domenica 6 aprile 2025

Pasquale Lenge invita Francesco Sassetto, poeta dialettale veneziano.

 












Pasquale Lenge (poeta Lucano, curatore della rubrica Torrenti):

Quarcarunë recë

nù mena, sëccata

a quarcarunatë venë

lu trëmulizzë, la mbosta!


Ciuccië pè jastmà

mulë pé fatëá

cavaddë pè camnà


pè passà la jumara

amici sincirë e carë

quà lu screvë

qui l'ho detto

invito faccio al poeta

Francesco Sassetto



Si tratta di un invito ad attraversare il torrente; qualcuno afferma che è secco, altri, paurosi (trëmulizzë), che è in piena. Ognuno con i suoi mezzi simbolici: asini per bestemmiare, muli per lavorare, cavalli per viaggiare. Per guadare il torrente, amici sinceri e cari, poeti.

Sempre Vostro, Pasquale Lenge.



Le Cicale Operose ha avuto il piacere di ospitare Francesco Sassetto in occasione del Festival di poesia VOCI, II Edizione, dedicato alla poesia dialettale, invitando poeti di varie regioni d'Italia.






Per ascoltare l'audio cliccare sull'immagine.


Francesco Sassetto legge tre poesie in dialetto Veneziano: 

Backgrounddalla  raccolta Background, Milano, Dot.com Press-Le Voci della Luna, 2012, poi nella raccolta Il cielo sta fuori, Arcipelago itaca, 2020;

Come xe triste Venessia, dalla raccolta Discanto, Arcipelago itaca, 2023;

I ne ga ciapà par stanchéssadalla raccolta Discanto, Arcipelago itaca, 2023.



                   Background 

 

Dipende da dove che ti vién, da l’aria

respirada da putèo, le vose i oci

che te xe entrài dentro e se ga inciodà,

le man indurìe de me pare, le ónge col nero

de i fèri che no va più via, le so storie

de cavi e ascensori da montàr

                                           e l’amigo cascà

da l’impalcaùra, brusà ne la calse viva,

’na note in bianco e po’ el siòpero e la paura

de perdar el posto.

 

Dipende da mia mama maestra a vint’ani

ne le campagne de Pianìga, miseria

e litorìna a le sìe e bicicleta par chilometri

de giasso e sassi, el paltò, sempre queo,

 revoltà e messo posto

                                   e i fiói de i contadini,

trentaquatro putèi strucài nel magazén

co la stùa a carbón, da insegnarghe

a scrìvar e contàr, a parlàr

 

e ’na paga che no rivàva al vintisète.

 

Dipende da le case abitàe insieme a éa

oci che rideva,  magnàr  e boéte da pagàr

 

                   no ghe xe schèi ’sto mese par la paruchiera,

fa gnente, amor, ti xe bela istesso

                                       fa gnente

ma quei oci de sol se velava

e la strada tirava in salita.

 

E la pióva che passa i cópi róti e riva al sofìto,

casca le giosse in camera da leto, ti ghe meti

soto un caìn e ti buti l’ocio a quando

che ’l xe pièn

                               e restemo in quea casa

in nero perché l’afìto xe bon, ghe la fémo,

restemo e sognemo’na casa megio,

un lavoro sicuro, quel viagio a Parigi

rimandà ogni ano a l’ano dopo.

 

E riva un giorno che ti ghe mòi de sognàr, ti te alsi

de note a svodàr el caìn

                                   ti tachi a porconàr

e i sorisi  pian se destùa, ti xe stufo

de ’ndar sempre in saìta, ti te ricordi

de to pare e to mare

                                 le to raìse impastàe

de amor e fadìga, quel seme duro piantà

tra stómego e cuor, la to vita

                                               el to spècio.

  

 

Background Traduzione dal dialetto veneziano: Dipende da dove vieni, dall’aria / respirata da bambino, le voci gli occhi / che ti sono entrati dentro e inchiodati, / le mani indurite di mio padre, le unghie con il nero /degli attrezzi da lavoro che non va più via, i suoi racconti / di cavi e ascensori da installare / e l’amico caduto / dall’impalcatura, bruciato nella calce viva, / una notte in bianco e poi lo sciopero e la paura / di perdere il lavoro. // Dipende da mia madre maestra a vent’anni / nelle campagne di Pianiga, miseria / e littorina alle sei e bicicletta su chilometri / di ghiaccio e sassi, il cappotto, sempre quello, /rovesciato e adattato / e i figli dei contadini, / trentaquattro bambini stretti nel magazzino / con la stufa a carbone, da insegnargli /a scrivere e far di conto, a parlare,  /e uno stipendio che non arrivava al ventisette. // Dipende dalle case abitate insieme a lei / occhi che ridevano, affitto e bollette da pagare, / non ci sono soldi questo mese per la parrucchiera, / non importa, amore, sei bella lo stesso / non importa / ma quegli occhi di sole si velavano / e la strada andava in salita. // E la pioggia che filtra dalle tegole rotte e arriva al soffitto, / cadono le gocce in camera da letto, metti  /sotto una bacinella e stai attento a quando /è colma / e restiamo in quella casa / in nero perché l’affitto è buono, ce la facciamo, / restiamo e sogniamo una casa migliore, / un lavoro sicuro, quel viaggio a Parigi / rimandato ogni anno all’anno dopo. // E viene il giorno che smetti di sognare, ti alzi / la notte a svuotare la bacinella / cominci a bestemmiare/e i sorrisi lentamente si spengono, sei stanco / di andare sempre in salita, ti ricordi / di tuo padre e tua madre / le tue radici impastate / di amore e fatica, quel seme duro piantato / tra stomaco e cuore, la tua vita / il tuo specchio.





         Come xe triste Venessia


co un turista mòre schissà fra góndoła e vaporéto

a Rialto, el Sindaco dise a gran vóse che ´l darà

´na regołàda al tràfico da autostrada che xe łà,

po´ ´l tase

                                        el torna née so stanse

 

co in Riva S-ciavóni dai Lancioni se bùta fóra

ogni giorno ´na marea de móne che va par e càe

ridendo e sigàndo, in una man el scartòsso

de pasta ne ł´altra gùgol map

 

co e case se svóda e cresse a grumi B&B   

e botéghe de porcàe made in Venice

e tuto xe bìsness e Venessia un bazàr

che strénze el cuor

 

co sìga tute e łingue del mondo e nissùn   

parla più venessiàn, no ti trovi un amìgo

che te diga ˝bondì, vècio, come va?˝

ti camìni in mèzo a mièra de ombre

che spénze e strénze

córe e va via.

 

 

E no te  resta che ´ndàr vanti           

cói òci àe pière

stàr su ła Riva a vardàr de sera

el cieło łontàn

                        sempre più nero.

 

Com’è triste Venezia. Traduzione dal dialetto veneziano: quando un turista muore schiacciato fra gondola e vaporino / a Rialto, il Sindaco proclama che farà / un’Ordinanza per regolare quel traffico da autostrada / poi tace / torna nelle sue stanze // quando in Riva Schiavoni scende dai Lancioni / ogni giorno una marea di scemi che girano le calli / ridendo e gridando, in una mano un cartoccio / di pastasciutta, nell’altra Google Map // quando le case si svuotano e crescono a grumi B&B / e negozietti di porcherie made in Venice / e tutto è business e Venezia un bazar / che stringe il cuore // quando si alzano in un grido tutte le lingue del mondo e nessuno / parla più il veneziano, non incontri un amico / che ti dica ˝ciao caro, come va?˝ / cammini tra migliaia di ombre / che spingono e opprimono / corrono e vanno via. // E non ti resta che andare avanti /con gli occhi alle pietre / stare sulla Riva a guardare la sera / il cielo lontano /sempre più nero.


 



           I ne ga ciapà par stanchéssa     

                                                                                                  È vero che sono stanco:     

                                                                                                  questo scendere scale e salire

                                                                                                 deride, finché uccide, gli stanchi.

 

                                                                                                                               Franco Fortini

 


dełusión, perché sémo stufi

no gavémo più fià

né vòia de alsàr la testa

                                    sigàr

 

rami séchi de ´na stagión finìa

stémo sìtì

 

un can bastonà che quasi no sente più e bòte

destirà in tèra a pànsa in su

sangue da ła bóca

el stómego rebaltà

 

gnanca el ghe prova a drissàrse in pìe

                                    sbraitàr

                                               morsegàr

 

el sta butà łà

i òci serài

                        mugołando

 

a spetàr da nóvo el bastón.

 

Ci hano preso per stanchezza. Traduzione dal dialetto veneziano: delusione, perché siamo stanchi / non abbiamo più fiato / né voglia di alzare la testa / gridare // rami disseccati d’una stagione finita /stiamo in silenzio // un cane bastonato che quasi non sente più le percosse / disteso a terra a pancia in su / sangue dalla bocca /lo stomaco rovesciato // nemmeno prova ad alzarsi sulle zampe / abbaiare / azzannare // rimane là accasciato / gli occhi abbassati / mugolando // ad aspettare che torni il bastone.

 



Francesco Sassetto risiede a Venezia dove è nato nel 1961. Si è laureato in Lettere presso l’Università "Ca’ Foscari" di Venezia con una tesi sul commento trecentesco di Francesco da Buti alla Commedia dantesca, pubblicata nel 1993 dall'editore Il Cardo di Venezia con il titolo La biblioteca di Francesco da Buti interprete di Dante. Ha collaborato in qualità di cultore della materia alla cattedra di Filologia Dantesca con attività didattica e di ricerca ed ha conseguito nel 1998 il titolo di dottore di ricerca in “Filologia e Tecniche dell’Interpretazione”. Insegna Lettere presso il Cpia di Venezia (Centro per l’istruzione in età adulta), nella Sede associata di Mestre.  

Scrive componimenti in lingua e in dialetto veneziano che hanno ricevuto premi e segnalazioni.     Suoi testi sono presenti in antologie, riviste, blog e siti web ed ha pubblicato sette raccolte di poesia:  Ad un casello impreciso (Padova, Valentina Editrice, 2010) con prefazione di Stefano ValentiniBackground (Milano, Dot.com Press-Le Voci della Luna, 2012) con prefazione di Fabio Franzin, Stranieri (Padova, Valentina Editrice, 2017) con prefazione di Stefano ValentiniXe sta trovarse, in dialetto veneziano (Samuele Editrice, Fanna, 2017), con prefazione di Alessandro Canzian, Il cielo sta fuori (Arcipelago Itaca 2020), comprendente testi inediti ed alcune poesie gìà edite e  “rivisitate”, con un saggio di Stefano Valentini, Discanto, in italiano e dialetto veneziano (Arcipelago itaca, Collana AltriMari - poesia neodialettale, 2023) con prefazione di Manuel Cohen, contributi critici di Sandro Pecchiari e Monica Guerra e con cinque immagini di Manuele Elia Marano

È uscita nel febbraio 2025 la raccolta Mart, pubblicata da Puntoacapo editrice, con una postfazione di Alfredo Rienzi e quindici immagini di Manuele Elia Marano.


giovedì 3 aprile 2025

Una pratica senza verità, di Lucio Macchia.












Una pratica senza verità, di Lucio Macchia

che tu volessi, tu, da me, perché,

universa impresenza,

unicità e miriade,

chiesi;

tu, da me, perché,

semantico silenzio.

(A. Zanzotto, da IX Ecloghe)

 

J. Miller, nel suo libro L’Uno-tutto-solo, illustra come Lacan, nell’ultimo periodo della sua riflessione, giunga su posizioni “eretiche”, arrivando a definire la psicanalisi “ortodossa” come una risposta totalmente idiota a un enigma. L’enigma che è il vivere non si lascia inserire in un discorso di senso “luminoso”, compito, definitivo. Vi è una opacità irriducibile su cui non si fa luce. Ecco quindi che la psicanalisi, ci dice ancora Miller, è una pratica senza verità. D’altra parte, proprio perché la psicanalisi è rivolta alla vita, l’esistenza stessa è definibile in questo modo: una pratica, un agire, un accadimento mai totalmente riassorbili nel simbolico. Qualcosa che si presenta irrimediabilmente dell’ordine del contingente, del singolare, della quodditas[i]. Ciò non va inteso nel senso di una sorta di scetticismo, di relativismo concettuale, di gioco intellettuale o linguistico. Il discorso è ben più radicale. La verità che viene a mancare è, come spesso ripeto, quella logocentrica, categoriale e generalizzante dell’idea. L’esperienza è collocata nettamente al di fuori dalla dialettica, dove la parola, in quanto logos razionale, entra in crisi, non può afferrare il reale della vita, che sfugge alla presa del begriff[ii]. Una pratica senza verità, dove può essere agita solo una parola aporetica, gettata oltre il proprio limite, dalla natura singolare e irriferibile. Una parola che è consustanziale con il silenzio pieno dell’ascolto del mondo (il semantico silenzio zanzottiano), i giri del detto dell’analisi (les tours du dit lacaniani), un certo pensare filosofico affine al vitale e all’immanenza (come in Deleuze) e, soprattutto, con l’espressione poetica. In tutti questi ambiti, la parola si presenta dell’ordine dell’impossibile, annodata al corpo vivente, a una verità che si dà (cito ancora M.) senza la finzione della verità e degli universali. Aconcettuale, antilluministica. Una verità residuale e precaria, rischiosa e disperata. Collegata al reale dell’esistenza, all’esperienza incarnata dell’umano.


Immagine: Mirtha Dermisache



[i] A cui ho dedicato il post precedente.

[ii] Termine tedesco per “concetto” che deriva proprio dal verbo “afferrare”.