martedì 11 novembre 2025

Per la rassegna Sette incontri di poesia contemporanea, a cura de Le Cicale Operose: postfazione di Giacomo Cerrai per il volume "Vaporizzazioni", di Stefano Guglielmin.

 


Per la rassegna Sette incontri di poesia contemporanea, a cura de Le Cicale Operose.

Stefano Guglielmin.

Postfazione di Giacomo Cerrai, in dialogo con Stefano Guglielmin alla presentazione del volume Vaporizzazioni, Puntoacapo Editrice, 2025.

La postfazione è presente nel blog Imperfetta Ellisse, a cura di Giacomo Cerrai:

https://imperfettaellisse.it/archives/4446





Noterella sul sublime

Gravità e decoro quale zolla dovrebbero seminare? Che cosa

riempire o sostenere? L’anima smorta, l’assenza, la disadorna

esperienza?

Cerchi il dire figurato, il cesello, l’effetto gagliardo?

Sogni dignità ed elevazione?

Il tocco della moneta al suolo dice il falso a ogni rimbalzo.


(dal volume Vaporizzazioni, di Stefano Guglielmin)






Quarta di copertina

Questo volume esibisce in prevalenza strutture paratestuali, per additare i margini di un senso complessivo perduto, di un vuoto di cui le strutture stesse sono l’emblema. Ne esce un meccanismo celibe, in cui la certezza del vero è fagocitata dall’assenza di un fuoco oggettivamente credibile. Va dunque in scena una poesia minore, cresciuta in pascoli disagevoli, se non disdicevoli. Una poesia dei margini e per margini, in morte di Amore, Patria, Eternità.

Dall’evanescenza dell’io e del mondo – e, quale conseguenza, dalla vaporizzazione del libro di poesia, del suo feticcio – traspare tuttavia un arcipelago di relitti salvifici, boe mosse da diverse correnti da cui riordinare parzialmente l’orizzonte.

Postfazione

Che cosa abbiamo appena letto? Ho avuto il piacere di sfogliare in anteprima questo lavoro di Stefano (che mi perdonerà se riprenderò qui alcune delle considerazioni che già gli espressi in una lettera privata), ed è una domanda che in qualche misura mi ripropongo.

In effetti puoi avvicinare un poliedro poetico come questo da un qualsiasi lato significativo. Stefano stesso si preoccupa di offrire, da uomo di montagna, degli appigli, alcuni dei quali però ironici se non beffardi, altri direi di depistaggio volontario. Come la sua scrittura, che fornisce un dettato compiuto e perfetto e insieme ciò che con ossimoro potremmo chiamare una leggibilità con ombre. O come (a pag. 19) i suggerimenti per una recensione (o, sono avvisato, una postfazione come questa). Per farla breve potremmo anche dire che si tratta di un piccolo trattato di metapoetica, di poesia sulla poesia, l’ennesima riflessione sul genere e il mezzo. Ma è un argomento che eventualmente Guglielmin ha già da tempo abbandonato, o ha trasformato in una profonda riflessione, come io credo sotto traccia sia successo, ad es. anche nei suoi ultimi due lavori (Dispositivi, 2022 – Un regno di ciechi senza doni, 2023). In realtà mi pare che ciò che interessa Stefano sia una certa sintomatologia poetica, una tassonomia di macchie, glitch, paradossi o tic, che siano essi del genere (la poesia), dell’oggetto (il prodotto libro, gli arnesi paratestuali e extraletterari che Genette sistematizzò nel 1981) o dell’ambiente con i soliti vizi che ci stanno intorno, con una visione però di insieme, che mette in discussione e complica il corpaccio della poesia e la figura stessa del sé autore. Come dire, evidenze non solo di una poesia che non se la passa bene, come statuto e come prodotto culturale, ma anche di un autore che nutre ormai un disagio, una disaffezione che tuttavia in quanto intellettuale, addetto ai lavori e anche filosofo non può non osservare nei suoi epifenomeni. Non tanto perché “la paratestualità può diventare un pretesto” (pag. 17) o anzi “un libro di poesia” (come in prima stesura), ovvero ancora una volta un metaqualcosa, al netto della evidente ironia; o perché la critica, ancorché sorridente, rivolta ai vizi di cui si diceva (come le poesie fatte apposta per i premi, o il poeta che “vive ai quattro angoli delle cose”, o la “poesia innocua” di cui parlava in un testo qui espunto, o la poesia importuna che finisce nello spam) ponga il poeta Guglielmin in una alterità, o in una kantiana posizione etica che gli consenta di “salire sull’albero più alto per vedere l’uscita dal labirinto”. No, della “vaporizzazione” che, come lo avvisai, tra tutti gli stati della materia (poetica) è il più difficile da invertire, Stefano si prende la responsabilità di parlare, nonché di fare del fenomeno una osservazione heisemberghiana, che come sappiamo modifica in maniera misurabile il fenomeno stesso. O se preferite di scoperchiare la scatola per vedere se il gatto è vivo o morto, ma ha già le sue convinzioni e cerca di fare di questo libro uno strumento di comunicazione, abbatte la quarta parete, si rivolge a chi legge o a chi valuta, all’amico o al critico. Non può non “additare i margini di un senso complessivo perduto, di un vuoto di cui le strutture stesse sono un emblema” (nella Quarta di copertina, insieme immagine di un paratesto e testo fondamentale) ma anche, credo, le speranze anzi gli obbiettivi, un po’ per sé, un po’ per altri. Citando in esergo Enrico Filippini (Settembre, 1961) ci ammonisce intanto che “intorno, come si dice, si svolge la vita”, invitandoci, immagino, ad alzare lo sguardo per “riordinare parzialmente l’orizzonte”, a individuare, nel vapore, “un arcipelago di relitti salvifici” (Quarta). Che da soli non bastano. Per Stefano quello che serve è un indice di verità, uno spessore, qualcosa da saggiare con i denti come una moneta d’oro. La Noterella sul sublime (pag. 13) pone una serie di domande che non sono retoriche, ti prendono per il bavero, inutile fare i furbi, tanto “il tocco della moneta al suolo dice il falso a ogni rimbalzo”. Serve “un fuoco oggettivamente credibile” (Quarta), ora assente. Serve un lavoro non improvvisato, ripartire dalle fondamenta. Ne Il gioco dell’oca (pag. 15) ancora domande, domande molto eliotiane direi, su cose, dice Stefano, di cui ci siamo dimenticati e che invece sono nostre, forse la tradizione, forse qualcosa di “ineffabile” che marca la nostra filogenesi culturale, forse quell’ “enigma” di cui scrive a pag. 10 e che è ben più di un semplice relitto salvifico. Nel gioco dell’oca può capitare di finire nella casella 58, dovendo ripartire da zero. Si può scegliere di fermarsi, di considerare “un più agevole congedo dalla poesia”, da questa generale “poesia dei margini”, di adombrare magari altre forme espressive. Ripeto, in questo libro Guglielmin parla anche di sé e per sé, con ammirevole onestà intellettuale (ma con pochissimo da rimproverarsi, posso certificarlo), parla di un dubbio, di una stanchezza, di un’entropia (ovvero più disordine e meno energia) che spesso si esercita proprio in quelle “diverse correnti” (lirica/ antilirica magari) che cercano di trascinare ciascuna a sé quei medesimi relitti.

Quello che si evince o non si evince da questo libro mi pare non sia solo ciò che, ancora con ironia, dichiara Stefano nei testi omonimi. Credo che sia anche, come gli scrissi, uno sguardo disincantato sulla poesia come codice inattuale di fronte al reale, alla Storia, alla complessità, e come contenitore, ora vacante, di “un fuoco oggettivamente credibile”. Ma in questo senso lo definirei un libro aperto, proprio là dove pone delle domande. Stefano si schermisce, nella Quarta, parlando di esso come di un “meccanismo celibe”. Solamente qui dissento da lui: una “macchina” che come questo libro non fornisce, come direbbe Michel Carrouges, “un godimento fine a sé stesso”, non è “improduttiva”, non marca una distanza con la solitudine del poeta, ma ha un senso, uno scopo, una “preoccupazione” che tanti libri di poesia nemmeno immaginano, non può essere celibe. (g. cerrai)