Appunti di Maristella Diotaiuti per la presentazione del volume La statura della palma, Francesca Del Moro (autrice) & Jara Marzulli (illustratrice), Selvatiche Edizioni-Seed, 2025. Le Cicale Operose e Selvatiche Edizioni-Seed per la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Livorno, 25 novembre, 2025. Letture a cura di Alessia Piano. Evento inserito nel calendario Off del Festival L’Eredità delle donne per la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
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Le immagini nel libro si affiancano ai testi poetici, ma sono in relazione, sono dialoganti, una presenza assolutamente non didascalica, per cui i due linguaggi, quello artistico-figurativo e quello poetico si corrispondono, si completano pur nella loro individualità. Questa mi sembra una commistione assolutamente positiva, che aggiunge valore a valore, per cui possiamo parlare di un libro d’arte, molto ben realizzato e curato dalla casa Editrice. Abbiamo voluto iniziare partendo dai testi, per farvi entrare immediatamente nel mood del libro, farvi incontrare subito queste donne immense e le loro parole potenti, perché la poesia di Francesca è potente, l’avete appena constatato ascoltando le letture. Una scrittura forte ma sensibile nello stesso tempo, permeata di una sensibilità non comune, come d’altra parte Francesca ha dato prova anche nei suoi libri precedenti, ci ha già abituati a questa ambivalenza della sua scrittura tra potenza e tenerezza. Una poesia solo apparentemente semplice, ma fortemente caricata semanticamente e lessicamente, e quindi complessa, che apre poi a tutta una serie di rimandi e di riflessioni, ed anche una poesia non immediata, non estemporanea, ma anzi preparata e meditata, e colta, perché Francesca attinge a una vasta enciclopedia, a molte letture di riferimento.
Tema del libro:
Questo libro racconta di tredici donne martiri che hanno subito supplizi orribili, che si fanno testimoni dirette del proprio supplizio: Francesca infatti le fa parlare in prima persona, dicono la loro verità, si raccontano, non si fanno raccontare, come purtroppo è avvenuto sempre, le narrazioni provengono sempre da sguardi e immaginari maschili, e in questo caso di religiosi, ecclesiastici. Sappiamo che la dottrina cristiana è permeata sin dall’inizio da forti venature misogine e patriarcali. La chiesa cristiana è stata (ma lo è ancora) la massima espressione di un sistema gerarchico e autoritario, governato da maschi celibi, mossi dal desiderio/paura della donna (una visione anche un po’ distante da quella evangelica, anche di Cristo). Sono martiri proto-cristiane, cioè storicizzabili, vissute in un periodo preciso della storia, nei primi secoli del cristianesimo, quando comparve questa nuova dottrina ma era ancora radicato il politeismo e quindi la diffusione del cristianesimo fu fortemente e violentemente osteggiata. E queste donne furono brutalmente seviziate e uccise perché avevano accolto, abbracciato la nuova fede, e non a caso nei racconti successivi, nei vari testi testimoniali, nelle agiografie, si parlerà infatti di “bella morte”, sono cioè considerate eroine della fede, che hanno preferito la morte alla sconfessione della propria fede, hanno rifiutato di abiurare e di praticare riti pagani.
Ma alla base delle loro uccisioni - e questo lo fa emergere molto bene Francesca nel libro - non c’erano solo ragioni di fede: queste e molte altre donne vennero uccise anche perché si rifiutarono di piegarsi alle imposizione dei padri, dei mariti, o dell’uomo di turno che aveva mire sessuali, predatorie, sui loro corpi, hanno resistito agli stupri (traspare chiaramente nelle loro biografie), in questo caso si parla di màrtiri per la dignità della donna. Un esempio più vicino a noi è Maria Goretti che si fece uccidere pur di non piegarsi al suo violentatore.
Sono donne che si sono rifiutate anche di essere pedine mute e accondiscendenti dentro a strategie matrimoniali e di potere. Agata, ad esempio, sfida il potere rivendicando la propria libertà di monacarsi, di consacrarsi a dio, e il suo martirio nasce dal rifiuto di essere trattata come un oggetto, di essere sottomessa alla corruzione morale oltre che e al ripudio della fede. Per cui davvero per queste donne martiri possiamo tranquillamente parlare di martirio patriarcale, o di santo femminicidio: sono vittime di femminicidi a tutti gli effetti, che le avvicina, le accomuna alle donne del nostro presente, alle tantissime vittime di violenza (nelle sue varie declinazioni) della storia. Queste donne, proprio per queste loro caratteristiche non conformi, sono state percepite dall’apparato ecclesiastico-patriarcale, ma anche da tutta la società, laica e civile, ieri come oggi, come devianti, disobbedienti, deformi, proprio nel senso di fuori dalle forme codificate, convenzionali, prestabilite, quindi pericolose per l’ordine costituito, e per questo andavano demonizzate, mostrizzate e poi uccise e, attraverso il martirio, rese sante, vale a dire private della loro componente umana, della loro identità di donna, per sminuirne la portata libertaria e rivoluzionaria: una volta fatte sante sono state circondate di un’aura di prodigioso, di miracoloso, (come le vite delle martiri di Francesca ci dicono), le loro qualità sono rese straordinarie, nel senso di fuori dall’ordinario, perché di un altro mondo, di derivazione divina. Sono trasformate in sante “belle, giovani, vergini”, è questo il cliché, il paradigma, l’attributo della verginità è quello più ricorrente, e appare difficilmente sotto il nome di un santo, mentre è quasi sempre associato a quello di una santa, come a voler rimarcare la prerogativa delle donne di doversi mantenere vergini e caste per lo sposo celeste o terreno. Questa della verginità è una costante che ricorre spesso insieme alle doti di umiltà, docilità, ubbidienza e di bellezza.
L'idealizzazione delle figure femminili nella storia della chiesa è l’altra faccia della loro demonizzazione.
Ma dal racconto di Francesca, e anche dalle illustrazioni, emergono altre caratteristiche di queste donne: sono donne oppositive, rivoluzionarie, libertarie; sono donne coraggiose, fiere, attestano la propria libertà di pensiero, di scelta - che va anche oltre alla difesa della loro fede, della loro religiosità - sono donne che, nonostante l’umiliazione subita con il martirio, le sevizie corporali, rivendicano la propria dignità e la propria forza, come molte donne di oggi vittime di violenza, le sopravvissute naturalmente, che con coraggio e fierezza raccontano e riorganizzano la propria vita, rivendicano la proprietà e l’uso del loro corpo, anche la scelta consapevole del martirio va in questa direzione, lo cercano, lo rivendicano, e sembrano anche non soffrire, non provare dolore, così si sottraggono alla punizione maschile del martirio. Le martiri di Francesca si accampano perentoriamente sulla pagina e dentro il racconto, sia come donne reali, realmente esistite (realtà che Francesca si procura di documentare, attestare, mettendo a fine libro una sezione sulle vite di queste martiri) e sia come personagge letterarie, come soggetti poetici, tanto che non distingui i due piani, e ciò è dovuto alla perizia di Francesca nel maneggiare la materia poetica.
Uso della poesia.
Perché, ricordiamolo, questo è un libro di poesia, l’uso, diciamo così, della poesia era necessario per Francesca, come lo è stato per Silvia Rosa (l’abbiamo incontrata qui sabato), proprio per dire l’indicibile, non l’ineffabile di Dante, ma l’orrore di certe vicende, certi fatti, proprio per la capacità che la poesia ha di far saltare le convenzioni, le ipocrisie, anche linguistiche, di farsi luogo di testimonianza e di resistenza. In tal modo Francesca recupera il significato originario della parola martirio: cioè di “testimonianza”. Infatti l’etimologia di “martirio” deriva dal greco antico màrtyr che significa “testimone”, e il termine originariamente non implicava necessariamente la morte, ma si riferiva a chi forniva una testimonianza, specialmente in ambito religioso, solo successivamente si è specializzato a indicare chi muore o subisce sofferenze estreme per difendere la propria fede o un alto ideale, diventando quindi una testimonianza suprema.
Il canto delle martiri.
La poeticità è evidente anche in quel richiamo al “canto”, nel sottotitolo “Canti di martiri antiche”, canto che rimanda a un accordo armonico, e anche questo c’è nel libro, addirittura nella struttura stessa: perché queste donne si raccontano individualmente, prendono una per volta la parola ma poi è come se si prendessero per mano, come se alla fine il racconto diventasse corale, le individualità sfumano e il racconto di una diventa il racconto dell’altra.
Accordo armonico che è dato, è tenuto insieme dalla cornice che Francesca ha ideato, del sogno di Maria che sogna le 13 martiri che le raccontano la loro storia di martirio, e anche dal racconto di Francesca delle leggende sul cerchietto, una “o” impressa al centro dei noccioli dei datteri, racconto che significativamente apre e chiude il libro, crea un cortocircuito narrativo.
Questo canto corale e il cerchietto dei datteri, mi ha riportato alla mente la pratica della danza sacra in cerchio che risale al paleolitico, alla preistoria, alla dea madre e poi alle sue sacerdotesse, e poi continua nella storia, in tempi successivi (medioevo e oltre) fino ai canti, le danze che hanno sempre accompagnato le feste contadine, che segnavano il passaggio del tempo circolare delle stagioni.
Julia Kristeva (filosofa, linguista, scrittrice francese di origine bulgara), nel suo saggio sul tempo del 1981, paragona i cicli femminili con quelli della natura, sottolineando la natura ciclica del tempo femminile volto alla vita al contrario del tempo maschile che si configura come un tempo lineare e volto alla morte.
Danzando le donne risvegliavano la madre terra. Le giovani donne, mano nella mano, passavano danzando e cantando nei campi per propiziare il raccolto. Ne ho dei ricordi anch’io di bambina, mia madre e le altre donne che andavano nei campi cantavano, danzavano, anche se lavoravano duramente, erano sempre incontri gioiosi, di festa e di scambi di pietanze e doni, erano pratiche di dono, dell’economia del dono, di cui si parla oggi (soprattutto Genevieve Vaughan), una economia femminista che si ispira all’economia del dono materno e all’atto di dare gratuitamente, in opposizione all’economia di mercato capitalistica, liberista patriarcale. Erano momenti magici di sorellanze, fatti diventare, dal pensiero patriarcale e misogino, soprattutto ecclesiastico, incontri diabolici – i sabba, gli esbat – adunanze di donne mostruose, le tanto demonizzate streghe, che hanno dato il via a quel femminicidio strategico e di massa della “caccia alle streghe”.
Le donne di Francesca Del Moro mi riportano a tutto questo.
C’è un libro bellissimo di Monique Wittig, Le guerrigliere, in cui l’autrice descrive molto bene questa dimensione originaria delle donne, che ho ritrovato nel libro di Francesca.
Monique Wittig scrive:
C’è stato un tempo in cui /non eri schiava, ricordalo. / camminavi da sola, ridevi, / ti facevi il bagno con la pancia nuda. / dici di non ricordare più niente / di quel periodo, ricorda. / dici che non ci sono parole per / descrivere quel tempo, / dici che non esiste. / ma ricorda. / fa uno sforzo per ricordare. / o, se non ci riesci, inventa.
Con questo libro, Francesca ricorda e inventa, e dice. Queste donne di Francesca sono così potenti e immense da portare con sé tutto questo bagaglio multiforme, stratificato, luminoso direi, e in ognuna di queste martiri ci sono migliaia e migliaia di altre donne di tutti i tempi e tutte le latitudini. Le martiri di Francesca muoiono ma aprono alla vita.
Sulla compresenza di parola e immagine.
Le martiri protagoniste del libro sono definite dal loro linguaggio, sono linguaggio, noi le vediamo, le materializziamo attraverso il linguaggio, ma forse Francesca ha sentito che avevano bisogno di un’altra esistenza, un’altra dimensione che le rendesse più immediate, più immediatamente percepibili che forse solo l’arte figurativa riesce a fare, anche per restituire una immagine diversa da quella tramandata dall’iconografia classica, tradizionale, religiosa o meno, perché le illustrazioni di Jara vanno in una direzione opposta: i corpi sono esposti, esibiscono le ferite, i segni delle torture, come fa Francesca nei suoi racconti poetici.
Sul linguaggio delle martiri.
Credo che Francesca abbia dovuto fare un lavoro sul linguaggio, nel senso che doveva far parlare queste donne vissute secoli fa, quindi con un loro linguaggio possibile, ma che doveva essere anche comprensibile per noi. L’esito è stato straordinario, perché è la loro lingua ma è la lingua di tutte le donne, soprattutto delle donne che hanno subito violenza, avrebbe potuto parlare così Giulia Cecchettin, o Giulia Tramontano, per dirne solo alcune su migliaia e migliaia di vittime, se fossero sopravvissute. Inoltre Francesca ha saputo rendere molto bene il loro essere divise tra materialità e spiritualità, il loro essere corpo ma anche anima, creature terrene ma anche divine, ieratiche, sacrali, e questo, secondo me anche grazie al linguaggio che Francesca ha forgiato per loro.
Sulla violenza patriarcale su questi corpi di donna, che ha agito soprattutto sulle prerogative femminili, i seni, gli organi genitali, con un intento di maschilizzazione o di resa androgina dei corpi delle donne, evitando anche il rischio di cadere nella opposta sessualizzazione dei corpi delle martiri presente nelle narrazioni religiose, già nelle prime testimonianze martiriali, anche nell’iconografia sacra, o nei vari dipinti artistici (soprattutto quelli del Rinascimento), dove spesso le martiri sono rappresentate sensuali, languide, ammiccanti, con lo sguardo anelante verso dio, subendo silenziose, remissive, indicibili torture. È chiaro che siamo dentro all’immaginario maschile che non restituisce la donna nella sua vera essenza. Invece, le donne di Francesca, le sue martiri hanno un’altra narrazione del proprio corpo, e anche del proprio martirio, esprimono la propria spiritualità e corporeità che le avvicina molto alle mistiche con il loro rapporto diretto con dio, un rapporto che è anche passione, eros, carnalità, in cui l’impulso mistico si traduce in militanza attiva, una spiritualità non solo interiore e contemplativa ma anche pratica e politica, come il caso esemplare di Caterina Da Siena.
Sulla teatralità del testo.
Le martiri entrano in scena come attrici su un palcoscenico, una alla volta recitano un monologo, ma alla fine è come se comparissero sulla scena tutte insieme (come avviene in teatro alla fine della rappresentazione per i saluti e gli applausi), anche Maria che sogna, quasi fuori campo, è un elemento molto teatrale. Mi ha ricordato il pastore Benino del presepe napoletano, il quale sogna tutta la rappresentazione presepiale, senza di lui non esisterebbe il presepe. Il suo sogno e quello di Maria sono dei potenti dispositivi narrativi.
M.D.
