sabato 22 novembre 2025

Appunti di Maristella Diotaiuti per la presentazione del volume L’ombra dell’infanzia, di Silvia Rosa.

 















Sabato 22 novembre, alle Cicale Operose, SIlvia Rosa presenta
𝐿’𝑜𝑚𝑏𝑟𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙’𝑖𝑛𝑓𝑎𝑛𝑧𝑖𝑎, peQuod Edizioni, 2025, collana Rive. Postfazione di Franca Alaimo.
Maristella Diotaiuti introduce l’autrice.


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L’ombra dell’infanzia, titolo ossimorico, con i tuoi termini antitetici perché se si pensa all’infanzia la si pensa luminosa, non fatta di ombre. La stessa copertina con il fondo di un bianco che rimanda alla purezza e innocenza dei bambini/e sul quale si staglia il nero della piccola sagoma di un uccellino ferito che sembra avere le ali strappate, una macchia sul fondo bianco, una sporcatura, quindi sia il titolo che la copertina ci introducono al tema e alla cifra stilistica, poetica, della raccolta, il tema della violenza domestica, la violenza sui bambini, sulle bambine, la pedofilia, anche se il termine pedofilia (dal greco pais = fanciullo e philia = amore) è molto deviante perché ha in sé quel riferimento all’amore, alla predisposizione naturale dell’adulto verso il fanciullo di protezione, accudimento e cura, che non ha nulla a che fare, a che vedere con il rapporto pedofilo, che è invece un rapporto incentrato sul dominio, sul potere, sulla predazione, sulla sopraffazione, sull’appropriazione violenta di corpi innocenti e inermi, fiduciosi.

Silvia in una poesia (pag.25) lo definisce in maniera precisa e lucida:gioco osceno che significava la prepotenza del più forte, il suo tuttopotere”. È anche un rapporto sbilanciato, sbilanciamento che l’abusante sfrutta, utilizza per i propri fini.

Quindi Silvia tocca un tema non solo indicibile ma anche inascoltabile, irricevibile, tanto irricevibile che si fa finta che non esista, non se ne parla abbastanza, anzi se ne parla pochissimo, pur essendo, purtroppo, molto diffuso, si tende a relegarlo in un angolo nascosto (Silvia dice “l’angolo più sozzo”), a metterlo sotto il tappeto, come si fa con la polvere, come recitava un altro libro che ho trovato affine a questo di Silvia, il libro di Francesca Svanera, Sotto la polvere che abbiamo presentato alle Cicale un paio d’anni fa, e ha raccontato la sua personale esperienza di abusi.

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Il libro di Silvia mette il lettore di fronte alle sue responsabilità e lo trasporta dentro l’ombra di un’infanzia violata, dentro il trauma di una scaraventazione in una esperienza sofferta, subita e quindi fa implodere e deflagrare il silenzio e trasformarlo in parole, per lacerare la cortina di protezione, di ipocrisie, di connivenze che circonda, avvolge i fatti di abusi e violenze. Ma per farlo deve prima di tutto guardare in faccia il mostro, il male, e Silvia lo guarda, lo stana, mette allo scoperto le radici di questo male, poi lo racconta, pur sapendo che questa è un’operazione dolorosa. Ma è nota la capacità delle donne di stare accanto al male, al dolore, in contiguità, in prossimità, di ospitarlo e di elaborarlo, è una postura che le donne conoscono bene, che acquisiscono con l’esperienza e che poi riescono a rendere intellegibile nelle loro narrazioni.

Questa di Silvia è sicuramente scrittura dell’esperienza, non necessariamente nel senso di autobiografica, ma piuttosto nel senso di avere la capacità di assumere su di sé altre vite, altri vissuti, altre esperienze di altre donne. C’è la necessaria discesa agli inferi, infatti questo libro è una catabasi, un attraversamento dell’orrore, dell’abiezione, o anche una sorta di via crucis (ci sono le stazioni che poi sono le sezioni del libro), una liturgia del rosario ma dei misteri dolorosi dove si sgranano uno per uno le tappe di un calvario, di una esperienza di sofferenza. Una catabasi realizzata non sul lettino psicoanalitico ma sulla pagina, appunto attraverso la scrittura, l’esperienza della scrittura.

Scriveva Helene Cixous nel saggio femminista del 1975 “Il riso della Medusa”:scrivendosi la donna farà ritorno a quel corpo che le e’ stato confiscato”.

La scrittura di Silvia credo che vada in direzione di una riappropriazione di sé, una ricomposizione di quel sé che è stato infranto e franto.

Anche la scelta del linguaggio poetico va in questa direzione, non a caso, qui la scrittura è quella poetica, per la capacità che ha la poesia di scendere in profondità e di sconfinare, far saltare le convenzioni, le ipocrisie, anche linguistiche.

Quindi Silvia restituisce alla poesia il suo statuto politico, sociale, di impegno. Questo è un libro politico. Ed è una poesia molto moderna per le tecniche narrative, i dispositivi che utilizza, tra cui l’uso del verso lungo, l’endecasillabo e oltre, che è un verso narrativo, quindi c’è questa tensione della poesia alla prosa, come in molta poesia recente Silvia qui realizza una poesia fuori dalla lirica, e il rischio era presente visto il tema trattato, quello di scadere in una lirica, una retorica trita, scontata.

Una poesia in cui c’è un’io che però non è mai un io centrale, ma piuttosto una espansione dell’io, una propagazione rizomatica dell’io, una poesia in cui si sente una voce, più che un io, la voce è qualcosa che viene prima dell’io, una voce che viene da zone più profonde e allagate, diroccate, come Silvia stessa le definisce. Una voce che qui ha dovuto forgiare una lingua per potersi esprimere.

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Ed è una voce che non si esaurisce nella singolarità della persona, del corpo che la emette, ma è in relazione. Il libro stesso ha questa doppia focale, verso un dentro e verso un fuori: parla alla singola bambina, e alle altre bambine, e parla a noi, a tutti noi.

Sappiamo che la voce è sempre in relazione: in latino vocare significa, chiamare. La filosofa Adriana Cavarero, nel libro A più voci – filosofia dell’espressione vocale, del 1922, scrive: Prima ancora di farsi parola, la voce è un’invocazione rivolta all’altro e fiduciosa in un orecchio che la accoglie.


DOMANDE


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Il problema che Silvia ha dovuto affrontare è stato sicuramente anche di ordine linguistico, stilistico, formale (perché, ricordiamolo, questa è un’opera letteraria, è il frutto di un lavoro quasi di artigiano sul materiale poetico e i suoi dispositivi). Silvia ha scelto una sorta di linguaggio antifrastico, con un effetto ironico, non per far ridere, ma per dire qualcosa volendo dire il contrario, far saltare cioè l’ordine sintattico, semantico che equivale a far saltare le ipocrisie, le convenzioni, i veli. E c’è l’uso del linguaggio fiabesco e fanciullesco (che suonerebbe normale visto che si parla di infanzia, di bambine), infatti il libro è popolato di filastrocche, cantilene, ninnananne, stilemi del lessico infantile (è stato notato un diffuso uso dei diminutivi tipico della lingua dei bambini) ma tutto è deformato, rovesciato, allucinato, tutto va letto al contrario, in senso antifrastico appunto, un linguaggio che non rassicura più, non culla, non protegge, ma inquieta, disturba, denuncia.

Quindi qui la fiaba non è il mondo colorato, leggiadro, il luogo dell’evasione, del gioco, ma è un luogo ferente, popolato da figure mostruose, spaventose, cattive, sempre in agguato, sono l’orco, le madri-matrigne, la regina delle nevi, non sono le figure positive, luminose delle fate madrine, del gigante buono, del principe che salva, e non sono nemmeno figure fantastiche, distanti, ma sono presenze reali, incarnazioni di persone reali, del quotidiano, figure domestiche. E se le figure positive vengono comunque convocate, sono immediatamente trasformate in negative con l’accostamento di aggettivi negativi appunto, dequalificanti.

È molto interessante il perturbante che circola in questa raccolta, come un’atmosfera, un’aura, ma non è il perturbante freudiano (che individuava proprio nelle donne l’elemento perturbante), piuttosto quello delle scritture delle donne, molto ben individuato e analizzato dalla critica femminista più o meno recente, una fra tutte Monica Farnetti, tra le sue declinazioni troviamo anche quella che ci interessa per definire il perturbante di Silvia: per Farnetti il perturbante nella letteratura delle donne, oltre che produrre una sorta di empatia, di amicizia tra le donne e il mostro, funziona come elaborazione dell’angoscia, come principio di autostima che si attua in energia creativa. in questo senso “l’angoscia come strategia del potenziamento di sé’” è uno dei modi di auto-rappresentazione femminile che si invera nella scrittura.

Ed è un tratto che ritrovo in questa raccolta di Silvia, in cui attraverso il perturbante tematizza l’abietto, il disgustoso, il ripugnante, lo mette in luce e in rilievo e così lo espelle.

Un altro dispositivo interessante che Silvia utilizza è il distanziamento temporale, o meglio lo sdoppiamento tra il tempo passato in cui i fatti si fanno, in fieri e il tempo della narrazione in cui i fatti si sono già compiuti e quindi vengono osservati a distanza ma dentro un corto circuito in cui passato e presente si confondono, si intrecciano. Così anche lo sdoppiamento tra l’io personaggio/bambina abusata che vive nel loro farsi i momenti dell’abuso, della violenza, e l’io poetante/la donna adulta che guarda la bambina che era e vorrebbe proteggerla, prendersene cura. C’è una poesia a pag. 28 molto bella, esplicativa, in cui Silvia guarda questa bambina e prova tenerezza nei suoi confronti, una tenerezza che riscalda un po’, addolcisce questa tua scrittura, dura, tagliente, laminata, anche per questa pulsione a volerla proteggere, a prendertene cura, a volerla salvare.

 

 Sulle assenze-solitudine   

Silvia insiste molto sull’isolamento, la solitudine delle bambine abusate, il loro silenzio, l’incapacità o l’impossibilità di raccontare, perché, dice Silvia, non hanno le parole, ma anche per tutti quei meccanismi che le inibiscono, spesso generati e alimentati dagli stessi abusanti, come i sensi di colpa, la vergogna, e soprattutto il timore, fondato direi, di non essere ascoltatecredute, sono tutti i meccanismi che impediscono alle abusate/i di parlare e  Silvia insiste molto sulle assenze di tutte quelle figure che per definizione dovrebbero essere di protezione e che qui non lo sono, le figure che invece avrebbero dovuto vedere e intervenire, che magari sanno, vedono ma girano lo sguardo dall’altra parte e Silvia le individua precisamente, a cominciare dalla madre, passando a un dio assente, ma anche giudicante e punitivo, che Silvia chiama, con una espressione terribile ma efficace il dio dei bambini rotti (che è anche il titolo di una sezione), per finire con la madre per eccellenza, la madonna (pag. 69) fino ad arrivare a quei bambini/e che vivono la loro fanciullezza ignari del fatto che possa esistere un’altra fanciullezza. Silvia li raggruppa tutti in una poesia a pag. 62.

 

Sulle strategie di sopravvivenza:

In questo stato di isolamento quali strategie può mettere in atto una bambina abusata? Silvia mette in campo tutta una serie di strategie, che chiama un decalogo di sopravvivenza per bambine sotto scacco (un contro-decalogo rispetto a quello biblico e un codice legislativo, entrambi che non prevedono i bambini e forme di tutela) e in altre poesie parla di una strategia del corpo (la poesia stessa di Silvia è corpo), ma qui è un corpo che per le bambine abusate diventa il nemico e che quindi bisogna disinnescare, punire, rinnegare, ad esempio deformandolo, ingrassandolo o dimagrendo , diventando indesiderabili. Una strategia di rivolta, di resistenza che altrove tu individui in una sorta di selvatichezza salvifica. A pag. 22 lo dice chiaramente: bambina selvatica che non si lascia domare, una / piccola strega che mastica ingrati anatemi, era / la sentinella in piedi diroccata ma salda negli / avvitamenti del giorno , nelle rade del tempo / perpendicolare, immaginando di continuo come / uccidere l’orco, come non farsi domare.

 Per quanto queste strategie possano essere efficaci, resta comunque la memoria del corpo, che lavora sul tempo lungo, e che parla attraverso sintomi e segnali, è il linguaggio del rimosso: disturbi alimentari (anoressia, bulimia), attacchi di panico, rifiuto di certi cibi, allergie, intolleranze, ecc., che Silvia evidenzia, c’è una poesia a pag.33 nella sezione Tutta tenebre dove le annota, dice che “si può giocare con il corpo … / smettendo di mangiare, oppure mangiando / fino a sentirti così piena, un otre in miniatura anoressia. Messaggi del corpo che spesso la vittima non riesce a decodificare, ma che funzionano da evento scatenante che poi dà il via a tutto un cammino di recupero e di consapevolezza e quindi, forse, di guarigione.

 

Sulla sorellanza:

È un libro in cui solo apparentemente si accampa un io che però è un io collettivo e collettivizzante, che ad un certo punto si trasforma in un noi talmente allargato da includere tutte le donne abusate, e quelle che perdono la vita, che non sopravvivono alla violenza. È l’io di tutte, c’è un forte appello alla sorellanza (sororanza), in tal modo il libro si trasforma in un libro a più voci.

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Come dicevamo, il libro è una catabasi, un percorso esperienziale, in cui entra anche l’esperienza della scrittura. Sembra che non ci sia redenzione, salvezza, eppure alla fine c’è una sezione sorprendente, anche un po’ spiazzante, che allude a una verticalità, una risalita dal nero del male, del mostruoso, all’azzurrità del cielo e al bianco delle nuvole. Ma le nuvole per definizione sono evanescenti, immateriali, impermalenti, quindi ci leggo questo esito ambivalente: da una parte la impossibilità di ricomporre ciò che è stato rotto, i "bambini rotti” restano tali, ma dall’altra paradossalmente proprio in questa impossibile ricomposizione, nella trasformabilità continua delle nuvole, sta la possibilità di una continua rinascita – le nascite e le disnascite di Maria Zambrano, anche attraverso il gioco della immaginazione, della fantasia, una energia continuamente sorgiva, epifanica. Un gioco legato anche alla fiaba, ma questa volta gioco e fiaba autentiche, non è più il gioco millantato, falso, dell’adulto abusante. Quindi il recupero dell’infanzia nella prospettiva di una adultità non più determinata dalla terribile esperienza dell’abuso, ma attingendo a quella selvatichezza di cui parlavamo prima e quelle isole interiori rimaste intatte malgrado tutto, per non trasformarsi, come scrive Silvia in un verso, da abusati in abusanti.

M.D.



𝐍𝐨𝐭𝐞 𝐛𝐢𝐨𝐠𝐫𝐚𝐟𝐢𝐜𝐡𝐞

Silvia Rosa
Nasce a Torino, dove vive e lavora come docente. Ha esordito in poesia nel 2010 con il libro Di sole voci (LietoColle), a cui sono seguite le raccolte poetiche SoloMinuscolaScrittura e Genealogia imperfetta (La Vita Felice 2012 e 2014), Tempo di riserva (Ladolfi 2018) e Tutta la terra che ci resta (Vydia 2022). Ha curato i volumi antologici: Bestie. Femminile animale, di cui è anche coautrice, e Confine donna: poesie e storie di emigrazione (VAN Editrice 2023 e 2022); Maternità marina (Terra d’ulivi 2020), con sue immagini fotografiche; Italia Argentina ida y vuelta: incontri poetici (La Recherche 2017), per il quale si è occupata anche delle traduzioni in italiano. Ha scritto il saggio di storia contemporanea Italiane d’Argentina. Storia e memorie di un secolo d’emigrazione al femminile (1860-1960) (Ananke 2013) e la raccolta di racconti Del suo essere un corpo (Montedit 2010). Le sue poesie sono state tradotte e pubblicate in diverse lingue, tra le altre: spagnolo nella silloge Tiempo de reserva (Ediciones en danza, Buenos Aires 2022), romeno nella plaquette Treceri (Editura Cosmopoli, Bucarest 2023) e inglese nell’antologia Look what I did about your silence (El Martillo Press, Los Angeles 2025).