poesia, attingendo alla differenza tra retore e poeta nel trattato Sul
sublime[viii].
Il retore ha come obiettivo la conoscenza, il suo stile muove verso una
meraviglia che ha il connotato del thaumazein: la sua azione indica «quel
punto dove il flusso dell’esperienza si interrompe per farsi oggetto per un
soggetto»[ix].
Ecco di nuovo lo strappo, il riconducimento al logos, la claritas, che è
l’obiettivo primo del retore. Diversamente, il poeta muove da un altro stupore
di «natura patetica e non teorematica […] un effetto di choc, non di sapere»[x].
Questo è l’ekplexis. Parola greca la cui radice plege rimanda a
“colpo”: è l’impressione diretta, non conoscitiva, non ordinata. Questa
meraviglia originaria, pura, traumatica è l’impossibile a cui si rivolge la
poesia (e l’arte in generale) oltre che una certa filosofia che mira a
recuperare la radice perduta del rapporto immanente con il vitale. Possiamo
forse dire che Mondrian, nel suo celebre percorso di rappresentazione
dell’albero (archetipo assoluto della natura) ci dia un’idea di quel puro colpo
indicibile, di quell’ekplexis che, con il Melo in fiore,
incredibile opera di svolta (vero salto quantico nella sua produzione) emerge
come assoluto dell’esperienza di fronte alla natura. Un puro “fuori”, che
scaglia il gesto artistico oltre ogni “rappresentazione”, aprendo la strada a
quel suo famosissimo astrattismo lineare e ipnotico, geometrico e essenziale,
che ci sembra il suo sofisticatissimo, affascinante modo di “far qualcosa” con
l’impossibile di quel colpo originario.
Immagine: Mondrian (Il melo in fiore, 1912)
[i] M. Zambrano, Filosofia e poesia, trad. di L. Sessa, Pendagron (2018) p. 40
[ii] Ibid. p. 39
[iii] E. Severino, Scuola e tecnica (2005) citato in antemp.com
[iv] Rocco Ronchi, Il canone minore – Verso una filosofia della natura (2017) – ed. digitale Kindle
[v] Ronchi, op. cit. pos. 477
[vi] La versione italiana è quella che compare nel libro citato di Ronchi. Nella forma greca l’ultima parte della frase suona alla lettera come “ciò sarebbe il meraviglioso” e viene usato to thaumaston per indicare appunto “il meraviglioso”.
[vii] Ronchi, op. cit. pos. 96
[viii] Celebre trattato di “Pseudo-Longino” del I sec.
[ix] Ronchi op. cit., pos. 1600
[x] Ibid. pos. 1612