martedì 11 novembre 2025

La vita intransitiva, di Lucio Macchia

 



 

 

 

Ogni volta

al più dolce vivere,

prima della parola,

quand’essa

albeggia minima

tra le cose minime.

(L. Macchia, cosmi | minimi)

 

Esistono i verbi transitivi. Reggono il complemento oggetto. In essi, l’azione passa dal soggetto all’oggetto: transita, non si trattiene nel soggetto, lo trascende. La loro azione, il loro atto, la loro energheia è spesso finalizzata a produrre qualcosa, un risultato finale, una entelechia. Siamo qui nel campo della produzione, della poiesis, ma non della poesia, come l’etimo vorrebbe. Una vita “transitiva” è finalizzata all’utile, alla produzione, alla tecnica concepita come lavoro che genera un risultato, come azione orientata. Ma la vita più autentica, la vita in quanto tale, ha una natura “intransitiva”, non regge un complemento oggetto, è “atto in atto” che non ha scopo se non in se stessa. L’azione si esaurisce nel soggetto che la compie, così recita la grammatica facendosi metafisica[i].

Ronchi[ii], per descrivere questo vitalismo, recupera il concetto di “praxis” di Aristotele, originariamente sviluppato nel contesto politico e lo legge, sulla scia di una particolare esegesi, come modello della intransitività del vivere, in cui l’atto del vivente trova il suo senso in sé stesso, nella sua immanenza, e non nella proiezione verso uno scopo finale. L’atto del vivente in quanto tale, non un insieme di movimenti scomponibili dal pensiero analitico, che tende a modellizzare la vita come un divenire di tipo meccanicistico, in cui qualcosa di dato a priori si evolve in una trasformazione che è kinesis, movimento di riconfigurazione di elementi già presupposti. Qui si tratta di altro, di riguardare al vivente come connesso alla natura in senso spinoziano, alla creazione continua, alla natura naturans come immanenza dell’unitario e del molteplice nello stesso movimento che è un prodursi continuo che aggiunge sempre un qualcosa in più. Un movimento che non dispiega un “già dato” ma genera il mondo come “processo” da cui l’essere emerge continuamente come da una sorgente piena, inesauribile.

Un esempio di vita intransitiva è nel film Perfect days di Wim Wenders (2023) in cui il protagonista è un uomo di mezza età che, in una Tokyo modernissima, svolge l’umilissima mansione di pulitore dei bagni pubblici (resecato dal sistema produttivo “importante”) ma che sa vivere in continuo contatto con il suo presente, con l’atto stesso dell’esistere, nelle semplici cose quotidiane, ripetute in una routine che non si presenta come ripetizione dell’identico ma come ripetizione della differenza, come contatto con il nucleo vitale più autentico. La bibita al solito bar, la musica ascoltata nel tragitto verso il lavoro, la lettura di un libro la sera, cose senza scopo se non il vivere, senza meta, nella pura praxis il cui fine è in se stessa, nel percepire la vita, nel dimorare dentro di essa. Azioni di puro stupore partecipato, di esperienza della vita in sé, di cui la passione del protagonista per contemplare la luce che filtra tra le cime degli alberi (i giapponesi lo chiamano “komorebi”) è il paradigma perfetto.

Una vita da “folli” nel senso collegato al famoso arcano dei tarocchi, l’arcano senza numero (e quindi senza logos) che ci presenta l’archetipo del viandante senza meta, la cui follia consiste nel suo semplice andare, nel suo puro vivere per vivere, senza scopo, senza destinazione, senza trascendenza.

Il produrre della poesia, la sua poiesis, è proprio, paradossalmente, correlata a questa “anti-poiesis” della praxis intesa come intransitività del vivere, in un’attività di pensiero (perché la poesia in qualche modo frequenta il pensiero pur non coincidendovi) che non è di natura analitica, che non ritaglia il mondo, non lo spezzetta, non ne afferra delle parti per manipolarle, non lo riduce ad una sequenza di stati statici, ma tenta l’impossibile di dire questo “tutto insieme” che è l’esperienza del vivere.

In questo la poesia acquisisce una valenza politica che non è, per intendersi, quella banale dei “reading a tema” per la pace nel mondo, ma il suo porsi come istanza intransitiva in un contesto sociale in cui il capitalismo, nella sua totale pervasività, ha reso tutto “transitivo”, assoggettato alla logica produttiva, per cui ogni azione ha senso solo nel suo esito, nel suo “output”. Il gesto poetico è intrinsecamente atto di rivolta verso i dispositivi di “biopotere”, di controllo della vita, che si oppongono al suo essere istanza puramente “in atto”, fine a se stessa, collegata a una esperienza individuale di “self-enjoyment”. Dispositivi che sono strutturati per ricondurla sempre all’interno di parametri di “normalità” e per porla a disposizione del sistema produttivo. Il discorso sarebbe amplissimo ma certamente la scuola e il lavoro sono strutture portanti di questa compagine dispositiva. La poesia è lì a ricordarci che c’è una intransitività della vita che è la vita stessa: inaggirabile, incodificabile. E lo fa con il suo semplice darsi. Paradossalmente, la poesia che non si “impegna”, che non si vincola a uno scopo, è quella più significativa anche politicamente.

Solo nel contatto intransitivo con il nostro esistere possiamo essere salvi dal meccanismo di contingenza e oppressione che ogni concezione poietica impone, ingabbiando la vita, isolandola dalla natura, meccanizzandola all’interno del logos analitico, come splendidamente sintetizza Ronchi: «In quanto praxis e non poiesis il vivente non è infatti movimento e non è nemmeno tempo, che del movimento è la misura […] (un’annotazione esistenziale […]: che cosa preserva l’uomo dall’orrore “logico” della morte alla prima persona? Che cosa lo immunizza , anche quando l’età o la malattia lo incalzano, se non la certezza pragmatica dell’intransitività dell’atto del vivere? Ego sum, ego existo significa immediatamente per il parlante: “io non posso non essere vivo”, “io sono sempre salvo”, “la vita è eterna”)»[iii].


Immagine: il folle dei Tarocchi (fonte web)


[i] Non si sta affermando che tutti i verbi transitivi sono “della vita come poiesis” e tutti quelli intransitivi “della vita come atto in atto”: la cosa è più complessa di così e richiederebbe un approfondimento che qui non facciamo, scegliendo di semplificare, fermandoci alla suggestione grammaticale legata alla transitività e intransitività.

[ii] Rocco Ronchi, Il canone minore – Verso una filosofia della natura (2017)

[iii] Ronchi, op. cit., edizione digitale kindle pos. 5118


NOTA. Vi sono nel testo riferimenti non esplicitati a concetti molto famosi di Deleuze (differenza e ripetizione) e di Foucault (biopotere).