Il
dispositivo “opinione”, di Lucio Macchia
Toute fleur s’étalait plus large
Sans que nous en devisions
(S.
Mallarmé)
Che cosa ne pensi? È una delle domande più ricorrenti. Spesso mi verrebbe da rispondere: Io non “ne” penso, casomai penso, tento di pensare, senza sentirmi obbligato a convergere tirannicamente a una decisione tra due opzioni già predisposte, in quel campo binario di significanti (bianco/nero) che il “ne” indica. Parto da qui per riflettere sul fatto che l’opinione, il prender partito per una parte o l’altra in qualsiasi questione, sia il dispositivo di pensiero dominante nel senso comune e nella massmediologia dei social. Avere un’opinione su tutto: bianco o nero, sopra o sotto, questo o quello ecc. L’opinione, dalla sua funzione regolatrice originaria, a supporto della vita quotidiana e dell’organizzazione politica delle decisioni, si è trasformata in una cogitazione pervasiva, presente a ogni livello, con il suo inevitabile strascico di banalizzazione e violenza. Essa è divenuta dispositivo, in quanto tacitamente imposta da una cultura mainstream che taccia di ignavia chi non si schiera, un dispositivo regolatore delle pulsioni individuali, un meccanismo di potere che irretisce il pensiero nella logica dicotomica, nel dualismo perentorio. Al di là delle funzioni pragmatiche dell’opinione, non si può dimenticare che il Pensiero, quello con la “P” maiuscola, quello radicato nel vivere, è differente per natura dall’opinione stessa, non si muove in un campo dicotomico ma in un campo unario, in cui le differenze di approccio, le ricchezze di elaborazioni, le posizioni individuali, non si strutturano semplicemente per contrapposizione di opposti. Coloro che pensano davvero, per esempio i filosofi e gli artisti, sanno che non vi è una verità cristallizzata in forma di opinione, che la molteplicità è partecipe di una unità di ricerca, che la verità è sempre oltre il detto di ognuno e, al contempo al suo interno. Che la vita è contraddittoria e non risolvibile in una “posizione”. Derrida ci insegna che aderiamo alla verità con un “colpo di dadi”: «Il colpo di dadi, la decisione senza motivo, avviene perché non si è perfettamente coscienti che la verità è nello "spazio vuoto" che è in mezzo a "indecidibili" opposti. E' così o cosà? Dentro o fuori? Prima o dopo? La risposta è "né l'uno né l'altro", ma lo spazio che è tra l'uno e l'altro, la "sbarra" che divide l'opposizione (quando scrivo dentro/fuori metto tra la parola "dentro" e la parola "fuori" una "sbarra" trasversale: la risposta è in "quella sbarra"), l'interlinea, l'indecidibile , il qualcosa che non sopporta la decisione»[i]. L’attrazione da parte di uno dei versanti della struttura dicotomica, che ci viene predisposta dai dispositivi di informazione, è una seduzione che agisce in base alle nostre passioni/desideri, piegando la ragione in funzione di essi. Come ha spiegato Freud parlando degli uomini: «I ragionamenti non possono nulla contro le loro passioni»[ii]. E, ricordando Pascal, possiamo aggiungere che i ragionamenti stessi, sono pieghevoli a piacimento: «La ragione si piega in ogni senso»[iii]. Quindi, dietro l’apparenza di una “scelta argomentata” (che chiunque aderisca a una opinione ritiene di aver fatto) vi è piuttosto l’incasellamento, guidato da meccanismi soggettivi, in un dispositivo precostituito. Non si sta qui questionando il livello di razionalità delle scelte o gli aspetti metodologici ad esse connessi, ma si rileva come l’aderire a una opinione si basi sull’appiattimento su uno schema già dato che blocca sul nascere la profondità e complessità del pensare, sacrificati all’urgenza/tirannia della “scelta passionale” che consenta l’illusoria pace di una “verità”. In modo radicalmente diverso, il filosofo pensa. Il poeta pensa. Il pensiero ha il coraggio di convivere con l’indecidibile, sa approfondirlo, sa “farne qualcosa”. Vi è qui, allora, una differenza fondamentale con l’opinare. È importante ricordarlo, anche e soprattutto da parte degli intellettuali che spesso esprimono opinioni (ed è anche umano che lo facciamo) ma che non devono perdere consapevolezza di questa differenza. Altrimenti ricadono nel senso comune, dimenticando che la verità è quella barra di separazione tra il bianco e il nero, che non si lascia dire, che sfugge. Che, come ci ha insegnato Lacan, «La verità è quel che resiste al sapere»[iv]. Che ogni fiore s’apriva più ampio, senza che noi “ne” parlassimo.
Immagine: Magritte