giovedì 27 febbraio 2025

Il "The Old New Age" di Beatrice Hastings

 











Il "The Old New Age" di Beatrice Hastings

Alla prima presentazione livornese di alcuni giorni orsono del volume La commedia delle fanciulle, di Beatrice Hastings, ci è stato chiesto da dove provenisse la frase di Hastings messa in esergo al libro, "I solemny declare I shall be republished in volume form"

La frase è stata estratta dal fascicolo The Old New Age (1936), di Beatrice Hastings, stampato dal suo amico libraio e editore anarchico Charles Lahr (Blue Moon Press, Londra).

The Old New Age è, in buona sostanza, il tentativo di Hastings di conservare memoria della sua vasta produzione letteraria nel The New Age, in cui scrisse dal 1907 al 1920. Charles Lahr aiuta Beatrice a raccogliere i "vecchi" volumi del The New Age per lo scopo.

Hastings qui si dimostra altresì rammaricata, forse pentita, di aver speso tutte le sue energie per il giornale, firmando i suoi articoli con più di 14 nomi di penna, rischiando così di disperdere il suo lavoro.

Al dispiacere segue la promessa espressa nella frase da noi utilizzata per l'esergo.

Ma Hastings non riuscirà mai a pubblicare "in forma di volume". Successivamente all'impegno nel The New Age si dedicherà, invece, in qualità di editrice e contributrice, alle sue riviste letterarie, The Straight Thinker e Democrat, fino ai suoi ultimi mesi di vita.

Il The Old New Age contiene anche alcune note in cui Beatrice utilizza toni duri e aspri nei confronti di alcuni contributori del The New Age e del suo editore A. R. Orage, da lei accusato di aver cambiato opinione e posizione politica nel tempo, allontanandosi dalle idee socialiste e anticapitaliste, mentre Hastings sostiene di essere rimasta la stessa di sempre, infatti nel The Old New Age scrive:“Chiunque è cambiato da quegli anni. Io no. Sono ancora l’autrice di Woman’s Worst Enemy: Woman e di The Maids' Comedy [...] Io sono la stessa donna battagliera, anti-filistina che ero un tempo.”

Nel medesimo anno in cui Hastings pubblica The Old New Age, Philip Mairet pubblica A.R. Orage : a memoir. Charles Lahr in una lettera dà notizia di questa pubblicazione ad Hastings, annunciandole che Mairet le riserva parole riguardose. Mairet, nel libro scrive: "Era diretta e tagliente. (Orage) La considerò un dono, una contributrice di speciale importanza, tenne il suo posto per anni con grande forza di carattere e volume di produzione. La sua influenza in ambito letterario nel giornale fu determinante”.

Queste parole rinfrancano Beatrice negli anni in cui comincia a riflettere sul suo percorso professionale e a ricordare con nostalgia i suoi anni giovanili.

Federico Tortora




 


mercoledì 26 febbraio 2025

Beatrice Hastings e Amedeo Modigliani in rue Norvins (Parigi)












Beatrice Hastings e Amedeo Modigliani in rue Norvins.  

Quando pubblicammo la prima antologia di opere inedite di Beatrice Hastings (gennaio 2020), spiegammo che Hastings fu da noi rintracciata grazie alla storia d'amore che ebbe con l'artista livornese Amedeo Modigliani, dal 1914 al 1916.

Due anni importanti per Modigliani, che visse per un periodo con Hastings a Parigi - in qualità di corrispondente per il The New Age - nel cottage in rue Norvins preso da lei in affitto. Fu un periodo prolifico per l'artista livornese, che segnò il passaggio dalla scultura alla pittura; a Montmatre Modigliani beneficiò di un'aria più salubre che migliorò le sue cagionevoli condizioni di salute.

Inoltre, avendo potuto leggere parte della mole di scritti da lei prodotti, ci siamo resi conto di quanto Modigliani abbia potuto raccogliere nel corso della relazione amorosa con Hastings, intellettuale di primo piano, portatrice di un mondo culturalmente diverso dal suo - la Letteratura inglese in primis - ma proprio per questo fu per l'artista grande opportunità di intensa crescita intellettuale e culturale.

Ci sembrò quindi doveroso inserire un accenno alla loro storia d'amore nel nostro libro "Beatrice Hastings in full revolt" (2020).

Nel paragrafo a loro dedicato Maristella Diotaiuti scrive: "Beatrice e Amedeo, nonostante la fame di vita, non erano fatti per la vita. Ma ad una specialissima vita apparterranno per sempre: quella dell’arte, dell’arte che nutre e che consuma, che rende luminosi e tenebrosi, dell’arte che ti scortica ma che può coprirti come un abito fino a far coincidere pelle e colori, creazione e vita. E se a farlo è Modigliani per la donna che ama diventa arte dentro l’arte.".

C'è chi afferma, erroneamente, che Beatrice Hastings e Amedeo Modigliani non abbiano mai convissuto. 

Nel libro “Beatrice Hastings in full revolt”, Le Cicale Operose, 2020, nei miei cenni biografici rimando a una lettera chiarificatrice del 6 aprile 1932 indirizzata al critico d’arte italiano Giovanni Scheiwiller, nella quale Guillaume Apollinaire scrive: “Nel 1914, 1915 e parte del 1916, sono stato il solo acquirente delle opere di Modigliani e solo nel 1917 M Zborowski cominciò a fare affari con lui. Fui introdotto a Modigliani da Max Jacob. In quel periodo viveva con Beatrice Hastings, lavorando nella di lei prima abitazione e poi nello studio che gli procurai al 13 de rue Ravignan, poi nella piccola casa in Montmatre dove visse un periodo con Beatrice Hastings e dove fece il mio ritratto…” (Fonte: “Modigliani vivo”, E. Maiolino pp. 39-40).

Indirettamente Guillaume testimonia il regime di convivenza tra Amedeo Modigliani e Beatrice Hastings.

La cancellazione di un'identità passa anche attraverso sfumature come questa. Sembra un dettaglio di poco conto, ma non lo è.


Il cottage in rue Norvins

All’inizio del 1915, Beatrice trova un grazioso cottage di quattro camere con giardino in Montmartre, rue Norvins, 13, sul lato opposto alla storica casa per malattie mentali “La folie Sandrin”. L’aria più salubre, rispetto a Montparnasse, aiuta Modigliani a recuperare energie. Il cottage, non più esistente, gode di ottima posizione ed è dotato di un vialetto privato percorribile in auto per uscire in rue Lepic.

Nel suo diario “Madame Six” Beatrice scrive, ricordando: “Quant’ero felice, in quella casettina sulla Butte! I giorni si succedevano come raggi di sole estivo, intensamente, perdendosi nel nulla. Ero attratta da quel sorridente labirinto di luci, colori, piccole gioie e faccende quotidiane”.


Federico Tortora


In foto: dipinto “Rue Norvins-Montmatre” di Maurice Utrillo, del 1916, anno in cui Hastings abitò nel cottage.


 

lunedì 24 febbraio 2025

Marilyn, di Pier Paolo Paolini. Lettura di Aldo Galeazzi.


 










Aldo Galeazzi, poeta, attore, legge la poesia "Marilyn", di Pier Paolo Pasolini, composta dopo la morte dell'attrice, presente nel film La rabbia - I parte (la II parte del film è di Giovannino Guareschi), scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini nel1963.


Per ascoltare la lettura cliccare sull'immagine. Commento musicale: Adagio in Sol minore, di Tomaso Albinoni.

Buon ascolto. 







sabato 22 febbraio 2025

Pasquale Lenge invita Giovanni Laera, poeta dialettale pugliese (nocese).


 










Pasquale Lenge (poeta Lucano, curatore della rubrica Torrenti):

Quarcarunë recë

nù mena, sëccata

a quarcarunatë venë

lu trëmulizzë, la mbosta!


Ciuccië pè jastmà

mulë pé fatëá

cavaddë pè camnà


pè passà la jumara

amici sincirë e carë

quà lu screvë

qui l'ho detto

invito faccio al poeta

Giovanni Laera


Si tratta di un invito ad attraversare il torrente; qualcuno afferma che è secco, altri, paurosi (trëmulizzë), che è in piena. Ognuno con i suoi mezzi simbolici: asini per bestemmiare, muli per lavorare, cavalli per viaggiare. Per guadare il torrente, amici sinceri e cari, poeti.

Sempre Vostro, Pasquale Lenge.


Aldo Galeazzi (curatore della rubrica Voci, nel blog): "Il pigolio d'un uccellino triste ma capace di mettere in fila le anime degli uomini e scuoterle fino al centro della terra, la Puglia, in questo caso. Bellissime poesie."


Le Cicale Operose ha avuto il piacere di ospitare Giovanni Laera in occasione del Festival di poesia VOCI, II Edizione, dedicato alla poesia dialettale, invitando poeti di varie regioni d'Italia.



Giovanni Laera: letture di due poesie in dialetto nocese (video con sottotitoli in italiano).                

Per vedere il video, cliccare sull'immagine. Ringraziamo l'Autore e Bologna in Lettere per aver autorizzato la pubblicazione del video: Giovanni Laera, Bologna in Lettere 10th, a cura di Anna Maria Curci, Francesca Del Moro.


Testi tratti da Maritmie,di Giovanni Laera, Marco Saya Editore, 2023.



Latuérne de figghie

 

Sciste o’ terze piène e accome u passaridde

assiste d’inde ’a gagge, ma na’ ttenive i sscidde

                                                  ENANTINO

  

Assì da jinde ’a gagge, attandì u cile.

 

Póvera mamma mè, passaredduzze

mi, póvera fucètele ind’e’ mene

mminz’e’ strede d’i Nusce ch’i pertune

achiuse, póvera tragnola majje

ca assì da jinde u chèpevìnde gnure

attandì u cile senza lune e ssci

a ’rracamè ’a tevuagghie d’i nùvele

pezzeluénne meddìchele de stedde;

spòndene i sscidde, te dólene i rine,

mamme, tu ca fresive i pezzellete

ch’i fiure cchiù amerose, rosa majje,

frangidde dolce, frangedduzze mi,

mu sone u cambanidde all’arve stranie

e mbere e’ spinze sfiatete, e’ verdune,

a ’ttandè u cile, a ’ssì d’o’ terze piène,

póvera rerenedda mè ca rire

e na’ ssepe ca torne ’a premavere.

 


 

Serure

 

Arve de rise, sanghe tremendute

scettete mminz’e’ strede d’a verneta

cannarute, tu murtecedde a ssole

e a sserene, ma ahi accome stè cchiù nere

d’u gnure cchiù gnure, cchiù anute

d’u nute cchiù nute, e ’a mutegne

i chelure me stute ch’ere a ddisce:

 

oh sore, sera azzurre, sora majje

tu me gàvete nguérpe e ji te vogghie

scerrè come se scerre aprile u scile

quann’ere acquagghie, chiène de fracidde

lusce ca scenne mbitte e vè e’ partite.




Note biografiche

Giovanni Laera (12 novembre 1980), originario di Noci, vive e lavora a Bari. Dottore di ricerca in Linguistica italiana, è autore di diversi libri e articoli su lessico, onomastica e folklore nei dialetti apulo-baresi. Ha pubblicato due volumi di poesia: Fiore che ssembe (Pietre Vive, 2019) e Maritmie (Marco Saya, 2023). Tra le antologie in cui è incluso si segnalano I cieli della preistoria. Antologia della nuovissima poesia pugliese (Marco Saya, 2022) e Poesia dialettale oggi. Voci dalla Puglia (Carabba, 2024). Del 2024 è la plaquette Idillio & abbelle abbelle sparì, scritta con Riccardo Benzina. È caporedattore di «Avamposto – rivista di poesia».



venerdì 21 febbraio 2025

Trappole della scrittura poetica, di Lucio Macchia.

 
Immagine: Opere di Rothko e Giotto in una foto combinata tratta dal sito khi.fi.it (Kunsthistorisches Institut in Florenz)



Trappole della scrittura poetica, di Lucio Macchia.

I tre famosi registri lacaniani, del simbolico, immaginario e reale, offrono – in una interpretazione molto libera – lo spunto per una rapida riflessione sulle trappole della scrittura poetica.

Certamente il poetico è inscritto eminentemente nel simbolico, perché attiene al linguaggio, al gesto del dire, col suo connotato rappresentativo e intersoggettivo. Ma l’ambizione del poetico è di oltrepassare il simbolico dall’interno del simbolico stesso, bucarlo e giungere al reale, alla “vita in sé” a ciò che è oltre la rappresentazione ma a cui si tenta, con l’azione poetica, di alludere (non alla realtà ma al reale: la realtà è già rappresentazione, è già finzione). Ecco allora che una prima trappola della scrittura poetica è quella di rimanere invischiata nel simbolico, tra le maglie delle rappresentazioni poste come sostitute al reale, a distanza dal reale. Emerge allora una scrittura didascalica, che non è altro che concetto articolato in modo linguisticamente sofisticato. Una scrittura “rendibile in prosa”, che non presenta quel nucleo di irriducibilità assoluta che caratterizza la lirica ustionata dal contatto con il reale della vita. Una poesia pervasa dal logos, dalla dialettica, persino dall’opinione. Non che logos non ci debba essere, nella forma del dominio formale (pensiamo agli insegnamenti di Eliot e Valéry) ma deve essere, come dice Zambrano, un “logos poetico” capace di calarsi e confondersi con la vita. A volte – poi – il simbolico può essere ipnotizzante: scrutare talmente nel segno da perdersi nel segno, da cedere alla sua metonimica proliferazione. Una temperie sperimentalistica e di rottura avanguardistica che, a partire dall’ultimo Mallarmé, attraversa il campo poetico e gioca un ruolo importante, ma che si espone anche, inevitabilmente, al rischio della flessione intellettualistica del gesto artistico, e in definitiva alla sua sterilità.

La dimensione dell’immaginario, quella del narcisismo, dell’auto-rappresentazione, è anch’essa connaturata all’agire artistico, che è inevitabilmente radicato nella riflessione su se stessi. Però, anche qui, vi è il rischio di invischiarsi in questo registro andando verso una scrittura che viene lasciata sgorgare. La tentazione del “lasciar sgorgare” è onnipresente nella scrittura artistica, e nella poesia si presenta di continuo. Il rischio è l’eccesso di vibrazioni sentimentali, il domino della precaria ontologia delle emozioni ordinarie, distese sul foglio con un insufficiente controllo formale del tessuto testuale. Ne possono derivare una scrittura sentimentalistica, che illude di essere presso la vita ma spesso ne è un simulacro, una finzione scenica. Oppure uno stile appannato, affastellamento di stati d’animo intradotti che si avvertono essenziali nel proprio io al momento della scrittura, ma che rischiano di generare partiture che sono vere e proprie insalate di parole. Tutt’altro è l’emozione poetica, la “sensazione di universo” di cui parla Valéry.

Al di là di tutte queste trappole, giace – incerta, fragile – la possibilità di una scrittura autentica che però – questo il prezzo da pagare – proprio per non aver ceduto sul reale, sarà inevitabilmente inscritta in una dimensione di impossibile. Minacciata a ogni passo, come la vita stessa, dall’abisso della perdita. Dalla brutalità dell’insensato.



Aldo Galeazzi, curatore della rubrica Voci, nel blog: 

"Caro Lucio sono totalmente d'accordo con la tua riflessione. Mi piace molto 
la sottolineatura dello scarto tra realtà e reale e anche l'atto di bucare 
il simbolico o di non vomitarsi addosso il proprio immaginario ego 
riferito. Grazie per la chiarezza e per i riferimenti che mi dai."





giovedì 20 febbraio 2025

“Giocare” la musica, di Enzo Nini, per la rubrica Semiosfera in Interplay.

 










I bambini mi hanno insegnato…

I bambini mi hanno insegnato il miglior modo di rapportarmi agli adulti quando insegno musica, o quando la eseguo. Mi hanno insegnato quanto sia importante allontanarsi dalle sovrastrutture che abbiamo noi grandi: ad esempio quella di identificare un genere musicale, quella di ascoltare con interesse senza pensare che “capisco o non capisco nulla di quel genere“. Soprattutto il gusto della scoperta e della esplorazione semiotica in relazione alle emozioni. Da adulto abbastanza… “avviato” ormai ne ho approfondito i processi, ma senza perderne mai il gusto e il piacere ludico, come i bambini che naturalmente agiscono in “interplay” con i fenomeni espressivi percepiti e prodotti. Dai bambini ho capito che essere “musicista” significa avere un gusto per il suono perché può evocare stati affettivi o avere un valore simbolico per la nostra società o far nascere immagini. Che bisogna essere sensibili ad essa con “percezione emotiva” senza la quale essa non vi dice nulla. Nel relazionarmi ai bambini ho capito l’importanza dell’organizzazione: fare musica vuol dire sotto molti punti di vista, organizzare; una attitudine che forma il nostro approccio alla vita. Non è, d’altra parte, casuale che i bambini istintivamente, come i compositori di musica di ricerca esplorativamente, siano quelli che udendo un rumore, un suono o una voce non identificata da lontano pensino “che strano: di cosa si tratta?” invece di spaventarsi alla novità dicendo: “Gesù, che cosa é successo?”. Ne "La musica è un gioco da bambini" François Delalande espone in modo scientificamente esaustivo quanto concerne le “condotte musicali” dei nostri primi anni, sviluppando il concetto di “condotta” di Pierre Janet. Processo che noi adulti tendiamo a dimenticare nel cercare sicurezze e definizioni. E per questa ragione, in occasione di un invito della direttrice di Napoli dott.ssa Laura Rinaldi, stesi l’articolo che riproduco a seguire, che poi fu pubblicato per i “conversari di ACHAB” in un numero monografico sulla musica sul numero di maggio del 2021, in cui osservo il “giocare” dei bambini e il mio nell’apprendere una passione.



“Giocare” la musica.

 La felice opportunità che mi è stata data attraverso questo scritto è conseguenza delle frequenti chiacchierate e dalla serrata “attività sul campo” avvenuti tra me e la dottoressa Laura Rinaldi durante i corsi di formazione Montessori, e la frequentazione degli stessi bambini all’interno del progetto Sequoia di Napoli ideato dalla dottoressa Lisa Ray. Per cui il tono del presente articolo risentirà del carattere dialogico da cui sono derivate alcune considerazioni, ma si svilupperà nel senso formale di uno scritto come pensiero “in progress” presente nell’attività a tutt’oggi in corso. Molte considerazioni si sono sviluppate in una sorta di “doppio gioco” (la parola gioco è fondamentale e vedremo perché) tra “condotte infantili” attuali, quelle osservate nel seguire i bambini a scuola e nel veder crescere i miei 3 nipotini, e quelle che riaffiorano dalla memoria di me bambino alla ricerca delle esperienze che abbiano condizionato la mia scelta di appassionato. Mentre scrivo nel mio rifugio, il mio studio tranquillo, mi fermo ad ascoltare: il rombo lontano di un aereo sta atterrando verso l’aeroporto, nell’altra stanza una voce che salmodia in una lingua orientale, di sottofondo rumori di traffico, degli uccelli nel parco vicino, il vocio eccitato degli studenti fuori la scuola. Un mondo invisibile mi circonda con il suo aspetto acustico, faccio un piccolo sforzo per distinguerli, ma quello che sento è in realtà un flusso continuo di suoni e rumori. Sembra un insieme di suoni caotici al quale siamo assuefatti, in realtà è sintomo di vite in corso. Così è la musica: spesso è intorno a noi attraverso la pubblicità televisiva e l’assorbiamo passivi, altre volte l’ascoltiamo rapiti in un concerto o la scegliamo quando mettiamo un disco. La musica e la realtà sonora in genere, quando le ascoltiamo con attenzione, si presentano come dei flussi di suoni complessi dai quali identifichiamo uno degli sviluppi interni. Ma quando e come è cominciato tutto questo? “Ora si potrebbe chiedere: quali saranno le preoccupazioni del bambino piccolo che lo inducono a scegliere fra le immagini infinite e mescolati insieme, che egli incontra nell’ambiente? Il bambino parte proprio dal nulla ed è l’essere attivo che avanza solo. E per entrare in argomento: il fulcro attorno al quale agisce interiormente il periodo sensitivo è la ragione. Il ragionamento come funzione naturale creativa a poco a poco germina come cosa viva che cresce e si concreta a spese delle immagini che assume dall’ambiente”.                                               (M. Montessori “Il segreto dell’Infanzia”) 

L'aspetto relegato alle immagini dell'ambiente descritto in questa citazione è analogo a quello che riguarda anche l'ambiente sonoro. Esso ci pone di fronte alle responsabilità che abbiamo a tutt'oggi rispetto a tutti i bambini: quante tirate di orecchi ai nostri contemporanei darebbe la dottoressa Montessori invitandoli a spegnere qualche apparecchio mediatico di troppo? Ma la prima esperienza uditiva appena nati, parte anch'esso dal nulla? Nasciamo, in altri termini, davvero dal nulla assoluto? La percezione sonora non inizia con la nascita. Sappiamo infatti che prima di nascere il bambino riceve dei chiari segnali sonori, quelli che con il processo educativo definiremo musicali. Infatti il battito cardiaco, la pressione costante del diaframma materno e le contrazioni addominali sono il poliritmo prenatale e, ovviamente, vitale attraverso il quale tutti noi acquisimmo già un senso di “pathos” musicale come il senso di un crescendo, di un ritmo serrato, di più ritmi non sincroni. Un esempio lampante è quello della mamma in cinta che ha dimenticato acceso il fornello della cucina, ella correrà a chiuderlo mettendo in moto una sezione “poliritmica” piuttosto incisiva sul corpo del piccolo. Voglio dire che l'idea di sonorità ritmica “in crescendo” che noi cerchiamo di descrivere attraverso il nostro linguaggio era già presente quando nascemmo. Una percezione del ritmo legato anche alle prime melodie esterne che la voce della madre produce più o meno intenzionalmente. Un “incipit” alla prima musica natale che rassicurerà il piccolo che verrà affidato al petto e all'ugola materna. Forse la scienza ci darà ulteriori conferme, al momento è delegato al sogno e alla fantasia il mio desiderio di poter sapere come apparve “l’ambiente sonoro” quando, appena nato, dagli impulsi ritmici del corpo di mia madre e dai suoni ovattati nel comodo ambiente chiuso del suo grembo, venni tirati fuori per entrare nel “Nuovo Mondo” ora costituito da una mamma che suona col cuore e canta dolcemente, ascoltando ad occhi chiusi. Ma presto comincerà l'inaudito e gli occhi si spalancheranno per la sorpresa. Quando lo studioso Stephen Greenblatt descrisse in “Meraviglia e Possesso” l’atteggiamento di Colombo e soci all’arrivo delle presupposte Indie, descrisse l’incanto, il timore e, appunto, la Meraviglia del trovarsi nel “Nuovo Mondo” in un ambiente a loro sconosciuto, un momento in cui, dice, vengono temporaneamente abbattute le categorie morali invase dalla meraviglia. Così immagino i loro occhi spalancati e immagino che non dovevano essere del tutto diversi a quelli dei bambini quando sono stupiti. Quella espressione che riempie il cuore, durante le lezioni musicali, avviene quando ascoltano qualcosa di inaudito e hanno quegli occhi. Vero è che oggi la musica viene soprattutto “guardata” per l’onnipresente associazione agli inevitabili video di ogni produzione musicale, ma “ascoltare soltanto” la musica è una specificità sensoriale che avviene solo per scelta proprio perché appena nati il mondo e l’ambiente è un tutt’uno, poi, con il processo educativo, si impara a separarli; ma il Nuovo Mondo uditivo esisteva già prima di nascere. Una volta nati i bambini, quindi, sono capaci di separare uno o più suoni da quello che l’ambiente gli presenta: riconoscono la voce materna tra quelle dei parenti che lo osservano e commentano compiaciuti il suo sorriso, si rassicurano quando sentono il cuore della mamma che lo culla. L'elemento sonoro, quindi, rappresenta un forte elemento culturale legato alla vita presente e futura del bambino, infatti la psicoanalista Suzanne Maiello nell' articolo “Dialoghi ante litteram. Note sugli elementi ritmici e sonori del linguaggio e della comunicazione verbale” del 2011 che “le mitologie di molte culture fanno nascere il mondo da una fonte sonora, da un tuono, una voce, un grido, un canto, o più “scientificamente” dal big bang. Per “risuonare“, il suono ha bisogno di un corpo di risonanza. Bisogna essere in due, fin dall’inizio. Quando è l’inizio? Nella tradizione di un popolo africano, una donna che scopre di essere in attesa di un bambino esce dal villaggio, sola, raggiunge un certo Albero, si siede al fine di rimanere lì fino a quando non sente dentro di sé una melodia. Allora ritorna al villaggio cantando quella che sarà la melodia del bambino. Prima ancora di avere un nome, egli avrà un canto. La melodia viene cantata dalla madre fino dalla nascita. Durante il pasto, cantata dalla comunità delle donne, essa accoglie il bambino. La melodia accompagnerà per tutta la vita nei momenti più significativi della sua esistenza da rituale di iniziazione al matrimonio fino alla cerimonia funebre”. Lo stesso Freud, che con la musica non ebbe un rapporto così profondo, afferma che “nell’involontario linguaggio corporeo, del quale fanno parte anche le fluttuazioni del tono della voce si esprimono gli affetti ed è lì che si possono celare segreti non espliciti verbalmente”. La melodia materna diviene così il primo capolavoro musicale! Ai tanti genitori che mi chiedono quale sia un modo di ben avviare al mondo della musica il proprio piccolo chiedo quale musica piace loro quando l'ascoltano veramente. La trasmissione di un ambiente sonoro parte da lì: dalla condivisione di un ascolto. La voce della mamma, ma anche l’emozione condivisa in un ascolto comune, rappresenta una ottima “colonna sonora” di un processo di affettività. Attraverso gli studi di Edwin Gordon è noto che i genitori che cantano in casa, godendo del piacere di farlo, costituiscono un ambiente naturale nel quale il bambino apprende il piacere di emettere suoni con la voce non solo per le parole. Non ancora maturo il senso del linguaggio, per il bambino anche il semplice parlato, la filastrocca e la voce dei genitori rappresenta i suoni dell’affetto, come un latte materno delle emozioni. È come raccontarle, le emozioni, senza capire ancora le parole. E, come il linguaggio della parola, quello cantato si sviluppa nel pensiero attraverso l'assunzione del suono che non avviene solo con l’ascolto attento, ma anche attraverso quello che per gli adulti è considerato ascolto passivo. Per il piccolo esso sarà, comunque, quella “colonna sonora” che arriverà con l’emozione ad essa appartenente. Non importa essere virtuosi del canto, è importante godere e provare piacere nel farlo. Il bambino non recensirà l’esecuzione, ne assorbirà il l’ “ethos” affettivo. 

Accade che circa un anno e mezzo fa venni intervistato e videoripreso a bruciapelo per una tesi di sociologia dell'Università di Napoli tra vari artisti napoletani. Si cercava la spontaneità emotiva nella replica; la domanda, quindi, richiedeva una risposta pressoché immediata riguardo al momento che ricordavo, più lontano nel tempo, in cui la musica in qualche modo interveniva nella mia affettività. Alcuni processi mentali sono davvero sorprendenti perché fu praticamente istantanea la mia realizzazione che il momento richiestomi si stava concretizzando nella memoria di me da piccolo, sulle spalle di mio padre che inventava parole su motivi e melodie altrettanto improvvisate con le quali mi intratteneva durante il percorso. Avevo, all'epoca, più o meno due o tre anni. Tre anni dopo entrò in casa il Jazz; e per Jazz mio padre intendeva quell'agglomerato, così mi apparve da vicino, di piatti tamburi detto batteria che mi regalò con una chitarra. Fu così che, nell'arco di pochi anni, l'improvvisazione e la parola “Jazz” entrarono nella mia vita. Jazz, la stessa definizione che Maria Montessori ne “Il segreto dell'Infanzia” usa nella “costruzione dell'orecchio che è un meraviglioso insieme di corde e membrane vibranti che costituisce una jazz band nel quale non manca nemmeno il tamburo”. Il ricordo con mio padre in occasione dell'intervista e la mia risposta alla richiesta dei suddetti genitori mi riportano a un concetto piuttosto articolato che è elemento essenziale dell'approccio musicale jazzistico, è il cosiddetto “interplay” che è un processo creativo che va oltre l'affiatamento richiesto a un organico di musicisti. Esso richiede produzione musicale e ascolto di quello degli altri mentre si suona; è un po' come se si parlasse contemporaneamente ad altre persone percependo quello che gli altri dicono. È la quintessenza della comunicazione sonora. “Per risuonare, il suono ha bisogno di un corpo di risonanza. Bisogna essere in due, fin dall’inizio” diceva la dottoressa Maiello è per questo che se i genitori cantano o “ascoltano”, non distrattamente, la musica stabiliscono uno scambio comunicativo che, nello sviluppo del piccolo, ha la caratteristica principale della reciprocità. Infatti appena nato, quanto percepisce il bambino non è semplicemente il comportamento della mamma, ma la sua reciprocità rispetto al proprio. Da subito il bambino si impegna in una relazione: un interplay naturale. I “meccanismi” di questa reciprocità iniziano molto presto nella fase definita nella “condotta del movimento”. Essendo un meccanismo per lo più fisico ha un suo ritmo; in altri termini subito dopo la nascita i bambini si impegnano in interazioni “ritmiche” con chi si occupa di loro...danzando per la prima volta. Allora non solo ci fu il “jazz”, la batteria, ma anche una chitarra: furono i rumorosi strumenti di meraviglia con i quali con mio fratello cominciammo ad allietare “l’ambiente sonoro” di casa, e siccome io ero il grande “spiegavo” a lui cosa dovesse fare con quei tamburi mentre io zappavo sulle corde (mi restituì molti anni dopo con l’interesse quelle lezioni avendo lui avuto un approccio più sereno e meno tortuoso del mio nello studio per il conservatorio) ho un lontano ricordo di quell'epoca e di un forte coinvolgimento, e per noi era fortemente gratificante perché ci sentivamo un po' musicisti. Per questo quando insegno ai bambini mi sento coinvolto come musicista e non solo insegnate, dove ogni suono, condiviso o “armonizzato” ha la sua importanza che, se rispettata nel suo valore di “gioco” acquista importanza per me come per loro, e diventa musica. Così risulta oltremodo comprensibile la felicissima affermazione di Maria Montessori ne “La mente del bambino-mente assorbente”: «Il periodo infantile è un periodo di creazione; nulla esiste all'inizio ed ecco che circa un anno dopo la nascita il bambino conosce ogni cosa. […] Nel caso dell'essere umano non si tratta dunque di sviluppo, ma di creazione, la quale parte da zero. Il meraviglioso passo compiuto dal bambino è quello che lo conduce dal nulla a qualche cosa, ed è difficile per la nostra mente afferrare questa “Meraviglia”».

E come si comporterà rispetto al non udito prima; come vivrà la sua meraviglia, la sua scoperta rispetto all’ “inaudito”: come sarà la sua scoperta del “Nuovo Mondo”? 

L'inaudito spaventa l'adulto, ma affascina il bambino e gli “artisti”. Noi adulti ci allarmiamo se non sappiamo associare quello che udiamo ripetutamente ad un fenomeno conosciuto; o quantomeno ci risulta “molto meno” gradita quella musica che ascoltiamo se non collocata nell’ambito del “già noto”. Lo sappiamo perché “raramente” si decide di andare a sentire un concerto di musica “contemporanea” o di musica “concreta” o di “ricerca” e pochi sono quegli amanti del jazz che ascoltano con interesse musica prodotta sui principi di “Free Jazz” di Ornette Coleman. Viviamo, quindi, un’epoca in cui cerchiamo rassicurazione e l’inatteso ci spaventa quindi lo rifiutiamo, per cui spesso un genitore fa una scelta “musicale” a lui gradita spesso “educata” da quanto in musica “assorbiamo culturalmente” e inconsapevolmente attraverso la televisione, il computer, i cellulari, la onnipresente pubblicità, le colonne sonore, le sale d’attesa del dentista, gli ascensori dei grandi alberghi. Viviamo una civiltà piena di musica, ma la assorbiamo come un oggetto dell’arredamento, come l’aria inquinata delle nostre città; eppure poco più di cento anni fa per ascoltare musica eravamo costretti ad uscire di casa, si viveva un mondo più silenzioso o, potremmo dire “diversamente sonoro” nel quale ascoltare musica comportava una scelta e una azione attiva nel raggiungere una sala da concerto o la piazza dove suonava una banda festosa. Un mondo nel quale chi suonava lo faceva con uno strumento, non a caso, definito acustico. Un mondo che sembra lontano, che in tanti abbiamo dimenticato anche come ricordo dei nostri nonni; nell'oggi dove un disc jockey dice: “Stasera vado a suonare”! 

Ma, nel chiederci come si ascolta quando lo si fa per la prima volta, cerchiamo di sperimentarlo anche da adulti. Proviamo, dico ai suddetti genitori, come fanno i bambini. I bambini con l’ascolto imparano a conoscere, a identificare e danno completamento alla loro avventura nel mondo. Ascoltiamo con attenzione musica mai ascoltata: come loro proviamo talvolta a esplorare e acquisire il linguaggio di suoni nuovi. Per loro ogni novità è meravigliosa. Il nuovo incuriosisce, udito ancora entra nella familiarità delle cose e delle persone. La voce familiare e guida della mamma porta i bambini a sempre nuove esperienze e “nuovi” rituali nell’apprendimento, nel linguaggio parlato per il bambino le cose hanno il suono della voce familiare e della definizione delle cose. Per noi può esserlo altrettanto. Nel farlo con loro genitori e bambini condividono un processo “creativo” attraverso il quale si “inventeranno” versi, e a volte parole, nuove. Il suono, ascoltato e prodotto, rappresenta un processo di facilitazione del sapere...anche per gli adulti. All’età di circa due anni mio nonno amava portarmi nel piccolo giardino di casa, al ritorno a casa nel rincontrare mia madre, gridai eccitato “Buli!” Mia madre non capiva, e mio nonno cercava di ricordare quale parola ascoltata da lui avessi storpiato nel dire “Buli”. Ci vollero un po’ di giorni perché, nell’indicare un fiore di gelsomino, mi ritrovassi a declamare “Buli!” Avevo creato la mia prima composizione sonora. Dubito di essere riuscito a scrivere musica che abbia interessato così intensamente il pubblico, ma Buli funzionò alla grande! Ma oltre ai suddetti suoni ritmici provocati dalle funzioni vitali della mamma, un continuum volontario da parte della mamma è la sua voce. E mentre questi ritmici sono continui e, tutto sommato, impersonali, la voce materna, attraverso il suo timbro, la sua altezza e la sua intensità, comunica col bambino in modo discontinuo ed è un elemento assolutamente musicale e molto personale e da lui identificabile. È come se ormai tutti gli elementi che fanno parte della teoria musicale che, verrà eventualmente studiata molti anni dopo, il bambino già li ricevesse ancor prima di nascere per divenire codici relazionali e di reciprocità espressiva sin dai primi anni. L’età “delle regole” è di là da venire e nella loro “introduzione formale” esso rappresenta un mondo all’interno del quale il senso del “gioco” va rispettato. Il gioco, infatti, è per il bambino un processo di conoscenza e sperimentazione; e rappresenta, probabilmente, la ragione per cui in inglese, in francese, tedesco e spagnolo giocare e suonare vengono tradotti con la stessa parola. E resta tale anche in ottica professionale, da adulti, quando la quotidianità del musicista è condizionata dall’approfondimento e ricerca in sé stessi delle condotte introdotte in psicologia dal francese Pierre Janet che definisce la condotta come una serie di azioni coordinate tra loro attraverso una strategia finalizzata. Vennero “riprese” attraverso l’epistemologia genetica di Jean Piaget per delineare le 3 fasi dello sviluppo del gioco infantile. Esse sono quella del “movimento” dalla nascita fino a circa 18 mesi, quella del “simbolismo” fino ai 3 anni e l’ultima detta “delle regole”. Per il musicista, studente o professionista, possiamo tradurle in quella dell’ “esplorazione” (quanti anni, forse una vita chi fa musica è alla ricerca di un suono e poi del “proprio” suono); quella dell’ “espressione” (il modo convinto e seduttivo attraverso il quale si dà significato e anima al proprio suono, alla propria frase musicale); e quella dell’ “organizzazione” (il “come” ottenere il meglio delle prime due condotte all’interno del discorso più ampio rappresentato dal brano da eseguire per un esame, o per il concerto). 

Questo doppio aspetto, quello di Piaget, e quello di chi pratica musica tutti i giorni, hanno interessanti analogie, e chi ne ha fatto una sintesi metodologica è François Delalande direttore del GRM (Groupe de Recherches Musicales) di Parigi con la pubblicazione di numerosissimi saggi riguardanti le Condotte Musicali. “Sbaglierebbe dunque il maestro che pensasse di potersi preparare la sua missione soltanto per mezzo di nozioni e studio: prima di tutto si richiedono da lui precise disposizioni di ordine morale. Il punto essenziale della questione dipende dal come…”                                                                                          (M. Montessori “La preparazione spirituale del maestro”) 

Sentirsi “maestro” di musica ha dell’erroneo quando si parla di bambini, e quanto più essi sono piccoli, più il termine è improprio. Un bambino assorbe da un adulto la musica così come apprende tutte le cose di cui ha bisogno, e l’aspetto sonoro della realtà rappresenta un aspetto importante del suo ambiente. In tal senso l’adulto rappresenta soprattutto una “guida” per l’aspetto “informale” che gli approcci sonori percepiti e prodotti nel proprio ambiente familiare e, successivamente, scolastico. Poi in casa Nini arrivò il registratore intorno ai miei otto anni. Era quell’apparecchio con i pulsanti colorati, i miei coetanei sanno di cosa parlo, Un'altra rivoluzione si immette nel modo di ascoltare, e poter riascoltare infinite volte, la stessa frase, la stessa musica. Il suono della propria voce! Mi viene oggi di pensare a cosa sia stato l'evento della radio all'inizio del secolo scorso: la musica cominciava ad entrare in tutte le case (tralascio quella che poi è divenuta la successiva invasione nemmeno nella sala d'aspetto del dentista, negli ascensori degli hotel, nei supermercati manca ormai l'ultimo successo di...). E mi è difficile immaginare come fosse stato un mondo nel quale per sentire musica lo si potesse fare solo andando a un concerto o partecipando ad una festa popolare. Qualcosa di straordinario doveva essere avere in casa o in famiglia qualcuno che suonasse uno strumento. Mi riferisco a poco meno di cento anni fa. Con quel primo registratore potei risentire la mia voce: comincio a cantare e a tentare di riprodurre con una prima chitarra (il tentativo con la batteria/jazz doveva aver esasperato più di un vicino) le melodie e gli accordi. Nel potermi risentire acquisii, come con lo specchio avviene per un bambino dopo il primo anno di vita, il mio senso del sé sonoro nel provare e risentire più volte un qualche incipit musicale era completato: ritmo, melodia e armonia erano entrati nelle mie abitudini sonore. Molti anni dopo cominciai a provare a studiare: qualche consiglio, qualche lezione poi sempre di più, poi il flauto traverso e il sassofono e … l'esame di solfeggio! Il punto esclamativo è riferito alla prima relazione che ebbi con “San Pietro a Majella”: il blasonato Conservatorio di Napoli. Anzi "Il" Conservatorio: nella prima metà del Cinquecento erano quattro, nei quali si sviluppò un'arte musicale apprezzata in tutta l'Europa, e nella Storia. 

“All'inizio, nel tali istituzioni nacquero con il pio intento di raccogliere dalla strada bambini orfani, abbandonati, di ospitarli in collegi retti dalla pubblica carità, e di dar loro un'educazione finalizzata a una occupazione come artigiani. Pur tuttavia tali allievi, detti figlioli, venivano anche istruiti nel canto, collegato alle funzioni religiose della cappella cui s'intitolava il Conservatorio; poi, man mano, l'attività musicale divenne quella principale, e si sviluppò in modo professionale”                                                                                          (Roberto De Simone “La scuola musicale Napoletana e i suoi quattro Conservatori”). 

Dobbiamo alle esigenze dei bambini la nobiltà della nostra storia artistica e musicale apprezzata in tutto il mondo. Era lì che avrei conseguito il primo titolo musicale della mia vita! Nell'entrare in quelle mura che trasudavano suoni immaginifici di tutta la storia musicale europea mi sentii come un pollo di allevamento, dato il numero sterminato di candidati, ma orgoglioso. Quando la commissione d'esame mi costrinse a produrmi in una lettura verbale di presupposti suoni a ritmo vertiginoso e gestualità vigorosa feci la mia “sufficiente” figura e andai via confuso col mio sei. Immaginate di dover declamare “correttamente” quanto scritto su un foglio senza capirne il senso in una lingua sconosciuta studiata per più di un anno. La musica che, dicevo, trasudava da quelle mura si era prosciugata in quel foglio, e non ne aveva lasciato traccia. Ai bambini non si può mentire: la musica deve avere un suono. Gli adulti possono vivere di gravi dimenticanze nella istituzione di metodologie che sono inutili e perpetuate perché subite, come una vendetta, e divenute sterili nel tempo perché prive di un reale rapporto col presente, ma il “leggere la musica” privata della sua essenza musicale non ha senso anche per gli adulti. Lo studio della musica, a qualsiasi età ed epoca, deve rappresentare la ricerca del suono e del relativo significato. È questa la “magia” della musica! 

“La forza magica della musica è fondata sulla priorità del suono nel cosmo. “Il cantore suonava l'arpa dinanzi al re ed entrambi divennero una cosa sola”. La musica congiunge perché porta a consuonare tutto ciò che è in grado di vibrare, ho almeno lo fa oscillare. Al lettore moderno questi pensieri possono sembrare giochi letterari, eppure si tratta di una realtà irrefutabile. Chi scrive non è il solo ad aver visto con i propri occhi come scorpioni, serpenti e anche uomini siano immobilizzati e resi rigidi in virtù di certi sillabe o note di flauto, fino al momento in cui li si "disincanti". La potenza del suono vibrante sembra però limitarsi a ciò che è suscettibile di vibrare, e poiché questa facoltà è stata smarrita dall'uomo moderno in misura spaventosa, egli si trova comprensibilmente al cospetto di tali cose in uno stato di incredulità o di smarrimento”.                                                                         (La Magia da “Il significato della Musica” Marius Schneider) 

Circa 40 anni fa cominciai ad insegnare, perché non ho smesso mai di farlo? In realtà, come già detto, cominciai prima, e mio fratello, in tempi non sospetti, fu la prima “vittima” consenziente della mia presupponenza, ma poi...

Educare è un modo estremamente impegnativo di capire chi siamo: un processo strutturato su rapporto molteplice e sempre biunivoco. È un incontro privilegiato perché scelto, quindi senza alibi, tra chi insegna e chi impara; e di consapevolezza che chi insegna impara sempre mentre lo sta facendo. Sussiste in una relazione umana dettata fortemente da un motivo interiore che ci ha spinto a farlo. È quel processo dell'esistenza, che, specialmente quando si ha a che fare con bambini, ci costringe a chiederci chi siamo e come siamo, e come ci siamo comportati, e se “siamo stati bravi oggi”! Non siamo costretti ma, se vogliamo essere onesti e veri portatori di valori, ovvero educatori, abbiamo bisogno di una autovalutazione emotiva per capire come il tempo abbia lavorato dentro di ognuno di noi insegnanti. In quale realtà stiamo esercitando questa professione. Qual è il mondo nel quale stiamo operando; per sapere sempre quello che li aspetterà fuori da questa scuola. La nostra realtà detta "globalizzata" niente a che vedere con quella responsabile verso l'infanzia che era compito collettivo del "villaggio", come era sempre stato nelle società del passato. Il nostro "villaggio globale" fatto di produzione di mercato e pubblicità, entrato negli equilibri del quotidiano della nostra esistenza, e in quella dei bambini, è parte ormai anche nel linguaggio affettivo e psichico del nostro quotidiano. Tutto questo colpisce soprattutto le persone in formazione, i più sensibili e deboli perché in divenire. Allora, forse, la risposta a perché non hai smesso mai di farlo è nel tuo tentativo di provare a recuperare qualcosa che della musica che ti circonda si è perso, e torna come vecchio codice di relazione umana, come una eco lontana che ti torna indietro da ogni bambino al quale insegni, e che vedi trasformarsi in qualcos'altro rinnovato, vivo ed entusiasmante perché sempre diverso. È per questo che come insegnanti "dobbiamo" ai bambini una lezione che viene da molto lontano come una eco persistente, rassicurante, difficilmente individuabile nel chiasso della nostra civiltà. Quest'eco e quella voce lontana che viene da remoto passato e che si dice che si è perso tanto e, per questo, tanto va ricordato. Ci dice che esiste un produttivo senso comune, anche legato alla musica, che va alimentato e conservato per donare valori sani nella crescita; sono l'immagine del nonno, della zia, dei "grandi"; le figure di riferimento di una civiltà sana e diretta; sono i giochi ripetuti con attiva partecipazione, rituali laici di sana relazione affettiva; sono le storie le melodie e le occasioni create per raccontarle cantarle, tra persone di varie generazioni; che lo fanno ricordando quando li ascoltarono la prima volta. E di nenie sacre perché "usate" mille volte e che mille volte hanno rassicurato e fosse strutturato identità e dato una collocazione nel mondo e dentro di sé creando uno spazio sufficiente a contenere ansie e speranze. Sono quelle cose che quando pensiamo che in troppe civiltà "evolute" non esistono più, ne proviamo una punta di nostalgia come “l'ovo sodo dentro, che non va né in su né in giù” del film di Virzì. È una eco semplice sempre più flebile e che non si può registrare digitalmente come lo stato della nostra anima, e quando lo si fatto è rimasto lì con me tutta la musica che abbiamo scaricato: quella che non ascoltiamo su YouTube, "tanto è lì". 

È difficile da accettare e difficile, da educatore, ammettere che tanto si è perso. Verrebbe voglia di dire: "fate presto: una eco flebile, lontano c'è ancora". Intanto importante è amplificare quelle che ancora abbiamo dentro di noi e continuare a coltivare l'arte del narrare col suono giusto, del cantare del suonare, se possiamo, del ripetere e ritualizzare, di regolamentare del comparare i significati in linguaggi diversi attraverso sinestesie di senso. Importante è amare quello che si insegna perché se con i bambini possiamo passarla franca con qualche piccola bugia, la verità di quello che siamo sarà lì in quella eco che risuonerà in quel bambino tutta la vita. Cercare il Nuovo Mondo, scoprire l’inaudito, è stata quella spinta, quell’insopprimibile desiderio di andare oltre il conosciuto. L’umanità ha trovato tanto attraverso questo atteggiamento e continua a cercare l’ulteriore con lo stesso spirito con cui un bambino si affaccia al mondo, nuovo, per chi è appena nato. Un mondo pieno di meraviglie e di relazioni con l’altro da sé, con il diverso che rappresenta sempre un arricchimento come lo fu per Colombo, per Neil Armstrong sulla luna come lo è per ogni bambino che nasce e che è il continuo promemoria di una semplice scoperta: un mondo migliore. Sono consapevole che queste idee potranno incontrare una relativa indifferenza, o un interesse puramente intellettuale. Che questa indifferenza debba manifestarsi, in primo luogo tra il popolo delle discoteche e quello dei disk jockey, è evidente, poiché una concezione antica, quindi non moderna, impegnativa e poco vendibile, per quanto motivata essa sia generalmente si afferma non tanto in forza delle sue prove e più o meno scientifiche, quanto in base al grado di ricettività che essa incontra nel pensiero e nel modo di ascoltare e "sentire" di una data epoca. Ma lo stesso, e non è consolante, sta avvenendo nel modo di "sentire" il problema dei cambiamenti climatici; e allora perché i genitori, riguardo al futuro dei loro bambini, dovrebbero spingerli alla sensibilità verso una musica che loro non ascoltano più, se al loro futuro biologico non trovano difesa? 

Maria Montessori, con le sue felici intuizioni, è stata l’avanguardia di un manifesto culturale che oggi può apparire, alla nostra civiltà distratta, fuori del tempo. Il nostro tempo che ha “rottamato” l’esperienza, il pensiero e l’ascolto meditato del silenzio. Verrebbe da dire, ancora una volta, che serve una svolta culturale. Intanto il sottoscritto, in odore di smobilitazione, e cercando di invecchiare dignitosamente, continuerà ad ascoltare, cantare, e a “giocare” la musica con tutti i bambini di tutte le età; anche quelli a me coetanei Alla TV assisto al “solito” telegiornale, guardo gli occhi persi di un gruppo di extracomunitari appena sbarcati. Ho tolto il volume per evitare l'annoiata abitudine di sentire gli stessi commenti e le frasi legate a questo evento ormai ciclico. E mi viene da chiedermi cosa avrebbero da raccontare quelle bocche: racconti di un altro mondo al “contrario”, di persone che non vengono per scoprire, per conoscere, ma per fuggire e cercare una vita dignitosa. Chissà con che suoni vocali esprimerebbero il loro blues, con quali nenie addormentano i bambini che tengono tra le braccia, quale musica inaudita accompagna le loro menti, i loro desideri. Una serie di “esploratori forzati” che per pura sopravvivenza si trasformeranno, ma che racchiudono valori che sono uguali nelle esigenze, ma diversi nella loro espressione. Quegli occhi che riempiono l’assordante silenzio della loro “meraviglia” ma che, inevitabilmente, verrà assorbita nel nostro, per loro nuovo, mondo. 

“Evitare i conflitti è opera della politica: costruire la pace è opera dell’educazione" (Maria Montessori).

 

Enzo Nini


mercoledì 19 febbraio 2025

L'utilizzo del mito nella scrittura di Beatrice Hastings: Il sacerdote di Delfi.














Afrodite detta "del Fréjus", Museo del Louvre


L'utilizzo del mito nella scrittura di Beatrice Hastings: Il sacerdote di Delfi.

Uno dei percorsi esperienziali della scrittura di Beatrice Hastings è l'utilizzo del mito che a suo modo plasma, a seconda delle sue esigenze, per veicolare messaggi politici o femministi, per avventurarsi in dimensioni immaginifiche, per creare il perturbante, per esprimere il suo lirismo in omaggio alla sua Africa, per esprimere la sua selvatichezza degli anni giovanili, etc, talvolta riscrivendo i racconti mitologici con l'intento di disinnescare i messaggi patriarcali infusi nelle narrazioni della mitologia greca o per affermare la potenza del femminile, come nel caso del suo racconto "Il Sacerdote di Delfi", in cui Afrodite corrompe il cuore di Basileus, Sacerdote di Apollo, per instillare in lui la passione amorosa, con lo scopo di sostituire l'amore alla violenza e all'aggressività maschile (nella fattispecie, di Febo e di Efesto nel racconto).

Ecco un passo significativo del racconto:

Afrodite andò da Basileus, e colpì i suoi occhi con un dito invisibile. Allontanandosi, lasciò dietro di sé un calore così sottile che Basileus non seppe se riceverlo con gioia o con dolore. Strappò l'erba umida per raffreddarsi le mani e premette il volto arrossato tra le foglie.

Così prodigiosamente stimolato, vide una giovane vergine uscire dal Tempio. Quel giorno, come ogni giorno, la fanciulla gli portava un frutto su un vassoio, ed una tazza. Lui guardò i fiori intrecciati nei suoi capelli e pensò che non l'aveva mai vista prima. Presa la mano che portava il vassoio, poggiò in terra il vassoio e la tazza, ma trattenne la mano.

Non ricordò la sua carica di sacerdote, né la sua età avanzata, né la giovinezza inesperta di lei; poiché era destinato a supplicare la fanciulla.

Lei fuggì; lui la inseguì, abbandonando le chiavi sacre e il corno del suo Dio. La fanciulla ammonì colui a cui spettavano le parole ammonitrici. Esortò colui che ieri esortava lei. Lui sorrideva come ubriaco di dolci libagioni. Cantò un canto magico. E la fanciulla, guidata da Afrodite, uscì dai boschi rugiadosi, svelta come una colomba.

Si amarono tutto il giorno nella verde valle di Delfi. Quando il Sole iniziò il suo viaggio oceanico, li lasciò ancora svegli.

Allora Afrodite, sciogliendosi i capelli scintillanti, volò in alto, trionfante.

[...]


Federico Tortora


Testo pubblicato nel volume "Beatrice Hastings, in full revolt", Diotaiuti, Tortora (a cura di), caffè letterario Le Cicale Operose (2020). Traduzione: Matilde Cini. Diritti riservati.









lunedì 17 febbraio 2025

Pasquale Lenge invita Maria Lenti, poeta dialettale marchigiana.

 










Pasquale Lenge (poeta Lucano, curatore della rubrica Torrenti):

Quarcarunë recë

nù mena, sëccata

a quarcarunatë venë

lu trëmulizzë, la mbosta!


Ciuccië pè jastmà

mulë pé fatëá

cavaddë pè camnà


pè passà la jumara

amici sincirë e carë

quà lu screvë

qui l'ho detto

invito faccio al poeta

Maria Lenti.


Si tratta di un invito ad attraversare il torrente; qualcuno afferma che è secco, altri, paurosi (trëmulizzë), che è in piena. Ognuno con i suoi mezzi simbolici: asini per bestemmiare, muli per lavorare, cavalli per viaggiare. Per guadare il torrente, amici sinceri e cari, poeti.


Sempre Vostro, Pasquale Lenge.


Le Cicale Operose ha avuto il piacere di ospitare Maria Lenti in occasione del Festival di poesia VOCI, II Edizione, dedicato alla poesia dialettale, invitando poeti di varie regioni d'Italia.





Letture di Maria Lenti delle poesie Sogno, So parlare ancora, Adess.

Per ascoltare, cliccare sull'immagine.


sabato 15 febbraio 2025

"La subordinazione dell’anima umana alla forza", di Pasquale Vitagliano.

 












Agli inizi della guerra in Ucraina Adriano Sofri ha sostenuto una tesi davvero interessante. “L’ossessione di Putin per l’Ucraina somiglia a quelle di certi uomini per la ex moglie che hanno amato, al punto di ucciderla. Mi è sembrato un pensiero folgorante: l’Ucraina è mia perché lo è stata, e se non vuole essere più mia non sarà di nessun altro. Un corto circuito fra guerra e femminicidio: mai casus belli è stato più nitido”. Se aggiungiamo che stiamo parlando del paese dove la pratica della maternità surrogata è più diffusa, il cerchio sembrerebbe chiuso. Ed invece il cerchio lo riapre Simon Weil. Nella sua riflessione che illumina ancora oggi incontriamo la rilettura dell’Iliade. “La forza ne è l’unico eroe. (…) L’amarezza verte sull’unica giusta causa di amarezza: la subordinazione dell’anima umana alla forza, cioè, in fin dei conti, alla materia”. La forza rende chiunque le è sottomessa pari ad una cosa. A questo punto, mi permetto di ribaltare la tesi di Sofri, cui potremmo aggiungere il tema dell’accanimento di Israele su Gaza – Tu non mi vuoi, allora io ti distruggo. Non è la guerra, evento particolare, paradigma della guerra al patriarcato, struttura generale. Forse è il contrario, i femminicidi sono archetipo della generale indomabile soggezione di tutti gli esseri umani alla legge orrenda della Forza, e, nello specifico, della Forza del genere maschile sul genere femminile. Se così fosse, la liberazione femminile, prima di tutto dalla violenza subita, acquista un valore universale e politico, di liberazione umana.

Pasquale Vitagliano