sabato 29 novembre 2025

La fatica di essere donne, di Rita Ciatti.

 











Ieri sera, mentre stavo attraversando la strada sulle strisce pedonali, semaforo verde per me, una donna in auto mi ha tagliato la strada, mancandomi per poco; non solo vedendomi non ha rallentato, ma ha addirittura accelerato, guardandomi con aria di sfida, lo sguardo truce, incattivito.

Ho pensato, sì, le donne stronze esistono, anche violente, aggressive, cattive, spesso invidiose.

Ma questi sono tratti individuali, caratteriali, che in nessun modo possono configurarsi come violenza di genere o forme oppressive verso il sesso maschile. Non esiste il sessismo inverso.

Infatti, quando parliamo di violenza sulle donne e di patriarcato non ci riferiamo a comportamenti messi in atto da singoli o a caratteristiche soggettive, ma a schemi di pensiero e a pratiche millenarie che da sempre hanno svantaggiato le donne sul piano materiale, collettivo e individuale; pratiche di cui tutti gli uomini hanno usufruito per ottenere e mantenere determinati privilegi e che le istituzioni hanno difeso.

Disparità salariale oggi, anche a livello pensionistico, mancato accesso allo studio e al lavoro nel passato, quindi mancata indipendenza economica da cui consegue mancata libertà, sottomissione, dipendenza, ma anche mancata fiducia nelle nostre capacità e mancato sviluppo delle nostre potenzialità, intellettuali, emotive e pratiche; mancanza di autostima in cui abbiamo fortemente creduto e su cui abbiamo anche ironizzato;

esaltazione di caratteristiche negative o ritenute di poco conto;

sfruttamento dei nostri corpi legalizzato, normalizzato e naturalizzato e fatto passare come "mestiere più antico del mondo";

apprendimento differenziato tra i due sessi, a partire dalla più tenera infanzia, con costruzione dei ruoli che definisce il modo in cui i maschi pensano loro stessi e le femmine e viceversa, con sbilanciamento di potere e di valore verso i primi, in favore dei primi (gli uomini fanno le cose che contano, fanno il mondo, le donne restano a casa a cucinare, a badare alla prole, chiacchierano di cose futili, trucco, ricette, bellezza);

crescere e vivere, in quanto donne, nel timore di essere molestate, violentate, uccise, picchiate, non considerate se non per l'aspetto fisico, con tutto lo stress e la stanchezza che ne consegue e che ci distoglie dai progetti e altro;

essere percepite e di fatto quindi percepirsi - perché è questa l'immagine di noi che la società ci rimanda - come "carne da macello", oggetti sessuali, elementi decorativi da cui dipende o meno il nostro valore e su cui investiamo tanto, sia in termini di tempo, ma anche di energie fisiche e mentali (ore e ore passate a renderci accettabili per i canoni stabiliti dalla società - sempre più idealistici e irraggiungibili, peraltro);

essere considerate "meno", mancanti di qualcosa, più adatte a certi mestieri che non altri (ancora oggi ci sono persone che non si fidano di donne professioniste);

svilimento di tutto ciò che appartiene "all'universo femminile", compresa la narrativa e le tematiche di cui scriviamo (se un autore scrive di sé stesso, della sua esperienza, la si considera "universale", mentre se lo fa una donna e racconta delle sue esperienze, delle sue problematiche, del suo corpo, il tutto non viene visto come passaggio dall'individuale all'universale, ma come argomento prettamente femminile e quindi di minore importanza; secoli di letteratura maschile basata su simboli di forza, guerra, potere in cui l'uomo - dato per l'universale "umano" - era centrale hanno fatto sì che nel momento in cui abbiamo preso la parola noi donne, subito fossimo relegate ad aspetti accessori, ancillari rispetto a un centro che è sempre maschile), l'arte, la politica, l'economia, la filosofia, persino la medicina;

svalutazione del femminile in ogni ambito poiché sempre sessualizzato, o comunque giudicato con parametri che appunto attengono a un universale che è stato appiattito sull'umano in quanto proprio uomo, maschio.

Questi sono solo alcuni esempi, ma spero sufficienti a far capire perché si parla di patriarcato in quanto schema di pensiero e pratica appresi e perché la frase "Not all men" ("Non tutti gli uomini") è non solo fuorviante, ma anche abbastanza patetica.

Sì, oggi sulla carta siamo considerate pari agli uomini, ma non nella pratica perché la cultura appresa e interiorizzata, soprattutto se stratificatasi nei secoli e naturalizzata al punto da non essere più percepita come ideologia dominante, ma come appunto "natura", è difficile da decostruire e disinnescare; è difficile per noi donne, ancora oggi, riuscire a pensarci come soggetti pienamente autonomi, di valore, non in difetto o manchevoli di qualcosa, anche e perché soprattutto la società continua a sussurrarci nelle orecchie che siamo solo corpi da ammirare, dipendenti dallo sguardo e approvazioni maschili.

Stesso identico discorso per gli animali in relazione all'umano come centro universale dominante.



Auguriamo a Rita la migliore fortuna per il suo nuovo romanzo fresco di stampa, "Time lapse".


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