Ogni
volta
al più
dolce vivere,
prima
della parola,
quand’essa
albeggia
minima
tra le
cose minime.
(L.
Macchia, cosmi | minimi)
Esistono i verbi transitivi. Reggono il complemento
oggetto. In essi, l’azione passa dal soggetto all’oggetto: transita, non si
trattiene nel soggetto, lo trascende. La loro azione, il loro atto, la loro energheia
è spesso finalizzata a produrre qualcosa, un risultato finale, una entelechia.
Siamo qui nel campo della produzione, della poiesis, ma non della
poesia, come l’etimo vorrebbe. Una vita “transitiva” è finalizzata all’utile,
alla produzione, alla tecnica concepita come lavoro che genera un risultato,
come azione orientata. Ma la vita più autentica, la vita in quanto tale, ha una
natura “intransitiva”, non regge un complemento oggetto, è “atto in atto” che
non ha scopo se non in se stessa. L’azione si esaurisce nel soggetto che la
compie, così recita la grammatica facendosi metafisica[i].
Ronchi[ii],
per descrivere questo vitalismo, recupera il concetto di “praxis” di
Aristotele, originariamente sviluppato nel contesto politico e lo legge, sulla
scia di una particolare esegesi, come modello della intransitività del vivere,
in cui l’atto del vivente trova il suo senso in sé stesso, nella sua immanenza,
e non nella proiezione verso uno scopo finale. L’atto del vivente in quanto
tale, non un insieme di movimenti scomponibili dal pensiero analitico, che
tende a modellizzare la vita come un divenire di tipo meccanicistico, in cui
qualcosa di dato a priori si evolve in una trasformazione che è kinesis,
movimento di riconfigurazione di elementi già presupposti. Qui si tratta di
altro, di riguardare al vivente come connesso alla natura in senso spinoziano,
alla creazione continua, alla natura naturans come immanenza
dell’unitario e del molteplice nello stesso movimento che è un prodursi
continuo che aggiunge sempre un qualcosa in più. Un movimento che non dispiega
un “già dato” ma genera il mondo come “processo” da cui l’essere emerge
continuamente come da una sorgente piena, inesauribile.
Un esempio di vita intransitiva è nel film Perfect days
di Wim Wenders (2023) in cui il protagonista è un uomo di mezza età che, in una
Tokyo modernissima, svolge l’umilissima mansione di pulitore dei bagni pubblici
(resecato dal sistema produttivo “importante”) ma che sa vivere in continuo
contatto con il suo presente, con l’atto stesso dell’esistere, nelle semplici
cose quotidiane, ripetute in una routine che non si presenta come ripetizione
dell’identico ma come ripetizione della differenza, come contatto con il nucleo
vitale più autentico. La bibita al solito bar, la musica ascoltata nel tragitto
verso il lavoro, la lettura di un libro la sera, cose senza scopo se non il
vivere, senza meta, nella pura praxis il cui fine è in se stessa, nel
percepire la vita, nel dimorare dentro di essa. Azioni di puro stupore
partecipato, di esperienza della vita in sé, di cui la passione del
protagonista per contemplare la luce che filtra tra le cime degli alberi (i
giapponesi lo chiamano “komorebi”) è il paradigma perfetto.
Una vita da “folli” nel senso collegato al famoso arcano
dei tarocchi, l’arcano senza numero (e quindi senza logos) che ci
presenta l’archetipo del viandante senza meta, la cui follia consiste nel suo
semplice andare, nel suo puro vivere per vivere, senza scopo, senza
destinazione, senza trascendenza.
Il produrre della poesia, la sua poiesis, è proprio,
paradossalmente, correlata a questa “anti-poiesis” della praxis intesa
come intransitività del vivere, in un’attività di pensiero (perché la poesia in
qualche modo frequenta il pensiero pur non coincidendovi) che non è di natura
analitica, che non ritaglia il mondo, non lo spezzetta, non ne afferra delle
parti per manipolarle, non lo riduce ad una sequenza di stati statici, ma tenta
l’impossibile di dire questo “tutto insieme” che è l’esperienza del vivere.
In questo la poesia acquisisce una valenza politica che non
è, per intendersi, quella banale dei “reading a tema” per la pace nel mondo, ma
il suo porsi come istanza intransitiva in un contesto sociale in cui il
capitalismo, nella sua totale pervasività, ha reso tutto “transitivo”, assoggettato
alla logica produttiva, per cui ogni azione ha senso solo nel suo esito, nel
suo “output”. Il gesto poetico è intrinsecamente atto di rivolta verso i
dispositivi di “biopotere”, di controllo della vita, che si oppongono al suo
essere istanza puramente “in atto”, fine a se stessa, collegata a una
esperienza individuale di “self-enjoyment”. Dispositivi che sono strutturati
per ricondurla sempre all’interno di parametri di “normalità” e per porla a
disposizione del sistema produttivo. Il discorso sarebbe amplissimo ma
certamente la scuola e il lavoro sono strutture portanti di questa compagine
dispositiva. La poesia è lì a ricordarci che c’è una intransitività della vita
che è la vita stessa: inaggirabile, incodificabile. E lo fa con il suo semplice
darsi. Paradossalmente, la poesia che non si “impegna”, che non si vincola a
uno scopo, è quella più significativa anche politicamente.
Solo nel contatto intransitivo con il nostro esistere
possiamo essere salvi dal meccanismo di contingenza e oppressione che ogni concezione
poietica impone, ingabbiando la vita, isolandola dalla natura, meccanizzandola
all’interno del logos analitico, come splendidamente sintetizza Ronchi: «In
quanto praxis e non poiesis il vivente non è infatti movimento e
non è nemmeno tempo, che del movimento è la misura […] (un’annotazione
esistenziale […]: che cosa preserva l’uomo dall’orrore “logico” della morte
alla prima persona? Che cosa lo immunizza , anche quando l’età o la malattia lo
incalzano, se non la certezza pragmatica dell’intransitività dell’atto del
vivere? Ego sum, ego existo significa immediatamente per il
parlante: “io non posso non essere vivo”, “io sono sempre salvo”, “la vita è
eterna”)»[iii].
Immagine: il folle dei Tarocchi (fonte web)
[i] Non si sta affermando che tutti i verbi transitivi sono “della vita come poiesis” e tutti quelli intransitivi “della vita come atto in atto”: la cosa è più complessa di così e richiederebbe un approfondimento che qui non facciamo, scegliendo di semplificare, fermandoci alla suggestione grammaticale legata alla transitività e intransitività.
[ii] Rocco Ronchi, Il canone minore – Verso una filosofia della natura (2017)
[iii] Ronchi, op. cit., edizione digitale kindle pos. 5118
NOTA. Vi sono nel testo riferimenti non esplicitati a concetti molto famosi di Deleuze (differenza e ripetizione) e di Foucault (biopotere).