Appunti di Maristella Diotaiuti (Le Cicale Operose) per la presentazione del volume 𝐼𝑚𝑝𝑟𝑜𝑛𝑡𝑒, 𝑓𝑟𝑎𝑚𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑒 𝑎𝑙𝑡𝑟𝑖 𝑠𝑒𝑔𝑛𝑖, di Nadia Chiaverini, Puntoacapo Editrice, 2025. Prefazione di Gabriella Musetti. Postfazione di Giacomo Cerrai. Immagine di copertina di Floriana Coppola.
Per la serie Sette incontri di poesia contemporanea, a cura de Le Cicale Operose, 2025.
È sicuramente una
raccolta preziosa e una lettura arricchente per il tema trattato, quello del
materno, del rapporto madre-figlia in tutte le sue declinazioni: di figlia, di
madre e poi di madre della propria madre, in un accudimento invertito.
È un tema che riguarda noi
donne, ma riguarda anche gli uomini perché possano comprendere la vera
natura del materno così a lungo e profondamente snaturato, così manipolato dal
patriarcato, che ha creato intorno a questo sentimento, ruolo, status,
condizione – non si sa nemmeno come chiamarlo tanto è sfuggente, scontornato –
una mistica che non corrisponde al vero. L'opera di Nadia invece problematizza questo tema, lo fa emergere in tutta la sua complessità,
conflittualità, ambivalenza, drammaticità.
Un tema, come si può
comprendere, coinvolgente e arduo, spinoso, ancora oggi irrisolto, che qui
Nadia affronta coraggiosamente, senza infingimenti, partendo da sé,
confessandosi, mettendosi anche a nudo, nelle sue fragilità, nelle sue
manchevolezze. Nadia si racconta nelle sue lacerazioni, paure, dolori che
toccano la vita di donna adulta e che si trascinano dall’infanzia,
dall’adolescenza. I suoi testi poetici si muovono tra confessioni,
interrogazioni, accuse, ritrosie, dichiarazioni, analisi spietate, indagini,
ricordi, dialoghi in assenza o in presenza, tra memorie di luoghi, di oggetti,
di incontri, nella ricerca di una verità capace di restituire completezza.
Abbiamo detto più volte,
soprattutto parlando di Beatrice Hastings, che la linea matrilineare è
stata accuratamente, scientemente, interrotta dal patriarcato, ed anche dalle
donne che nel corso della storia si sono ascritte all’ordine patriarcale,
introiettando i valori maschili. Ristabilendo una genealogia di donne si mette
in questione l’ordine patriarcale, quindi da questa prospettiva il libro di
Nadia è un libro femminista, ed anche un libro politico.
L’importanza del libro di
Nadia è anche nell’aver riportato l’attenzione sulla poesia e sulla sua
forza di scandaglio, di scavo, sulla sua capacità di esplorazione intima e
radicale degli affetti profondi, sulla sua capacità di tracciare i contorni di
una condizione così complessa e sfuggente come quella del materno, e
quando le emozioni sono troppo forti e intense, la tentazione è quella di dire
poche parole, e in certe circostanze le parole si rivelano povere, come dice la
stessa Nadia in esergo: conservo le matite bianche / che non scrivono
sui fogli / perché le parole a volte non servono, e altrove
scrive (pag.50) pericolosa la parola / meglio il silenzio. E
ancora: le parole franano dalle labbra (pag.33). Però poi
Nadia queste parole le scrive, ne fa un libro, c’è quindi questa bellissima
contraddizione, o preterizione o aporia (comunque la vogliate chiamare) che
rivela tutta la tensione tra Nadia poeta e la parola, tensione che qui si
evidenzia in tutta la sua drammaticità e lacerazione: ogni parola è un
graffio” (pag.14).
La parola, la poesia è
stata necessaria a Nadia per mettere ordine in un magma incandescente. Possiamo
dire che vuol essere la cura, per usare un termine utilizzato da Nadia in una
sua poesia: è il tempo della cura / [di] osservare … togliere …
liberare … provare a salvare. Sono proprio queste le azioni, le
operazioni che Nadia compie in questa raccolta, seguendo indizi, orme,
segnali: impronte … frammenti e altri segni, come recita il titolo,
elementi prima confusi per poi farsi più chiari e definiti. La poesia le
consente di ricomporre i pezzi di un essere frantumato,
scheggiato da questo amore materno, esercitato ma anche vissuto, che anziché
allietare, gratificare, rendere felici addolora e ferisce. Una
frantumazione, una disseminazione che ritroviamo specularmente riprodotta nel
testo con le varie sezioni della raccolta, che ne scandiscono i tempi e la
struttura. C’è una divisione strutturale, nel senso che le sezioni
permettono di collocare i testi e dar loro una scansione chiara, consentono di
mettere ordine nel caos delle parole che corrisponde al caos dei sentimenti. Ma
poi tutto si complica, si confonde, si mescola: argomenti, parole,
immagini di una sezione li ritroviamo in un’altra. Quindi c’è una fitta
tramatura, sembra essere un testo a più voci, un’azione a più voci potremmo
dire, in cui però i parlanti sono riconducibili ad un’unica persona.
Riguardo il linguaggio di
Nadia sono molto illuminanti e puntuali le riflessioni di Giacomo Cerrai, dal
quale riprendo la definizione di lingua familiare e domestica, non
nella sua accezione di lingua bassa e umile ma piuttosto di lessico familiare,
una lingua che definisce l’identità del gruppo familiare e i suoi legami, e
diventa anche un luogo della memoria, dove si stratificano eventi, fatti,
sentimenti. Una lingua che per la sua concisione e aderenza all’oggetto,
ai fatti, per la sua immediatezza, è sembrata a Nadia la più adatta a
sintetizzare - non a semplificare - la complessità, l’intrico dell’amore
materno. Una lingua, un linguaggio privato che però si fa universale, come
dice Giacomo Cerrai emblematico di uno status esistenziale, per
cui Nadia parla anche un po’ di noi e per noi. Ma oltre a questa
riflessione di Cerrai, che condivido, secondo me, è anche una lingua-corpo, una
parola-corpo, un corpo di donna che si fa narrazione, scrive la sua storia
attraverso l’esperienza del proprio corpo, in una una identificazione,
compenetrazione tra vita e poesia, tra corpo di donna e corpo-poesia. A pag. 20
Nadia scrive: il sentire parlante del corpo. Ma è una parola-corpo
spesso dolorante, fessurata, piagata, non a caso Nadia intitola una sezione,
significativamente la prima sezione, “macelleria d’amore”. Molte sono le
espressioni in questo senso: scavare il cuore con un pugnale, ferita
suppurata, sventrarsi, grumi di sangue, frammenti di ossa... parla
il corpo la ferita / a sangue scarnificata flagellata. Poi a pag. 23 in
un’altra poesia particolarmente intesa e significativa, vi è evidenziata questa
profonda connessione tra vissuto e corpo, dove il disamore della figlia, questo
doloroso vissuto che è interiore, psicologico ma che incide sulla carne,
provoca ferite vere e proprie, rughe, segni, piaghe sul viso di Nadia. Dove
c’è la parola fessura, parola ambivalente, rafforzata
semanticamente dalla sua doppia accezione di sostantivo e di verbo, e la stessa
collocazione a metà testo fa sì che la parola riproduca l’azione di una
lama che taglia, divide in due il corpo del testo poetico (la poesia è proprio
divisa in due momenti, due movimenti), e allo stesso modo divide in due il viso
di Nadia, in una perfetta coincidenza, simmetria tra scrittura, corpo ed
esperienza.
Insomma Nadia ci consegna un
libro spietato per certi aspetti ma che reclama carezza, dice
in un verso (pag.26), e spinge all’amore che è continuamente incalzato. Ed
è questo il messaggio più potente del libro, questo amore continuamente invocato
e continuamente esercitato fino all’estremo, fino alla situazione estrema di
desiderare la morte del padre per puro amore, perché t’amo, scrive
Nadia in una poesia potente e straziante.
Anna Salvo, psicanalista,
scrive che la madre costituisce una “pietra di inciampo” nella
vita delle figlie, non è facile per le figlie farsi spazio. A questo proposito
la poetessa irlandese Mary Dorsey scrive “tutte noi ci muoviamo nello
spazio lasciato libero dalle nostre madri”. Ma le madri sono anche
fondamenta amorose, pilastri indistruttibili dentro le nostre vite narrate.
Sarebbe quindi più opportuno recuperare queste figure materne. Negli anni del
femminismo storico si diceva di uccidere le proprie madri proprio per
ritagliarsi uno spazio individuale, per emanciparsi dal materno che si riteneva
distorto. Ma da più parti, ultimamente si propone un’altra strada:
quella di sostituire al conflitto, vitale ma faticoso, una possibilità di
pacificazione, di riconciliazione, quella che la stessa Anna Salvo
definisce l’indulgenza, comprendere che il nemico non
sono le madri, – nemmeno quelle che hanno passato alle figlie l’odio di sé e la
convinzione dell’inferiorità femminile, – ma va combattuta l’ideologia
patriarcale di cui esse sono state o sono vittime. Capire che l’altra
può non corrispondere a ciò riteniamo giusto, a ciò che vogliamo. E quindi
sarebbe meglio sostituire lo slogan ammazzare la madre con ammazzare
il padre, liberarci insieme, con la madre.
Tillie Olsen è stata la
prima tra le voci del femminismo contemporaneo a mettere in guardia le
femministe dal legare la propria emancipazione all’uccisione simbolica della
madre, un atto di imitazione della ribellione maschile contro l’autorità
paterna che però lascia le donne prive d’origine. Anche Luisa Muraro ha
ricordato che la negazione dell’autorità materna è funzionale alla società
patriarcale, percepire la propria indipendenza simbolica come inevitabilmente
fondata sul matricidio, sulla separazione della figlia dalla madre, significa
per le donne allinearsi all’ordine simbolico del padre. Mi sembra che
questa richiesta di indulgenza, di riconciliazione sia molto presente nel libro
di Nadia, anzi direi che è il filo rosso che percorre tutta la raccolta.
M.D.
