I
bambini mi hanno insegnato…
I bambini mi hanno insegnato il
miglior modo di rapportarmi agli adulti quando insegno musica, o quando la
eseguo. Mi hanno insegnato quanto sia importante allontanarsi dalle
sovrastrutture che abbiamo noi grandi: ad esempio quella di identificare un
genere musicale, quella di ascoltare con interesse senza pensare che “capisco o
non capisco nulla di quel genere“. Soprattutto il gusto della scoperta e della
esplorazione semiotica in relazione alle emozioni. Da adulto abbastanza…
“avviato” ormai ne ho approfondito i processi, ma senza perderne mai il gusto e
il piacere ludico, come i bambini che naturalmente agiscono in “interplay” con
i fenomeni espressivi percepiti e prodotti. Dai bambini ho capito che essere
“musicista” significa avere un gusto per il suono perché può evocare stati
affettivi o avere un valore simbolico per la nostra società o far nascere
immagini. Che bisogna essere sensibili ad essa con “percezione emotiva” senza
la quale essa non vi dice nulla. Nel relazionarmi ai bambini ho capito
l’importanza dell’organizzazione: fare musica vuol dire sotto molti punti di vista,
organizzare; una attitudine che forma il nostro approccio alla vita. Non è,
d’altra parte, casuale che i bambini istintivamente, come i compositori di
musica di ricerca esplorativamente, siano quelli che udendo un rumore, un suono
o una voce non identificata da lontano pensino “che strano: di cosa si tratta?”
invece di spaventarsi alla novità dicendo: “Gesù, che cosa é successo?”. Ne "La musica è un gioco da bambini" François Delalande espone in modo
scientificamente esaustivo quanto concerne le “condotte musicali” dei nostri
primi anni, sviluppando il concetto di “condotta” di Pierre Janet. Processo che
noi adulti tendiamo a dimenticare nel cercare sicurezze e definizioni. E per
questa ragione, in occasione di un invito della direttrice di Napoli dott.ssa
Laura Rinaldi, stesi l’articolo che riproduco a seguire, che poi fu pubblicato
per i “conversari di ACHAB” in un numero monografico sulla musica sul numero di
maggio del 2021, in cui osservo il “giocare” dei bambini e il mio
nell’apprendere una passione.
“Giocare” la musica.
La
felice opportunità che mi è stata
data attraverso questo scritto è conseguenza delle frequenti chiacchierate e
dalla serrata “attività sul campo” avvenuti tra me e la dottoressa Laura Rinaldi
durante i corsi di formazione Montessori, e la frequentazione degli stessi
bambini all’interno del progetto Sequoia di Napoli ideato dalla dottoressa Lisa
Ray. Per cui il tono del presente articolo risentirà del carattere dialogico da
cui sono derivate alcune considerazioni, ma si svilupperà nel senso formale di
uno scritto come pensiero “in progress” presente nell’attività a tutt’oggi in
corso. Molte considerazioni si sono sviluppate in una sorta di “doppio gioco”
(la parola gioco è fondamentale e vedremo perché) tra “condotte infantili”
attuali, quelle osservate nel seguire i bambini a scuola e nel veder crescere i
miei 3 nipotini, e quelle che riaffiorano dalla memoria di me bambino alla
ricerca delle esperienze che abbiano condizionato la mia scelta di
appassionato. Mentre scrivo nel mio rifugio, il mio studio tranquillo, mi fermo
ad ascoltare: il rombo lontano di un aereo sta atterrando verso l’aeroporto,
nell’altra stanza una voce che salmodia in una lingua orientale, di sottofondo
rumori di traffico, degli uccelli nel parco vicino, il vocio eccitato degli
studenti fuori la scuola. Un mondo invisibile mi circonda con il suo aspetto
acustico, faccio un piccolo sforzo per distinguerli, ma quello che sento è in
realtà un flusso continuo di suoni e rumori. Sembra un insieme di suoni caotici
al quale siamo assuefatti, in realtà è sintomo di vite in corso. Così è la
musica: spesso è intorno a noi attraverso la pubblicità televisiva e
l’assorbiamo passivi, altre volte l’ascoltiamo rapiti in un concerto o la
scegliamo quando mettiamo un disco. La musica e la realtà sonora in genere,
quando le ascoltiamo con attenzione, si presentano come dei flussi di suoni
complessi dai quali identifichiamo uno degli sviluppi interni. Ma quando e come
è cominciato tutto questo? “Ora si potrebbe chiedere: quali saranno le
preoccupazioni del bambino piccolo che lo inducono a scegliere fra le immagini
infinite e mescolati insieme, che egli incontra nell’ambiente? Il bambino
parte proprio dal nulla ed è l’essere attivo che avanza solo. E per entrare in
argomento: il fulcro attorno al quale agisce interiormente il periodo sensitivo
è la ragione. Il ragionamento come funzione naturale creativa a poco a poco
germina come cosa viva che cresce e si concreta a spese delle immagini che
assume dall’ambiente”. (M. Montessori “Il segreto dell’Infanzia”)
L'aspetto
relegato alle immagini dell'ambiente descritto in questa citazione è analogo a
quello che riguarda anche l'ambiente sonoro. Esso ci pone di fronte alle
responsabilità che abbiamo a tutt'oggi rispetto a tutti i bambini: quante
tirate di orecchi ai nostri contemporanei darebbe la dottoressa Montessori
invitandoli a spegnere qualche apparecchio mediatico di troppo? Ma la prima
esperienza uditiva appena nati, parte anch'esso dal nulla? Nasciamo, in altri
termini, davvero dal nulla assoluto? La percezione sonora non inizia con la
nascita. Sappiamo infatti che prima di nascere il bambino riceve dei chiari
segnali sonori, quelli che con il processo educativo definiremo musicali.
Infatti il battito cardiaco, la pressione costante del diaframma materno e le
contrazioni addominali sono il poliritmo prenatale e, ovviamente, vitale
attraverso il quale tutti noi acquisimmo già un senso di “pathos” musicale come
il senso di un crescendo, di un ritmo serrato, di più ritmi non sincroni. Un
esempio lampante è quello della mamma in cinta che ha dimenticato acceso il
fornello della cucina, ella correrà a chiuderlo mettendo in moto una sezione
“poliritmica” piuttosto incisiva sul corpo del piccolo. Voglio dire che l'idea
di sonorità ritmica “in crescendo” che noi cerchiamo di descrivere attraverso
il nostro linguaggio era già presente quando nascemmo. Una percezione del ritmo
legato anche alle prime melodie esterne che la voce della madre produce più o
meno intenzionalmente. Un “incipit” alla prima musica natale che rassicurerà il
piccolo che verrà affidato al petto e all'ugola materna. Forse la scienza ci
darà ulteriori conferme, al momento è delegato al sogno e alla fantasia il mio
desiderio di poter sapere come apparve “l’ambiente sonoro” quando, appena nato,
dagli impulsi ritmici del corpo di mia madre e dai suoni ovattati nel comodo
ambiente chiuso del suo grembo, venni tirati fuori per entrare nel “Nuovo
Mondo” ora costituito da una mamma che suona col cuore e canta dolcemente,
ascoltando ad occhi chiusi. Ma presto comincerà l'inaudito e gli occhi si
spalancheranno per la sorpresa. Quando lo studioso Stephen Greenblatt
descrisse in “Meraviglia e Possesso” l’atteggiamento di Colombo e soci
all’arrivo delle presupposte Indie, descrisse l’incanto, il timore e, appunto,
la Meraviglia del trovarsi nel “Nuovo Mondo” in un ambiente a loro sconosciuto,
un momento in cui, dice, vengono temporaneamente abbattute le categorie morali
invase dalla meraviglia. Così immagino i loro occhi spalancati e immagino che
non dovevano essere del tutto diversi a quelli dei bambini quando sono stupiti.
Quella espressione che riempie il cuore, durante le lezioni musicali, avviene
quando ascoltano qualcosa di inaudito e hanno quegli occhi. Vero è che oggi la
musica viene soprattutto “guardata” per l’onnipresente associazione agli
inevitabili video di ogni produzione musicale, ma “ascoltare soltanto” la
musica è una specificità sensoriale che avviene solo per scelta proprio perché
appena nati il mondo e l’ambiente è un tutt’uno, poi, con il processo educativo,
si impara a separarli; ma il Nuovo Mondo uditivo esisteva già prima di nascere.
Una volta nati i bambini, quindi, sono capaci di separare uno o più suoni da
quello che l’ambiente gli presenta: riconoscono la voce materna tra quelle dei
parenti che lo osservano e commentano compiaciuti il suo sorriso, si
rassicurano quando sentono il cuore della mamma che lo culla. L'elemento
sonoro, quindi, rappresenta un forte elemento culturale legato alla vita
presente e futura del bambino, infatti la psicoanalista Suzanne Maiello nell'
articolo “Dialoghi ante litteram. Note sugli elementi ritmici e sonori del
linguaggio e della comunicazione verbale” del 2011 che “le mitologie di molte
culture fanno nascere il mondo da una fonte sonora, da un tuono, una voce, un grido,
un canto, o più “scientificamente” dal big bang. Per “risuonare“, il suono
ha bisogno di un corpo di risonanza. Bisogna essere in due, fin dall’inizio.
Quando è l’inizio? Nella tradizione di un popolo africano, una donna che scopre
di essere in attesa di un bambino esce dal villaggio, sola, raggiunge un certo
Albero, si siede al fine di rimanere lì fino a quando non sente dentro di sé
una melodia. Allora ritorna al villaggio cantando quella che sarà la melodia
del bambino. Prima ancora di avere un nome, egli avrà un canto. La melodia
viene cantata dalla madre fino dalla nascita. Durante il pasto, cantata dalla
comunità delle donne, essa accoglie il bambino. La melodia accompagnerà per
tutta la vita nei momenti più significativi della sua esistenza da rituale di
iniziazione al matrimonio fino alla cerimonia funebre”. Lo stesso Freud, che
con la musica non ebbe un rapporto così profondo, afferma che
“nell’involontario linguaggio corporeo, del quale fanno parte anche le
fluttuazioni del tono della voce si esprimono gli affetti ed è lì che si
possono celare segreti non espliciti verbalmente”. La melodia materna diviene
così il primo capolavoro musicale! Ai tanti genitori che mi chiedono quale sia
un modo di ben avviare al mondo della musica il proprio piccolo chiedo quale
musica piace loro quando l'ascoltano veramente. La trasmissione di un ambiente
sonoro parte da lì: dalla condivisione di un ascolto. La voce della mamma, ma
anche l’emozione condivisa in un ascolto comune, rappresenta una ottima “colonna
sonora” di un processo di affettività. Attraverso gli studi di Edwin Gordon è
noto che i genitori che cantano in casa, godendo del piacere di farlo,
costituiscono un ambiente naturale nel quale il bambino apprende il piacere di
emettere suoni con la voce non solo per le parole. Non ancora maturo il senso
del linguaggio, per il bambino anche il semplice parlato, la filastrocca e la
voce dei genitori rappresenta i suoni dell’affetto, come un latte materno delle
emozioni. È come raccontarle, le emozioni, senza capire ancora le parole. E,
come il linguaggio della parola, quello cantato si sviluppa nel pensiero
attraverso l'assunzione del suono che non avviene solo con l’ascolto attento,
ma anche attraverso quello che per gli adulti è considerato ascolto passivo.
Per il piccolo esso sarà, comunque, quella “colonna sonora” che arriverà con
l’emozione ad essa appartenente. Non importa essere virtuosi del canto, è
importante godere e provare piacere nel farlo. Il bambino non recensirà
l’esecuzione, ne assorbirà il l’ “ethos” affettivo.
Accade che circa un anno e
mezzo fa venni intervistato e videoripreso a bruciapelo per una tesi di
sociologia dell'Università di Napoli tra vari artisti napoletani. Si cercava la
spontaneità emotiva nella replica; la domanda, quindi, richiedeva una risposta
pressoché immediata riguardo al momento che ricordavo, più lontano nel tempo,
in cui la musica in qualche modo interveniva nella mia affettività. Alcuni
processi mentali sono davvero sorprendenti perché fu praticamente istantanea la
mia realizzazione che il momento richiestomi si stava concretizzando nella
memoria di me da piccolo, sulle spalle di mio padre che inventava parole su
motivi e melodie altrettanto improvvisate con le quali mi intratteneva durante
il percorso. Avevo, all'epoca, più o meno due o tre anni. Tre anni dopo entrò
in casa il Jazz; e per Jazz mio padre intendeva quell'agglomerato, così mi
apparve da vicino, di piatti tamburi detto batteria che mi regalò con una
chitarra. Fu così che, nell'arco di pochi anni, l'improvvisazione e la parola
“Jazz” entrarono nella mia vita. Jazz, la stessa definizione che Maria
Montessori ne “Il segreto dell'Infanzia” usa nella “costruzione dell'orecchio
che è un meraviglioso insieme di corde e membrane vibranti che costituisce una
jazz band nel quale non manca nemmeno il tamburo”. Il ricordo con mio padre in
occasione dell'intervista e la mia risposta alla richiesta dei suddetti
genitori mi riportano a un concetto piuttosto articolato che è elemento
essenziale dell'approccio musicale jazzistico, è il cosiddetto “interplay” che è
un processo creativo che va oltre l'affiatamento richiesto a un organico di
musicisti. Esso richiede produzione musicale e ascolto di quello degli altri
mentre si suona; è un po' come se si parlasse contemporaneamente ad altre
persone percependo quello che gli altri dicono. È la quintessenza della
comunicazione sonora. “Per risuonare, il suono ha bisogno di un corpo di
risonanza. Bisogna essere in due, fin dall’inizio” diceva la dottoressa Maiello
è per questo che se i genitori cantano o “ascoltano”, non distrattamente, la
musica stabiliscono uno scambio comunicativo che, nello sviluppo del piccolo,
ha la caratteristica principale della reciprocità. Infatti appena nato, quanto
percepisce il bambino non è semplicemente il comportamento della mamma, ma la
sua reciprocità rispetto al proprio. Da subito il bambino si impegna in una
relazione: un interplay naturale. I “meccanismi” di questa reciprocità iniziano
molto presto nella fase definita nella “condotta del movimento”. Essendo un
meccanismo per lo più fisico ha un suo ritmo; in altri termini subito dopo la
nascita i bambini si impegnano in interazioni “ritmiche” con chi si occupa di
loro...danzando per la prima volta. Allora non solo ci fu il “jazz”, la batteria,
ma anche una chitarra: furono i rumorosi strumenti di meraviglia con i quali
con mio fratello cominciammo ad allietare “l’ambiente sonoro” di casa, e
siccome io ero il grande “spiegavo” a lui cosa dovesse fare con quei tamburi
mentre io zappavo sulle corde (mi restituì molti anni dopo con l’interesse
quelle lezioni avendo lui avuto un approccio più sereno e meno tortuoso del mio
nello studio per il conservatorio) ho un lontano ricordo di quell'epoca e di
un forte coinvolgimento, e per noi era fortemente gratificante perché ci
sentivamo un po' musicisti. Per questo quando insegno ai bambini mi sento
coinvolto come musicista e non solo insegnate, dove ogni suono, condiviso o
“armonizzato” ha la sua importanza che, se rispettata nel suo valore di “gioco”
acquista importanza per me come per loro, e diventa musica. Così risulta
oltremodo comprensibile la felicissima affermazione di Maria Montessori ne “La
mente del bambino-mente assorbente”: «Il periodo infantile è un periodo di
creazione; nulla esiste all'inizio ed ecco che circa un anno dopo la nascita il
bambino conosce ogni cosa. […] Nel caso dell'essere umano non si tratta dunque
di sviluppo, ma di creazione, la quale parte da zero. Il meraviglioso passo
compiuto dal bambino è quello che lo conduce dal nulla a qualche cosa, ed è
difficile per la nostra mente afferrare questa “Meraviglia”».
E come si
comporterà rispetto al non udito prima; come vivrà la sua meraviglia, la sua
scoperta rispetto all’ “inaudito”: come sarà la sua scoperta del “Nuovo Mondo”?
L'inaudito spaventa l'adulto, ma affascina il bambino e gli “artisti”. Noi
adulti ci allarmiamo se non sappiamo associare quello che udiamo ripetutamente
ad un fenomeno conosciuto; o quantomeno ci risulta “molto meno” gradita quella
musica che ascoltiamo se non collocata nell’ambito del “già noto”. Lo sappiamo
perché “raramente” si decide di andare a sentire un concerto di musica
“contemporanea” o di musica “concreta” o di “ricerca” e pochi sono quegli
amanti del jazz che ascoltano con interesse musica prodotta sui principi di
“Free Jazz” di Ornette Coleman. Viviamo, quindi, un’epoca in cui cerchiamo
rassicurazione e l’inatteso ci spaventa quindi lo rifiutiamo, per cui spesso un
genitore fa una scelta “musicale” a lui gradita spesso “educata” da quanto in
musica “assorbiamo culturalmente” e inconsapevolmente attraverso la
televisione, il computer, i cellulari, la onnipresente pubblicità, le colonne
sonore, le sale d’attesa del dentista, gli ascensori dei grandi alberghi.
Viviamo una civiltà piena di musica, ma la assorbiamo come un oggetto
dell’arredamento, come l’aria inquinata delle nostre città; eppure poco più di
cento anni fa per ascoltare musica eravamo costretti ad uscire di casa, si
viveva un mondo più silenzioso o, potremmo dire “diversamente sonoro” nel
quale ascoltare musica comportava una scelta e una azione attiva nel
raggiungere una sala da concerto o la piazza dove suonava una banda festosa. Un
mondo nel quale chi suonava lo faceva con uno strumento, non a caso, definito
acustico. Un mondo che sembra lontano, che in tanti abbiamo dimenticato anche
come ricordo dei nostri nonni; nell'oggi dove un disc jockey dice: “Stasera
vado a suonare”!
Ma, nel chiederci come si ascolta quando lo si fa per la prima
volta, cerchiamo di sperimentarlo anche da adulti. Proviamo, dico ai suddetti
genitori, come fanno i bambini. I bambini con l’ascolto imparano a conoscere,
a identificare e danno completamento alla loro avventura nel mondo. Ascoltiamo
con attenzione musica mai ascoltata: come loro proviamo talvolta a esplorare e
acquisire il linguaggio di suoni nuovi. Per loro ogni novità è meravigliosa. Il nuovo incuriosisce, udito ancora entra nella familiarità delle cose e delle
persone. La voce familiare e guida della mamma porta i bambini a sempre nuove
esperienze e “nuovi” rituali nell’apprendimento, nel linguaggio parlato per il
bambino le cose hanno il suono della voce familiare e della definizione delle
cose. Per noi può esserlo altrettanto. Nel farlo con loro genitori e bambini condividono
un processo “creativo” attraverso il quale si “inventeranno” versi, e a volte
parole, nuove. Il suono, ascoltato e prodotto, rappresenta un processo di
facilitazione del sapere...anche per gli adulti. All’età di circa due anni mio
nonno amava portarmi nel piccolo giardino di casa, al ritorno a casa nel
rincontrare mia madre, gridai eccitato “Buli!” Mia madre non capiva, e mio
nonno cercava di ricordare quale parola ascoltata da lui avessi storpiato nel
dire “Buli”. Ci vollero un po’ di giorni perché, nell’indicare un fiore di
gelsomino, mi ritrovassi a declamare “Buli!” Avevo creato la mia prima
composizione sonora. Dubito di essere riuscito a scrivere musica che abbia
interessato così intensamente il pubblico, ma Buli funzionò alla grande! Ma
oltre ai suddetti suoni ritmici provocati dalle funzioni vitali della mamma, un
continuum volontario da parte della mamma è la sua voce. E mentre questi
ritmici sono continui e, tutto sommato, impersonali, la voce materna,
attraverso il suo timbro, la sua altezza e la sua intensità, comunica col
bambino in modo discontinuo ed è un elemento assolutamente musicale e molto
personale e da lui identificabile. È come se ormai tutti gli elementi che
fanno parte della teoria musicale che, verrà eventualmente studiata molti anni
dopo, il bambino già li ricevesse ancor prima di nascere per divenire codici
relazionali e di reciprocità espressiva sin dai primi anni. L’età “delle
regole” è di là da venire e nella loro “introduzione formale” esso rappresenta
un mondo all’interno del quale il senso del “gioco” va rispettato. Il gioco,
infatti, è per il bambino un processo di conoscenza e sperimentazione; e
rappresenta, probabilmente, la ragione per cui in inglese, in francese, tedesco
e spagnolo giocare e suonare vengono tradotti con la stessa parola. E resta
tale anche in ottica professionale, da adulti, quando la quotidianità del
musicista è condizionata dall’approfondimento e ricerca in sé stessi delle
condotte introdotte in psicologia dal francese Pierre Janet che definisce la
condotta come una serie di azioni coordinate tra loro attraverso una strategia
finalizzata. Vennero “riprese” attraverso l’epistemologia genetica di Jean
Piaget per delineare le 3 fasi dello sviluppo del gioco infantile. Esse sono
quella del “movimento” dalla nascita fino a circa 18 mesi, quella del
“simbolismo” fino ai 3 anni e l’ultima detta “delle regole”. Per il musicista,
studente o professionista, possiamo tradurle in quella dell’ “esplorazione”
(quanti anni, forse una vita chi fa musica è alla ricerca di un suono e poi del
“proprio” suono); quella dell’ “espressione” (il modo convinto e seduttivo
attraverso il quale si dà significato e anima al proprio suono, alla propria
frase musicale); e quella dell’ “organizzazione” (il “come” ottenere il meglio delle
prime due condotte all’interno del discorso più ampio rappresentato dal brano
da eseguire per un esame, o per il concerto).
Questo doppio aspetto, quello di
Piaget, e quello di chi pratica musica tutti i giorni, hanno interessanti
analogie, e chi ne ha fatto una sintesi metodologica è François Delalande
direttore del GRM (Groupe de Recherches Musicales) di Parigi con la
pubblicazione di numerosissimi saggi riguardanti le Condotte Musicali.
“Sbaglierebbe dunque il maestro che pensasse di potersi preparare la sua
missione soltanto per mezzo di nozioni e studio: prima di tutto si richiedono
da lui precise disposizioni di ordine morale. Il punto essenziale della
questione dipende dal come…” (M. Montessori “La preparazione spirituale del
maestro”)
Sentirsi “maestro” di musica ha dell’erroneo quando si parla di
bambini, e quanto più essi sono piccoli, più il termine è improprio. Un bambino
assorbe da un adulto la musica così come apprende tutte le cose di cui ha
bisogno, e l’aspetto sonoro della realtà rappresenta un aspetto importante del
suo ambiente. In tal senso l’adulto rappresenta soprattutto una “guida” per
l’aspetto “informale” che gli approcci sonori percepiti e prodotti nel proprio
ambiente familiare e, successivamente, scolastico. Poi in casa Nini arrivò il
registratore intorno ai miei otto anni. Era quell’apparecchio con i pulsanti
colorati, i miei coetanei sanno di cosa parlo, Un'altra rivoluzione si immette
nel modo di ascoltare, e poter riascoltare infinite volte, la stessa frase, la
stessa musica. Il suono della propria voce! Mi viene oggi di pensare a cosa sia
stato l'evento della radio all'inizio del secolo scorso: la musica cominciava
ad entrare in tutte le case (tralascio quella che poi è divenuta la successiva
invasione nemmeno nella sala d'aspetto del dentista, negli ascensori degli
hotel, nei supermercati manca ormai l'ultimo successo di...). E mi è difficile
immaginare come fosse stato un mondo nel quale per sentire musica lo si potesse
fare solo andando a un concerto o partecipando ad una festa popolare. Qualcosa
di straordinario doveva essere avere in casa o in famiglia qualcuno che
suonasse uno strumento. Mi riferisco a poco meno di cento anni fa. Con quel primo
registratore potei risentire la mia voce: comincio a cantare e a tentare di riprodurre
con una prima chitarra (il tentativo con la batteria/jazz doveva aver
esasperato più di un vicino) le melodie e gli accordi. Nel potermi risentire
acquisii, come con lo specchio avviene per un bambino dopo il primo anno di
vita, il mio senso del sé sonoro nel provare e risentire più volte un
qualche incipit musicale era completato: ritmo, melodia e armonia erano entrati
nelle mie abitudini sonore. Molti anni dopo cominciai a provare a studiare:
qualche consiglio, qualche lezione poi sempre di più, poi il flauto traverso e
il sassofono e … l'esame di solfeggio! Il punto esclamativo è riferito alla
prima relazione che ebbi con “San Pietro a Majella”: il blasonato Conservatorio
di Napoli. Anzi "Il" Conservatorio: nella prima metà del Cinquecento erano quattro,
nei quali si sviluppò un'arte musicale apprezzata in tutta l'Europa, e nella
Storia.
“All'inizio, nel tali istituzioni nacquero con il pio intento di
raccogliere dalla strada bambini orfani, abbandonati, di ospitarli in collegi
retti dalla pubblica carità, e di dar loro un'educazione finalizzata a una
occupazione come artigiani. Pur tuttavia tali allievi, detti figlioli, venivano
anche istruiti nel canto, collegato alle funzioni religiose della cappella cui
s'intitolava il Conservatorio; poi, man mano, l'attività musicale divenne
quella principale, e si sviluppò in modo professionale” (Roberto De Simone
“La scuola musicale Napoletana e i suoi quattro Conservatori”).
Dobbiamo alle
esigenze dei bambini la nobiltà della nostra storia artistica e musicale
apprezzata in tutto il mondo. Era lì che avrei conseguito il primo titolo
musicale della mia vita! Nell'entrare in quelle mura che trasudavano suoni
immaginifici di tutta la storia musicale europea mi sentii come un pollo di
allevamento, dato il numero sterminato di candidati, ma orgoglioso. Quando la
commissione d'esame mi costrinse a produrmi in una lettura verbale di
presupposti suoni a ritmo vertiginoso e gestualità vigorosa feci la mia
“sufficiente” figura e andai via confuso col mio sei. Immaginate di dover
declamare “correttamente” quanto scritto su un foglio senza capirne il senso in
una lingua sconosciuta studiata per più di un anno. La musica che, dicevo,
trasudava da quelle mura si era prosciugata in quel foglio, e non ne aveva
lasciato traccia. Ai bambini non si può mentire: la musica deve avere un suono.
Gli adulti possono vivere di gravi dimenticanze nella istituzione di metodologie
che sono inutili e perpetuate perché subite, come una vendetta, e divenute
sterili nel tempo perché prive di un reale rapporto col presente, ma il
“leggere la musica” privata della sua essenza musicale non ha senso anche per
gli adulti. Lo studio della musica, a qualsiasi età ed epoca, deve
rappresentare la ricerca del suono e del relativo significato. È questa la
“magia” della musica!
“La forza magica della musica è fondata sulla priorità
del suono nel cosmo. “Il cantore suonava l'arpa dinanzi al re ed entrambi
divennero una cosa sola”. La musica congiunge perché porta a consuonare tutto
ciò che è in grado di vibrare, ho almeno lo fa oscillare. Al lettore moderno
questi pensieri possono sembrare giochi letterari, eppure si tratta di una
realtà irrefutabile. Chi scrive non è il solo ad aver visto con i propri occhi
come scorpioni, serpenti e anche uomini siano immobilizzati e resi rigidi in
virtù di certi sillabe o note di flauto, fino al momento in cui li si "disincanti". La potenza del suono vibrante sembra però limitarsi a
ciò che è suscettibile di vibrare, e poiché questa facoltà è stata smarrita
dall'uomo moderno in misura spaventosa, egli si trova comprensibilmente al
cospetto di tali cose in uno stato di incredulità o di smarrimento”. (La Magia
da “Il significato della Musica” Marius Schneider)
Circa 40 anni fa cominciai
ad insegnare, perché non ho smesso mai di farlo? In realtà, come già detto,
cominciai prima, e mio fratello, in tempi non sospetti, fu la prima “vittima”
consenziente della mia presupponenza, ma poi...
Educare è un modo estremamente
impegnativo di capire chi siamo: un processo strutturato su rapporto molteplice
e sempre biunivoco. È un incontro privilegiato perché scelto, quindi senza
alibi, tra chi insegna e chi impara; e di consapevolezza che chi insegna impara
sempre mentre lo sta facendo. Sussiste in una relazione umana dettata fortemente
da un motivo interiore che ci ha spinto a farlo. È quel processo
dell'esistenza, che, specialmente quando si ha a che fare con bambini, ci
costringe a chiederci chi siamo e come siamo, e come ci siamo comportati, e se “siamo stati bravi oggi”! Non siamo costretti ma, se vogliamo essere onesti e
veri portatori di valori, ovvero educatori, abbiamo bisogno di una
autovalutazione emotiva per capire come il tempo abbia lavorato dentro di
ognuno di noi insegnanti. In quale realtà stiamo esercitando questa
professione. Qual è il mondo nel quale stiamo operando; per sapere sempre
quello che li aspetterà fuori da questa scuola. La nostra realtà detta
"globalizzata" niente a che vedere con quella responsabile verso
l'infanzia che era compito collettivo del "villaggio", come era
sempre stato nelle società del passato. Il nostro "villaggio globale"
fatto di produzione di mercato e pubblicità, entrato negli equilibri del
quotidiano della nostra esistenza, e in quella dei bambini, è parte ormai anche
nel linguaggio affettivo e psichico del nostro quotidiano. Tutto questo
colpisce soprattutto le persone in formazione, i più sensibili e deboli perché
in divenire. Allora, forse, la risposta a perché non hai smesso mai di farlo è
nel tuo tentativo di provare a recuperare qualcosa che della musica che ti
circonda si è perso, e torna come vecchio codice di relazione umana, come una
eco lontana che ti torna indietro da ogni bambino al quale insegni, e che vedi
trasformarsi in qualcos'altro rinnovato, vivo ed entusiasmante perché sempre
diverso. È per questo che come insegnanti "dobbiamo" ai bambini una
lezione che viene da molto lontano come una eco persistente, rassicurante,
difficilmente individuabile nel chiasso della nostra civiltà. Quest'eco e
quella voce lontana che viene da remoto passato e che si dice che si è perso
tanto e, per questo, tanto va ricordato. Ci dice che esiste un produttivo senso
comune, anche legato alla musica, che va alimentato e conservato per donare
valori sani nella crescita; sono l'immagine del nonno, della zia, dei
"grandi"; le figure di riferimento di una civiltà sana e diretta;
sono i giochi ripetuti con attiva partecipazione, rituali laici di sana
relazione affettiva; sono le storie le melodie e le occasioni create per
raccontarle cantarle, tra persone di varie generazioni; che lo fanno ricordando
quando li ascoltarono la prima volta. E di nenie sacre perché "usate"
mille volte e che mille volte hanno rassicurato e fosse strutturato identità e
dato una collocazione nel mondo e dentro di sé creando uno spazio sufficiente a
contenere ansie e speranze. Sono quelle cose che quando pensiamo che in troppe
civiltà "evolute" non esistono più, ne proviamo una punta di
nostalgia come “l'ovo sodo dentro, che non va né in su né in giù” del film di
Virzì. È una eco semplice sempre più flebile e che non si può registrare
digitalmente come lo stato della nostra anima, e quando lo si fatto è rimasto
lì con me tutta la musica che abbiamo scaricato: quella che non ascoltiamo su
YouTube, "tanto è lì".
È difficile da accettare e difficile, da educatore,
ammettere che tanto si è perso. Verrebbe voglia di dire: "fate presto: una
eco flebile, lontano c'è ancora". Intanto importante è amplificare quelle
che ancora abbiamo dentro di noi e continuare a coltivare l'arte del narrare
col suono giusto, del cantare del suonare, se possiamo, del ripetere e
ritualizzare, di regolamentare del comparare i significati in linguaggi diversi
attraverso sinestesie di senso. Importante è amare quello che si insegna perché
se con i bambini possiamo passarla franca con qualche piccola bugia, la verità
di quello che siamo sarà lì in quella eco che risuonerà in quel bambino tutta
la vita. Cercare il Nuovo Mondo, scoprire l’inaudito, è stata quella spinta,
quell’insopprimibile desiderio di andare oltre il conosciuto. L’umanità ha
trovato tanto attraverso questo atteggiamento e continua a cercare l’ulteriore
con lo stesso spirito con cui un bambino si affaccia al mondo, nuovo, per chi è
appena nato. Un mondo pieno di meraviglie e di relazioni con l’altro da sé, con
il diverso che rappresenta sempre un arricchimento come lo fu per Colombo, per
Neil Armstrong sulla luna come lo è per ogni bambino che nasce e che è il
continuo promemoria di una semplice scoperta: un mondo migliore. Sono
consapevole che queste idee potranno incontrare una relativa indifferenza, o un
interesse puramente intellettuale. Che questa indifferenza debba manifestarsi,
in primo luogo tra il popolo delle discoteche e quello dei disk jockey, è
evidente, poiché una concezione antica, quindi non moderna, impegnativa e poco
vendibile, per quanto motivata essa sia generalmente si afferma non tanto in
forza delle sue prove e più o meno scientifiche, quanto in base al grado di
ricettività che essa incontra nel pensiero e nel modo di ascoltare e "sentire"
di una data epoca. Ma lo stesso, e non è consolante, sta avvenendo nel modo di
"sentire" il problema dei cambiamenti climatici; e allora perché i genitori,
riguardo al futuro dei loro bambini, dovrebbero spingerli alla sensibilità verso
una musica che loro non ascoltano più, se al loro futuro biologico non trovano
difesa?
Maria Montessori, con le sue felici intuizioni, è stata l’avanguardia
di un manifesto culturale che oggi può apparire, alla nostra civiltà distratta,
fuori del tempo. Il nostro tempo che ha “rottamato” l’esperienza, il pensiero e
l’ascolto meditato del silenzio. Verrebbe da dire, ancora una volta, che serve
una svolta culturale. Intanto il sottoscritto, in odore di smobilitazione, e
cercando di invecchiare dignitosamente, continuerà ad ascoltare, cantare, e a
“giocare” la musica con tutti i bambini di tutte le età; anche quelli a me
coetanei Alla TV assisto al “solito” telegiornale, guardo gli occhi persi di un
gruppo di extracomunitari appena sbarcati. Ho tolto il volume per evitare
l'annoiata abitudine di sentire gli stessi commenti e le frasi legate a questo
evento ormai ciclico. E mi viene da chiedermi cosa avrebbero da raccontare
quelle bocche: racconti di un altro mondo al “contrario”, di persone che non
vengono per scoprire, per conoscere, ma per fuggire e cercare una vita
dignitosa. Chissà con che suoni vocali esprimerebbero il loro blues, con quali
nenie addormentano i bambini che tengono tra le braccia, quale musica inaudita
accompagna le loro menti, i loro desideri. Una serie di “esploratori forzati”
che per pura sopravvivenza si trasformeranno, ma che racchiudono valori che
sono uguali nelle esigenze, ma diversi nella loro espressione. Quegli occhi che
riempiono l’assordante silenzio della loro “meraviglia” ma che,
inevitabilmente, verrà assorbita nel nostro, per loro nuovo, mondo.
“Evitare i
conflitti è opera della politica: costruire la pace è opera dell’educazione" (Maria Montessori).
Enzo Nini