lunedì 17 novembre 2025

Appunti di Chiara Serani per Autrici in dialogo: Chiara Serani e Laura Giuliberti.


 

Dialogo delle autrici sulle rispettive opere:
- 𝑷𝒂𝒓𝒂𝒊̀𝒔𝒐, di Laura Giuliberti, Arcipelago itaca Edizioni, 2024. Collana "Lacustrine", diretta da Renata Morresi. Postfazione di Lello Voce.
- 𝐷𝑖𝑎𝑙𝑜𝑔ℎ𝑖 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑒𝑑𝑖𝑎. 𝐴𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑎 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑣𝑜𝑐𝑖, di Chiara Serani, Anterem Edizioni, 2023. Opera vincitrice della XXVI Edizione del Premio Lorenzo Montano, 2022.




Vorrei, nel tracciare alcune isoipse tra Paraìso (Arcipelago Itaca) e Dialoghi della sedia (Anterem 2023), partire dallo spazio, ovvero dall’idea di spazio che abita i due testi. Quello di Paraìso è apparentemente uno spazio geografico – Paraìso è anagramma di Parasio, quartiere storico di Imperia, e ovviamente richiama per allusione grafica e fonica il Paradiso; non a caso il testo – che porta come sottotitolo “Topografia del centro” – s’incentra su un viaggiare, completo di accenni a una prima cerchia, una seconda cerchia eccetera… su un peregrinare per una città dalle complesse stratificazioni storiche e culturali, un passeggiare attraverso i secoli e le loro incrostazioni urbane – che un po’ mi ha ricordato, mutatis mutandis, gli strata della Dublino di Joyce, e il vagare di Leopold Bloom. Fatto sta che il centro esplorato nel testo è un centro composito, ovvero è un possibile punto di congiunzione tra io, mondo e pagina in un interscambio continuo tra lo spazio della scrittura e lo spazio esterno alla pagina, cioè quello del paesaggio osservato, intuito, evocato… dall’io poetante. Afferma Lello Voce nella sua postfazione al libro (Voce il quale, ricordiamolo, è un po’ il deus ex machina segreto di questo incontro in quanto qualche mese fa ha scritto sul «Fatto Quotidiano» un articolo in cui appaiava proprio Paraìso e Dialoghi della sedia all’insegna di una comune rinuncia al verso in favore della prosa, Serani e Giuliberti: la poesia non va a capo ) che al cuore del libro di Giuliberti vi è «un esperimento di psicogeografia situazionista, pronto a mutarsi in ogni istante in détournement, un’analisi degli effetti che il contesto geografico ha sull’affettività di chi lo esperisce». Il centro è dunque il punto in cui si incrociano e si centrano corpo, lingua (io) e mondo – ma in un equilibrio instabile, mosso… perché c’è nel testo un rimescolamento continuo di attribuzioni e funzioni, e quindi una riattribuzione, per esempio, della lingua al mondo, che parla, interloquisce direttamente con l’osservatore, e quindi col soggetto poetante, e di un corpo al mondo e alla lingua: «da fuori è tutto schiena», «le muffe dispiegano le scapole», «ritmo circadiano della città», «tanta salsedine s’ostina a smentire» si legge nel testo. Questo equilibrio instabile, questa osmosi, si reifica poi sulla pagina in anagrammi, in paronomasie… ed ecco infine che il “locale” non è più categoria che appartenga solo alla topografia, cioè, secondo la lettera etimologica, alla “scrittura del luogo”, dunque all’ecfrasi del circostante, ma alla scrittura in toto, alla parola, le cui microstrutture locali vengono esplorate e manipolate, rimescolate. Per venire a sintesi, la “topografia” si fa in Giuliberti, mi sembra, punto d’accesso metaletterario privilegiato e la conquista dello spazio, del paesaggio, la sua descrizione, sono la conquista della lingua stessa, e inevitabilmente dell’io e del corpo, da cui la scrittura, come cristallizzazione proprio della lingua, muove anche in qualità di atto performativo. Serve infatti un corpo, per scrivere.

E qui intravedo una profonda consonanza tra il testo di Laura e il mio, in cui c’ è forse un’analoga volontà di esplorazione dello spazio, che è principalmente spazio del corpo e attorno al corpo; Luigi Severi, a proposito dei Dialoghi della sedia, ha parlato di “ecfrasi” – cioè, di descrizioni di azioni performative. Se nel caso del testo di Laura la descrizione, l’ecfrasi è soprattutto rivolta al paesaggio, nel caso dei Dialoghi il paesaggio è semmai quello del corpo e della gestualità. Mi sovviene una frase –che al momento fatico ad attribuire, per mancanza di memoria, al suo autore o autrice – e che mi pare azzeccata per introdurre il mio testo: «Il mondo è un gesto il cui archetipo è l’occupazione dello spazio». E di nuovo, dunque, siamo alle prese con una spazialità, che in questo caso è quella di un corpo femminile che viene esplorato, attraversato e descritto, ma con una presa di distanza rispetto al corpo stesso, un po’ come nel caso degli scorci del testo di Laura, in cui l’io poetante è ora fuori dal quadro ora dentro il quadro; vi è infatti nei Dialoghi una estrinsecazione dell’io che da soggetto diventa oggetto di osservazione, si reifica, si oggettivizza appunto, mettendosi in scena attraverso la performatività fisica, e quindi non attraverso la diretta analisi psicologica delle emozioni ma la loro dissezione quasi chirurgica per come si manifestano nel gesto. «Ciò che noi leggiamo è sostanzialmente il referto di quest’io che scrive guardandosi agire, senza reclamare alcun senso a ciò che fa. Semplicemente refertandolo», scriveva Voce sui Dialoghi, evocando a ragione un io poetico che è quasi un anatomo-patologo. Nei Dialoghi l’anatomia è allora forse l’equivalente della topografia in Paraìso, la sua lente diffrattiva, perché il corpo viene letto come un campo istituito da molteplici forze, simultaneamente materiali e simboliche (che sono un po’ il corrispondente di quelle stratificazioni storico-culturali di cui si diceva proprio a proposito degli scenari di Paraìso), e si rivela, l’anatomia, anche come un principio di organizzazione e ortopedia politica: il corpo, i corpi, vengono architettati, costruiti in base al loro contesto storico, proprio come fossero un paesaggio urbano. Gesti e oggetti, moltissimi oggetti, si muovono nei Dialoghi, e a questo proposito vorrei leggere un’avvertenza che si trova però in apertura di Paraìso: «ci piace pensare […] che solo in un’estroflessione dell’anima e nell’inflessione di ogni oggetto che la circonda, si dia qualcosa come il trovarsi». Una frase che mi pare adattarsi con miracolosa perfezione anche e proprio ai Dialoghi, in quel gioco continuo di proiezioni e interazioni tra io e gli oggetti del suo quotidiano.

Circa la similarità formale dei due testi, scriveva ancora Voce: «Due opere che fanno a meno del verso, due libri insomma che mi hanno confermato nella mia convinzione che la poesia, prima che stile, lessico (letterario) e, soprattutto, verso stia tutta nella sintassi. Che si vada a capo, o meno, poco conta.» Entrambi i nostri libri ricorrono prevalentemente alla prosa, anche se ci sono porzioni più o meno residue di verso, la cui presenza in qualche modo aleggia e poi si concretizza, soprattutto nel testo di Laura. La forma prevalente in entrambi i libri è comunque quella della lassa, direi, del blocco in prosa, che nel caso di Paraìso si conclude talvolta con un richiamo alla poesia, uno o più versi isolati che sembrano staccarsi dalla lassa stessa come in una specie di decantazione; e del resto nel libro di Laura c’è anche qualche breve testo in versi. Nel caso di Dialoghi le lasse sono seguite da blocchi di altre voci che si presentificano nel libro dalle fonti più varie (internet, la Bibbia, testi poetici, filosofici…) e che reagiscono con le parti precedenti per via di relazione, irrelazione, analogia, commento, problematizzazione; inoltre compaiono una filastrocca e un testo conclusivo in versi. Naturalmente questa rinuncia preponderante al verso s’inserisce in uno scenario post-poetico di ricerca lontano dalla tradizione e dalla parola verticale, dall’a capo. Eppure, la lingua di Laura è una lingua che mantiene intatti molti crismi del dire poetico (brevità, densità, incandescenza), e persino del dire lirico: se infatti elemento imprescindibile della lirica è la centralità dell’io, il testo di Laura dimostra come si possa scrivere una poesia dell’io senza dire “io”. Gli effetti dell’osservazione del paesaggio sull’emotività della voce poetante, la psicogeografia, diceva Voce, sono qui ciò che conta: di nuovo la topografia appare non più solo come griglia metaletteraria ma come medium per “parlare” del soggetto, del sé e della sua percezione, persino propriocezione. Nel caso dei Dialoghi il corpo e le sue azioni ludico-sadiche servono in realtà a mettere in scena psicodrammi interiori ma, di nuovo, senza la necessità di dire “io”, o di utilizzare la terza persona, come fanno oggi molti autori che vogliono evitare l’usurata, inflazionata prima persona poetica. Dunque a me pare che entrambi i due libri infilino una certa originalità, in particolare perché generalmente quando si utilizza la prosa, soprattutto nella cosiddetta “scrittura di ricerca”, si tratta perlopiù di una prosa fredda, o raffreddata, attraverso le modalità dell’informativo, dell’espositivo, dell’installativo (come sacrosanti modi avversi a una “Poesia” monumentalizzata che appare ormai stantia, incapace di rinnovarsi), mentre in questo caso siamo in presenza di una prosa indirettamente “emotiva”, in cui la rinuncia al verso non coincide totalmente con la rinuncia a dire di sé seppur in maniera, appunto, mediata.

Chiara Serani



Link all'articolo di Lello Voce ne Il Fatto Quotidiano citato da Chiara Serani: 

https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/01/16/duetti-20-serani-e-giuliberti-la-poesia-non-va-a-capo/7837042/?fbclid=IwY2xjawOI8KBleHRuA2FlbQIxMABicmlkETFYeXh5VVpiclM0cmcxSjdEc3J0YwZhcHBfaWQQMjIyMDM5MTc4ODIwMDg5MgABHvaOiPMlPqDnEY9u6p_IgnSygBdmMxsKlmnvR3WzWc8EyCEsA4q1JvvTplQI_aem_gouGSprtB-SO0YzyOPTUDA


Le Cicale Operose è molto orgogliosa e felice nel ricordare che il primo incontro tra Chiara Serani e Lello Voce, più volte citato nell'articolo,  avvenne grazie al Festival VOCI (settembre 2024), ideato e a cura de Le Cicale Operose, in cui scegliemmo Chiara Serani per dialogare con Lello Voce, consapevoli della sua bravura e competenza, infatti Lello Voce, non conoscendo l'autrice, rimase piacevolmente sorpreso dalla preparazione e dalla profondità di sguardo della relatrice nell'introdurre la sua opera, Razos, La nave di Teseo, 2022.

Video di un frammento della presentazione di Lello Voce a Le Cicale Operose: