mercoledì 27 agosto 2025

Nota di lettura di Rita Ciatti per il volume "Anche Hitler era vegano. Demagogia e stereotipi della vegafobia", di Dario Martinelli.

 















Nota di lettura di Rita Ciatti per il volume 

Anche Hitler era vegano. Demagogia e stereotipi della vegafobia, di Dario Martinelli2025, Mimesis Edizioni.

 

Diciamocelo, noi vegani non stiamo molto simpatici alla maggior parte delle persone: moralmente superiori, arroganti, aggressivi, fanatici, estremisti, irragionevoli, patosensibili, misantropi, saccenti, rompiballe. Questi alcuni degli aggettivi con cui le persone definiscono le persone che per motivi etici hanno deciso di smettere di consumare gli animali e i loro derivati.

Questo testo di Dario Martinelli, semiologo, musicologo, poeta e autore di canzoni, scritto in maniera tanto accurata e documentata quanto spassosa (qualità che fa sempre piacere trovare anche in un saggio e non solo nelle opere di narrativa) esplora le ragioni di quella che lui definisce una vera e propria vegafobia, assimilabile cioè alle altre forme di fobia esistenti nei confronti di minoranze o di gruppi percepiti come “alterità” minacciose nei confronti del sistema dominante, con i suoi valori e tradizioni; perché indubbiamente una persona che per motivi personali, per esempio di salute o religiosi, dichiari di non poter mangiare il maiale o le cosiddette carni rosse non costituisce una minaccia all’ordine costituito e quindi non c’è ragione che venga bullizzata o attaccata al fine di dimostrare la sua “irragionevolezza” o “estremismo”, ragion per cui condizione essenziale della vegafobia è che il o la veg* di turno dichiari di esserlo per ragioni etiche.

Non c’è dubbio che tirarsi fuori da quella che è una pratica consolidatasi nei secoli, normalizzata e naturalizzata, non possa che essere visto come un modo di vivere quanto meno bizzarro, cioè non conforme a un certo ordine costituito, soprattutto quando le ragioni di questa scelta vanno a intaccare convinzioni profonde e radicate su più piani, non solo strettamente materiali, ma anche simbolici.

La parte, a mio avviso fondamentale e centrale di questo testo, senza la quale sarebbe anche impossibile comprendere appieno la vegafobia, è infatti propria quella che introduce il concetto di antropoteosi, ossia la teorizzazione di quella che sembra essere una vera e propria fissazione della nostra specie:  il bisogno di distinguerci qualitativamente dalle altre specie, ignorando la continuità evolutiva tra noi e gli altri animali e la percentuale altissima di attributi che con loro condividiamo (dati alla mano, condividiamo il 98% del nostro patrimonio genetico con i primati, infatti siamo primati anche noi, il 90% con in mammiferi e il 60% con i moscerini, tanto per fare alcuni esempi), di fatto quasi negando, consapevolmente o meno, di essere animali anche noi. Le ragioni di questa “dimenticanza” sono ovviamente molteplici, spesso ideologiche, ma la più elementare è che sostanzialmente non vogliamo ammettere di essere animali tra gli animali proprio perché li abbiamo sempre privati di quegli attributi positivi (o che riteniamo tali) che invece riconosciamo solo a noi stessi, fallacemente individuando ed enfatizzando quel poco che ci differenzia rispetto al tanto che invece ci unisce. Per meglio dire, definirci animali ci svilisce perché di fatto noi sviliamo gli animali: processo fondamentale per trovare giustificazione morale al loro sfruttamento e uccisione. L’antropoteosi è una sorta di mito o mitizzazione dell’umanità in opposizione all’animalità, gruppo che comprenderebbe quindi tutti gli animali, tranne noi. Per costruirlo ci sono voluti secoli, il sostegno di pensatori illustri, nonché delle principali religioni monoteiste, ma anche distorsioni e strumentalizzazioni a fini ideologici, ad esempio, delle teorie darwiniste.

La vegafobia, come tutte le discriminazioni verso un gruppo, si serve e nutre di vari elementi, tra cui gli stereotipi e i pregiudizi. Nella parte introduttiva del libro Dario ricostruisce l’origine di questi termini e di ciò che significano. Non sapevo ad esempio che il concetto di pregiudizio fu introdotto da Francis Bacon nel XVII secolo nella sua opera Instauratio Magna. Bacon, scrive Dario, “fornì una spiegazione di quelli che chiamò errori e superstizioni intrinseci e profondi nella natura della mente, chiamati idola mentis. Idola è un termine che possiamo tradurre come idoli, ovvero miti che l’essere umano onora al posto della verità” e che si distinguono in quattro tipi, idola tribus, idola specus, idola fori, idola theatri.

Segue una spiegazione molto interessante che ci aiuta a comprendere non solo la vegafobia, ma in generale i miti e credenze errate su molti argomenti e che, anche involontariamente, spacciamo per verità, addirittura per verità scientifiche (esempio: la carne fa bene, il latte fa bene, non è possibile vivere senza mangiare carne; miti che persistono nonostante l’evidenza di persone vegane da venti o più anni o di bambini svezzati con alimentazione vegetale, vale a dire che non hanno mai assaggiato carne di animali in vita loro e che godono di ottima salute).

Successivamente si passa alla definizione degli stereotipi, i quali, secondo l’analisi del giornalista Lippmann, che nel 1922 li teorizzò in un saggio, sono in stretta relazione con i pregiudizi, “essendo la base cognitiva di questi ultimi”, ossia in una relazione di causa-effetto.

Comprendere cosa siano i pregiudizi e gli stereotipi, come si formano e per quale esigenza della mente umana è fondamentale dunque per comprendere la vegafobia e in generale il processo con cui cataloghiamo e raggruppiamo, per facilità, le informazioni che ci arrivano dall’esterno. Si tratta di processi mentali in una certa misura anche naturali, cioè utili per raggruppare e sintetizzare le tante informazioni che ci arrivano, ma poi sostenuti e rafforzati da convinzioni molto spesso antiscientifiche e non corrispondenti al vero.

Il testo prosegue con la trattazione dei materiali audiovisivi, ossia di come il cinema, la televisione e in generale i media mainstream trattano il veganismo e i veg* (da specificare che Dario mette insieme vegetariani e vegani non perché non sappia la differenza e cosa comporti in termini di scelta etica, ma perché ai fini di questo libro entrambi i gruppi sono oggetto di vegafobia, sebbene i vegani, per ovvie ragioni, lo siano in misura maggiore).

Come sono rappresentati i veg* nel cinema? Come vengono caratterizzati i personaggi, marginali o meno, in un’opera filmica e televisiva? Prendendo in esame una trentina di opere, spaziando tra cartoni animali, sit-com, serie TV, film, stand-up comedy, scopriamo così che i veg* hanno sempre delle caratteristiche comuni e ben specifiche: strani, ingenui, bizzarri, idealisti, troppo buoni, ma anche ossessivi, polemici, rigidi mentalmente, incapaci di godersi la vita, talvolta, come la protagonista di Hungry Hearts di Saverio Costanzo, ortoressici, ossia eccessivamente preoccupati di contaminare il proprio corpo con alimenti ritenuti dannosi, preoccupazione che sconfina nella patologia. L’ortoressia, è bene ribadirlo, è appunto una patologia e può riguardare sia le persone veg* che quelle non veg*; rientra nello spettro dei disturbi alimentari, affine quindi all’anoressia e bulimia. Il regista Saverio Costanzo all’epoca dichiarò che non era suo intento criticare le persone vegane, eppure, guarda caso, Mina, la protagonista, è anche vegana, particolare che sicuramente ha contribuito ad alimentare lo stereotipo del veg* fuori di testa che per le sue manie si ammala. Piccolo aneddoto personale: quando comunicai a mio padre la decisione di diventare vegetariana (nemmeno vegana, quello lo sarei diventata successivamente), la prima cosa che mi disse fu: “Questa è una mania che ti ha trasmesso Andrea” (mio marito), mettendo insieme ben due pregiudizi in uno: che il vegetarianismo fosse una mania e che le manie si possono attaccare come un virus. Un esempio pertinente di vegafobia.

Sappiamo che queste rappresentazioni audiovisive sono a dir poco ingenerose e non centrano il focus della motivazione per cui si diventa vegani, ma è importante capire come i media ci rappresentano in quanto, essendo mezzi in grado di raggiungere una vasta fetta di popolazione, contribuiscono a rafforzare o delineare tout court l’immagine dei veg* e quindi ad alimentare la costruzione della vegafobia, di fatto allontanando la comprensione della serietà della questione animale.

Senza spoilerare troppo, come si dice in gergo, ossia elencarvi i numerosi punti affrontati in questo libro (tra cui ad esempio la differenza tra onnivori, polifagi e carnivori, già anticipata da Dario nell’altro suo libro Lettera a un futuro animalista o la parte dedicata all’ironia e alla satira), vi dico perché questo è un libro che ogni persona vegana farebbe bene a leggere, e non solo quindi, auspicabilmente, i diretti interpellati - cioè chiunque almeno una volta nella vita abbia pronunciato qualcuna o più delle seguenti frasi “Anche Hitler era vegano”, “Anche le piante soffrono”, “Però le zanzare le ammazzi”, “E se ti trovassi su un’isola deserta come faresti?”, “Senza proteine nobili ci si ammala”, “Siamo carnivori perché abbiamo i canini”, “I leoni mangiano le gazzelle”, “E il ferro dove lo prendi?” ecc.-; perché è importante comprendere il terreno di scontro, diciamo così, entro cui ci muoviamo e capire anche le motivazioni che portano i non vegani a percepirci come ostili, delegittimando quindi la portata etica della nostra scelta definendoci dei nullafacenti che anziché occuparsi delle cause davvero importanti pensano agli animali. Non è utile, facendo un po’ di autocritica (altra parte che si affronta nel libro), ergersi su un piedistallo dando degli idioti ignoranti a tutti coloro che ci criticano (tanto meno definirsi “illuminati”, “risvegliati” rispetto a una “massa dormiente”) perché se vogliamo avere dei risultati dobbiamo essere in grado di comprendere come gli altri ci vedono e percepiscono e se sono chiari i motivi che ci hanno fatto diventare veg*; dobbiamo conoscere quali sono i processi mentali che portano a costruire metaforicamente muri di incomunicabilità che poi di fatto impediscono di ottenere i risultati auspicabili nella questione che ci sta a cuore, ossia aiutare gli animali a liberarsi dal giogo della nostra oppressione e discriminazione.

Già, in conclusione, dove sono gli animali in questo testo? Ovunque. Perché è ovvio che il testo va a parare in una direzione, ossia: le persone non prendono sul serio i veg* perché sostanzialmente non prendono sul serio la questione animale, cioè gli animali.

In quanto gruppo di nicchia, sebbene in crescita, Dario ci invita anche a valorizzare ciò che unisce la galassia animalista anziché evidenziare ciò che ci differenzia (esattamente come per decostruire l’antropoteosi dovremmo iniziare a considerare ciò che ci unisce agli altri animali anziché ciò che ci differenzia). Abbiamo la responsabilità di fare del nostro meglio per rendere comprensibile la nostra causa, senza svenderla, ma con un pizzico di strategia.

Senza esagerare e senza adulazione, definisco questo libro tra i più interessanti che abbia letto sul veganismo. Ovviamente ognuno di noi ha delle preferenze, ossia predilige questo o quel punto di vista per analizzare un tema, scelta che dipende anche dalla propria formazione e non c’è dubbio che a me interessi moltissimo tutto ciò che riguarda segni, linguaggio, comunicazione in generale, processi mentali individuali e frutto di condizionamenti sociali, ma a prescindere da questo Anche Hitler era vegano affronta argomenti importanti finora trascurati nella letteratura animalista, argomenti che ritengo utili non sono ai fini di una conoscenza personale, ma anche per migliorare il proprio attivismo e approccio verso i non veg*. Sembra paradossale, nel senso che dovrebbero essere i non veg* a mettere in discussione i loro pregiudizi verso di noi, ma la comunicazione efficace necessita sempre di un punto di incontro e se non ci riesce il gruppo esterno alla nostra comunità, che poi è quello maggioritario, rendiamoci dunque parte virtuosa perché in ballo non c’è la soddisfazione di vincere o meno in una discussione, ma letteralmente la vita di milioni di animali.

Per cui, grazie Dario, ho imparato tanto, e ho anche riso spesso, cosa che non guasta mai!

Per ultimo, ma non in ordine di importanza, menzione speciale anche alla splendida copertina realizzata dal bravissimo Bruno Bozzetto, che di certo non ha bisogno di presentazioni. Come diciamo in gergo: è uno di noi e con la sua arte si dedica moltissimo alla causa.

Rita Ciatti

 

 

sabato 23 agosto 2025

"Souvenir di Jeanne Modigliani", di Mario Di Chiara.

 













Souvenir di Jeanne Modigliani, di Mario Di Chiara.


Nel corso dell’intervento[1] del 13 luglio 2025 dedicato a Modigliani presso Le Cicale Operose (Le Cicale Operose per Amedeo Modigliani, https://www.facebook.com/events/1286591789555037?active_tab=aboutho proposto, tra l’altro, qualche souvenir dalla vicenda personale della figlia Jeanne, basati su articoli di stampa raccolti nell’arco del tempo.

Porto il nome di Modigliani perché fu mio zio Giuseppe Emanuele a riconoscermi. Mi raggiunse a Parigi, dopo la morte dei miei genitori quando non avevo che pochi mesi, e mi condusse a Firenze dalla nonna Eugenia. Più tardi negli anni, quando reputò che fossi in grado di comprendere, lo zio mi raccontò la strana storia della mia famiglia.[2]

Così Jeanne Modigliani riferisce al cronista nel cui articolo è però possibile riscontrare varie semplificazioni, o abbreviazioni giornalistiche per comodità di esposizione, come ad esempio sul concetto di genitori. Infatti agli inizi degli anni ‘80 del novecento, a memoria non riesco ad essere più preciso, la rai inviò un cronista sportivo ad intervistarla e ad un certo punto lei, riprendendo il giornalista che gli chiedeva dei suoi genitori esclamò: Non sono stati i miei genitori, erano due ragazzi o perlomeno è così che li considero, perché in realtà non li ho conosciuti![3]

È facile avvertire quanto controversa sia stata la vita di questa donna fin dalla più tenera età, lacerata da sentimenti così radicali e contrastanti, oltreché probabilmente afflitta da milioni di domande che non avevano interlocutori possibili. Sappiamo infatti che i nostri processi di apprendimento e crescita, fin da bambini, si basano sull’emulazione dei comportamenti dei modelli che abbiamo più vicini. Nel caso di Jeanne Modigliani un percorso del genere si è molto differito nel tempo.
Quando nel 1958 diede alle stampe Modigliani senza leggenda, libro intitolato alla memoria del padre,[4] aveva ormai 40 anni, ed è solo nel 1964 che esordì con la sua prima mostra personale in Italia,[5] maturata evidentemente nel tentativo di riconnettersi ai genitori attraverso la pratica del dipingere.

Ho lottato per quarant’anni per non cedere a questa tentazione, poi ha vinto la pittura.[6]

A questa sua prima esposizione alla galleria d’arte “l’Obelisco” (attiva dal 1946 al 1978 in via Sistina 78 a Roma) fu notata già come ben orientata verso uno stile astratto che non si addentrava nell’informale; è una protagonista del suo tempo che guarda alla contemporaneità con forse alcune riserve derivate dalla formazione come storica dell’arte.

Inevitabilmente la sua traiettoria come artista soffrì del cognome ingombrante del padre, tanto da non riuscire mai a riscuotere particolare attenzione, e il 18 giugno del 1988 - a quattro anni dalla sua prematura scomparsa – alcuni collezionisti e la famiglia che forse non aveva sufficiente spazio per contenere la sua produzione, misero prima in mostra e poi subito in asta presso l’Hotel Drouot di Parigi, centottantuno sue opere. Il libro che accompagnò la vendita fu il catalogo dell’opera che non ebbe mai in vita.

Poco prima di scomparire, agli inizi di quel luglio 1984, a proposito del padre aggiunse:
Mio padre era un uomo che viveva al di fuori degli schemi borghesi. Era ammirato dalle donne ed ebbe molte avventure. Quando a venti anni mi trasferii a Parigi[7] fui oggetto di curiosità da parte di molte donne che vennero a cercarmi per vedere com’ero fatta. Probabilmente volevano ritrovare in me quei stessi tratti dell’uomo che avevano tanto amato.[8]

Mario Di Chiara

 

 Documentazione fotografica:


Foto n. 1


 











Foto n. 2














Foto n. 3














Foto n. 4
















[1] Cenni sulla formazione socioculturale di Amedeo Modigliani e l’avventura critica del suo lascito (1875-1915), a cura di Mario Di Chiara.

[2] - Intervista di Enrico Giuffredi ed Emilio Ronchini, raccolta a Parigi ai primi di luglio del 1984, editore Rusconi.

[3] Purtroppo non ho i riferimenti esatti di questa intervista, da cui però trassi vari appunti mentre la vedevo in televisione, sulla rai, probabilmente in prossimità del centenario dalla nascita di Amedeo Modigliani, quindi nel 1984.

[4] Modigliani senza leggenda, di Jeanne Modigliani, scritto come reazione, in special modo, ai libri firmati dal poeta André Salmon (1881-1969) il primo ad avvantaggiarsi della fama postuma di Modigliani con una narrativa agiografica e priva di sostanza, costellata di ‘invenzioni poetiche’ e gratuite falsità.

[5] Sua prima mostra personale in Italia in quanto l’anno prima, 1963, aveva già esposto presso la Galerie Horn in Lussemburgo.

[6] Jeanne Modigliani 1918-1884, Edizioni Drouot, giugno 1988, Parigi.

[7] Idem

[8] Intervista di Enrico Giuffredi ed Emilio Ronchini, raccolta a Parigi ai primi di luglio del 1984, editore Rusconi.

 


venerdì 15 agosto 2025

"Per iniziare a costruire un movimento poetico meridiano", di Bruno Di Pietro.

 
















Per iniziare a costruire un movimento poetico meridiano.

1. Nel corso del 2023 si sono registrate diverse manifestazioni, eventi, festival di poesia in cui le parole “Sud” e “Mediterraneo” facevano da spazio tematico di riferimento. Quasi tutte organizzate nel Sud dell’Italia. Fatto che va salutato come benvenuto e rilevante per le presenze e lo spessore.

Ma proprio per questo credo sia giunto il momento di far fare alla riflessione un salto di qualità. Che, in sintesi, è contenuto in apertura di un libro importante nella economia di questo discorso. Parlo della “Carta poetica del Sud” di Simone Giorgino ( Musicaos Editore, 2022). Il quale si pone e ci pone la seguente domanda: È possibile individuare, come recentemente è stato proposto, una linea meridionale, o meridiana, nella poesia italiana contemporanea? Esiste un sostrato comune, un immaginario condiviso o una koinè, che permetta di collegare, senza troppe forzature, le numerose ed eterogenee esperienze poetiche che si sono sviluppate nel Novecento e oltre, nel Sud del nostro Paese? E quali sono le sue caratteristiche principali? Quali gli esiti maggiori? E in nota rimanda ai contributi precedenti e cioè agli studi di Antonio Lucio Giannone e di Simone Giusti.

Credo che negli ultimi due anni, oltre alle citate manifestazioni, vi siano stati segnali interessanti in questa direzione (penso al recupero di attenzione su poeti come Cattafi e Carrieri grazie ai lavori di Diego Conticello e Stefano Modeo). Così come ho una mia personale mappa di poeti meridionali che in questo contesto culturale scrivono (e non faccio nomi perché non ho titolo e non è mia abitudine farlo).

Va anche però opportunamente precisato che una “carta poetica del Sud” non comprende solo poeti nati nel Mezzogiorno: non c’è uno jus soli che determini l’inserimento nel contesto culturale di cui qui si parla.

E qui riprendo ancora Simone Giusti, sto pensando a mettere in piedi, in campo un progetto. Quello di un Sud in grado di consistere e resistere alla dispersione dei suoi poeti, capace dunque di riemergere anche al di là degli effettivi contatti e delle discendenze. Capace dunque di tenere insieme, ad esempio, Calogero e Bodini, ma anche Gatto e Toma e, naturalmente, i consentanei Sinisgalli e De Libero, Cattafi e Carrieri, Pierro e Scotellaro

Un sud per il quale forse non basta più il logorato aggettivo «meridionale», e che potrebbe invece riconoscersi nel più cogente «meridiano» adottato da Franco Cassano nel suo libro Il pensiero meridiano, fondato proprio sul rifiuto di una meridionalità da definirsi esclusivamente per differenza dalla normalità del nord e sulla ricerca di una identità nuova, che sappia smettere di paragonarsi all’altro da sé per ritrovare e tutelare all’interno della sua storia e del suo paesaggio un modello culturale non-produttivistico.

Un movimento poetico meridiano che rifiuti l’oscuramento delle sue radici, mettendole alla prova dei tempi che stiamo vivendo, nelle esperienze di scrittura dei suoi poeti contemporanei giovani e meno giovani.

Un movimento che metta in mora quelle Università del Sud troppo spesso, e per ragioni di opportunismo, del tutto disattente rispetto alla ricchezza culturale dei luoghi in cui operano. Un movimento che coinvolga Fondazioni, Associazioni, e dia respiro anche ad una sperabile rinnovata capacità della impresa editoriale.

2. Le linee, i movimenti dipendono dalla loro capacità di farsi tradizione, di incarnarsi, cioè, in altre esperienze, di lasciare un’eredità.

Ma occorre in primo luogo individuare il “nucleo di pensiero” su cui si fonda una identità meridiana.

E quindi.

2.1. Il punto di partenza è far uscire dall’oscuramento le radici di quella poesia che da ora diremo “meridiana” utilizzando le categorie usate da Franco Cassano. Un lavoro di rivisitazione critica del 900 italiano. E qui la citazione dal libro di Simone Giorgino è d’obbligo: Il vento della Storia, insomma, ha soffiato in maniera pressoché uniforme sull’Italia meridionale, determinando la formazione di un genoma culturale che affonda le sue radici nei tempi remoti della Magna Grecia e della Sicilia ellenica. E proprio l’influenza greca, che interessò gran parte delle zone costiere del Mezzogiorno, riemergerà non a caso – ora come fascinazione per il pensiero presocratico (come ricordava Bodini “Pitagora è uno delle nostre parti”) , ora come istintiva predisposizione a una rappresentazione panteistica del paesaggio – nei versi e nelle riflessioni di molti poeti del Sud [...] Al di là delle pur fondamentali traduzioni dei Lirici Greci (1940) di Quasimodo o delle Imitazioni dell’Antologia Palatina (1980 ) di Sinisgalli, infatti, la ‘grecità’ permea la poesia meridionale e si manifesta essenzialmente attraverso una strategia stilistica condivisa, per esempio nella continua sovrapposizione del sensibile con l’intelligibile, del concreto con l’astratto, del naturale con lo spirituale, del sogno con la realtà”. Come scrive Gatto in una delle prose di Carlomagno nella grotta (1962) si è spettatori nel Sud di una immutabile contemporaneità dei secoli.

2.2. In secondo luogo, l’assunzione del valore della “lentezza” come deviazione dalla accelerazione che domina nel mondo moderno. In cui una idea di progresso senza limiti impone il proprio produttivismo alle culture “altre”, eufemisticamente “in via di sviluppo” ma che in sostanza si vogliono annientare mediante il disconoscimento della loro identità.

2.3. In questa ottica il mare, il Mediterraneo, è il mare del viaggio, degli scambi, della integrazione. Ma è anche il mare dei porti, degli approdi, delle baie. Soprattutto è il mare del “ritorno”. Il Mediterraneo non è l’Oceano in cui si avventura l’Ulisse di Dante. Il viaggio non è verso l’infinito. Ha il suo limite. In un particolare intreccio mare/terra.

2.4. Il “limite” riporta all’essenziale assunzione della “misura”. L’esatto opposto della cultura Nord-Occidentale centrata su un individualismo senza misura che tende alla sottomissione che sconfina nella devastazione della Natura. “Limite” e “misura” riportano all’essenziale riconoscimento delle “alterità” e ad un rinnovato equilibrio con la Natura. E anche del rapporto fra la “ragione” e la “passione”.

2.5. Albert Camus dice (in L’uomo in rivolta) Nella luce, il mondo resta il nostro primo e ultimo amore. È questo il segreto custodito nel mondo mediterraneo. Questa la radice di quel “naturalismo” tanto presente nella poesia meridiana. E, sempre come diceva Camus il mare e il sole non costano niente.

È su questi punti così frettolosamente forse indicati che si può riconoscere i caratteri di quella poesia meridiana che, forse proprio per il suo carattere intrinsecamente, oggettivamente corrosivo di valori dominanti è stata messa ai margini da sempre. Soprattutto mediante, lo ripetiamo, mediante “l’oscuramento delle radici”. Di cui credo i poeti del Sud contemporanei devono impossessarsi, farle proprie perché nasca e si consolidi un movimento poetico vero e proprio.

3. Concludo con una citazione ancora da L’uomo in rivolta di Albert Camus: La giovinezza del mondo si trova ancora intorno alle stesse sponde. Gettati nell’ignobile Europa ove muore, priva di bellezza e di amicizia, la più orgogliosa fra le razze, noi mediterranei viviamo della stessa luce. In cuore alla notte europea, il pensiero solare, la civiltà dal duplice volto, attende la sua aurora.


Bruno Di Pietro



Note biografiche

Bruno Di Pietro (1954) vive e lavora a Napoli esercitando la professione forense. Ha pubblicato fra le altre con Oèdipus Edizioni le raccolte poetiche: Colpa del mare (2002, poi in Colpa del mare e altri poemetti 2018) Impero (2017) Baie (2019) Frammenti del risveglio (2021).  Due volte finalista e una segnalazione speciale per Una vita in versi nelle ultime tre edizioni del Premio di Poesia e Prosa “Lorenzo Montano”. Suoi interventi di critica sono apparsi su Nazione IndianaFrequenze PoeticheInfiniti mondiLa Clessidra.  È presente nel “Dizionario Critico della poesia italiana (1945-2020)” a cura di Mario Fresa.  È presente in numerose antologie. Interventi sul suo lavoro poetico sono presenti in riviste cartacee e blog.  Fondatore con Gabriele Frasca e Mariano Baino della Casa Editrice “d’If” .



giovedì 14 agosto 2025

La poesia dialettale in lingua napoletana di Gianni Iasimone.

 









Pasquale Lenge invita Gianni Iasimone.

Pasquale Lenge (poeta Lucano, curatore della rubrica Torrenti):

Quarcarunë recë

nù mena, sëccata

a quarcarunatë venë

lu trëmulizzë, la mbosta!


Ciuccië pè jastmà

mulë pé fatëá

cavaddë pè camnà


pè passà la jumara

amici sincirë e carë

quà lu screvë

qui l'ho detto

invito faccio al poeta


Gianni Iasimone


Si tratta di un invito ad attraversare il torrente; qualcuno afferma che è secco, altri, paurosi (trëmulizzë), che è in piena. Ognuno con i suoi mezzi simbolici: asini per bestemmiare, muli per lavorare, cavalli per viaggiare. Per guadare il torrente, amici sinceri e cari, poeti.

Sempre Vostro, Pasquale Lenge.


Pubblichiamo tre poesie di Gianni Iasimone in lingua napoletana (con traduzione), "nella variante dialettale dell'Altocasertano, e più precisamente, della parlata di Pietravairano, mio paese di origine" (G. Iasimone). 

Letture di Gianni Iasimone (clip audio in basso nella pagina).

Le tre poesie sono tratte dall'ultimo libro dell'Autore, 'A via ra casa (La via di casa), prefazione di Manuel Cohen, uscito nel 2025 per la collana Altrimari di Arcipelago itaca Edizioni diretta da Manuel Cohen.

Immagine fotografica di Gianni Iasimone: Vittorio Tallarico


12.

Stéll’ astutàt’

 

quann’ arrivi prima ‘e fa’ sera

ra via vèccia ra stazión’

prima ‘e l’ùtima curva ‘u paés’

annašcùs’ arrèt’ ‘u sassón’ ru Calavàrio

àutu ‘ncòpp’ ‘a muntagna re pazzìe nòstr’

all’intrasatta cumpàr’ abbandunàtu

com’ ròpp’ a ‘nu cataclišma

ma è sulu ‘n’impressión’

cciù vicin’ s’ vér’ ‘u paés’ cciù nuovu

ca s’ stènn’ soprattutt’ p’ ‘a pianura

com’ a ‘na ùfara ‘ncòpp’ ‘a lóta ‘mpésa

senza funnamènt’ p’ ‘e stéll’ astutàt’

 

Stelle spente

quando arrivi al crepuscolo / sulla vecchia strada dalla stazione / prima dell’ultima curva il paese / nascosto dietro lo sperone del Calvario / in alto sulla montagna dei nostri giochi / all’improvviso appare abbandonato / come dopo un cataclisma / ma è solo un’impressione / più vicino si vede che il paese più recente / si stende soprattutto in pianura / come una bufala sul fango sospesa / senza fondamenta per le stelle spente

 


16.

‘Ntilligenza veggetale

 

fra tutt’ i munni pussìbbili

ch’ bellu nasc’ n’ata vòta

‘ncòpp’ a ‘na stella veggetale

ràrica o ramu ‘e pianta šcanusciùta

o picculu ciuppitiégliu aggarbato

ch’ cresc’ ‘ncòpp’ a ‘na léngua ‘e terra

mmiéz’ ‘u trafficu celestiàl’

ch’ vatt’ tra sassu e sassu

e špacca ‘a luc’ gilàta assaj

 

Intelligenza vegetale

fra tutti i mondi possibili / che bello sarebbe rinascere / su una stella vegetale / radice o ramo di pianta sconosciuta / o piccolo pioppo delicato / che cresce su una lingua di terra / in mezzo al traffico celestiale / che batte tra sasso e sasso / e spacca la luce siderale

 


32.


‘A ciav’ ‘ell’acqua


ci vuléss’ ‘a ciav’ ‘ell’acqua

p’ rapì ‘stu ciélu tamugnu

ca com’ a ‘nu ddiju ‘ntèrra

s’é ‘rrubbàtu gl’anni tuoj

‘ntramènt’ špuntavi ‘ncòpp a ‘stu munnu

viecciu e nuovu com’ a ‘nu suonnu

com’ ‘na viola ch’ašpetta

ca ciòv’

 

La chiave dell’acqua

ci vorrebbe la chiave dell’acqua / per aprire questo cielo ottuso / che come un dio in terra / ha rubato gli anni tuoi / mentre spuntavi in questo mondo /  vecchio e nuovo come un sogno / come una viola che aspetta / che piova



LETTURE DELLE TRE POESIE A CURA DI GIANNI IASIMONE

PER ASCOLTARE L'AUDIO CLICCARE SULL'IMMAGINE. 



NOTE BIOGRAFICHE

GIANNI IASIMONE, classe 1958, poeta, performer, attore, regista, studioso di tradizioni popolari, autore di video e testi teatrali, è nato a Pietravairano, un piccolo centro dell’Alto Casertano. Laureato in D.A.M.S. con Giuliano Scabia all’Università di Bologna, ha conseguito un Master in Poesia Contemporanea presso l’Università di Urbino. Sue poesie e interventi sono apparsi su numerose riviste, in rete e in alcune antologie tra le quali: Bologna e i suoi poeti (a cura di C. Castelli e G. Centi, Bologna 1991). Ha pubblicato la raccolta di versi La memoria facile (con disegni di Carmelo Sciascia, Filt Piacenza 1991); il poema “metà-fisico” Il mondo che credevo, (prefazione di Giovanni Nadiani, Mobydick 2005); la raccolta antologica Chiavi storte (Mobydick 2012); il canzoniere La Quintessenza (Arcipelago itaca Edizioni 2018). Il poema Il mondo che credevo (già Mobydick 2005) si é aggiudicato la settima edizione del Premio Editoriale Arcipelago itaca 2021 per la sezione ‘Opere già edite o da ripubblicare’ ed è stato riproposto con la prefazione di Manuel Cohen, sempre per i tipi di Arcipelago itaca Edizioni 2022. Di recente l’uscita del canzoniere in dialetto ‘A via ra casa (Arcipelago itaca Edizioni 2025). Suo anche il saggio critico Conta nu cuntu! Il racconto orale come strumento creativo e comunicativo (Caramanica 2002). Numerosi i riconoscimenti ottenuti dalla sua opera in premi letterari nazionali. A partire dagli anni Ottanta ha dato vita a svariate performances poetiche itineranti e ha letto i suoi versi in diverse piazze e teatri. Ha partecipato a numerosi video e spettacoli teatrali, realizzandone molti come autore-regista-attore. Attivo come operatore culturale, dal 2022 è ideatore e condirettore del “Pietra Poesia Festival”, collabora con alcune riviste e portali on-line, ed è uno dei fondatori dell’associazione “Microcosmus” di Rimini, dove attualmente vive.  


mercoledì 13 agosto 2025

Bruno Di Pietro: poesie meridiane.

 













Pasquale Vitagliano invita Bruno Di Pietro: due poesie meridiane, tratte dalla raccolta

Frammenti del risveglio (Oèdipus Edizioni 2021)





Per ascoltare la lettura delle due poesie cliccare sull'immagine. Voce: Bruno Di Pietro.


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Bruno di Pietro legge La breve estate, tratta dalla raccolta 

Ἐλέα. Quando verrà il passato, Les Flâneurs Edizioni, 2024


i grilli normalmente molesti parlano più che frinire nel pomeriggio di prima estate Parmenide convertito al divenire è in buona salute Zenone si è offeso la bouganville è in rigoglio il melograno in fiore ponente pettina il grano nella piana di Elea tutto è e sarà come è sempre stato (io invecchio)


 


Per ascoltare l'audio, cliccare sull'immagine (link Youtube del canale di Bruno Di Pietro)



Note biografiche

Bruno Di Pietro (1954) vive e lavora a Napoli esercitando la professione forense. Ha pubblicato fra le altre con Oèdipus Edizioni le raccolte poetiche: Colpa del mare (2002, poi in Colpa del mare e altri poemetti 2018) Impero (2017) Baie (2019) Frammenti del risveglio (2021).  Due volte finalista e una segnalazione speciale per Una vita in versi nelle ultime tre edizioni del Premio di Poesia e Prosa “Lorenzo Montano”. Suoi interventi di critica sono apparsi su Nazione IndianaFrequenze PoeticheInfiniti mondiLa Clessidra.  È presente nel “Dizionario Critico della poesia italiana (1945-2020)” a cura di Mario Fresa.  È presente in numerose antologie. Interventi sul suo lavoro poetico sono presenti in riviste cartacee e blog.  Fondatore con Gabriele Frasca e Mariano Baino della Casa Editrice “d’If” .

(Fonte: Les Flâneurs Edizioni. https://www.lesflaneursedizioni.it/product/elea/ )



domenica 10 agosto 2025

LUCIO E IL LAGO, di Lucio Macchia

 











LUCIO E IL LAGO, di Lucio Macchia 

(Appunti di letture filosofiche in vacanza: tra Ronchi, Spinoza e Deleuze).


Quando sono davanti al lago in modo "autentico" fuoriuscendo dall'esperienza ordinaria, io non guardo il lago come un soggetto di fronte a un oggetto, ma io sono il lago, in una esperienza immediata in cui al centro vi è un divenir-lago, un darsi immediato dell'Uno in questa esperienza che è generazione lì del nuovo, non ripetizione dell'idea, ma atto di velocità assoluta, ecco perché intuitivo, di generazione ontologica (processo ontogenetico) unica: pura esistenza, darsi "naturans" dell'Uno, del virtuale. La conoscenza del lago è intuizione intellettuale perché non coglie un oggetto ma lo conosce creandolo con la complicazione che non è il soggetto Lucio a intuire ma l'intuizione è atto spontaneo e immediato che è nelle cose stesse che sono "intelligenti" nel senso di porsi come eventi spontanei del virtuale che solo successivamente, in après-coup, generano Lucio e il lago; l'intuizione intellettuale non è propria di Lucio in quanto uomo ma di Lucio in quanto essere naturale: è di Lucio quanto del lago, entrambi pieghe della natura naturans sottesa.