Opera Montagna Sainte Victoire, di Paul Cézanne
Per la rubrica Past metaphor
Hegel e la montagna
di Lucio Macchia.
Nel mio post precedente andavo parlando dello "strappo" tra il concetto e le cose, di come il concetto sovrascriva il mondo, lo surcodifichi, al punto tale che il mondo è perduto. Non vi è più mondo, solo rappresentazioni del mondo. Questo approccio nasce da Platone e si sviluppa via via fino all'apoteosi cartesiana del cogito e all'assolutizzazione hegeliana.
Un giovane Hegel, passeggiando tra i monti delle Alpi Bernesi scrive: Né l’occhio, né l’immaginazione su questi massi informi trovano un punto su cui quello possa sostare con piacere o quella possa trovare un’occupazione o uno spunto per il suo libero gioco. Solo il mineralogista trova materia per rischiare avventate congetture circa le rivoluzioni di queste montagne. La ragione nel pensiero della durata di queste montagne, o nel tipo di sublimità che si ascrive loro, non trova nulla che le si imponga e strappi stupore e meraviglia. La vista di questi massi eternamente morti a me non ha offerto altro che la monotona rappresentazione, alla lunga noiosa, del: è così.
Il mondo è definitivamente ridotto a ciò che è di fronte ovvero, etimologicamente a un oggetto (ob-jectum, posto innanzi) che non ha alcun interesse se non in rapporto alle operazioni concettuali dell'uomo. Le montagne di Hegel non hanno "senso" né un rapporto diretto con l'individuo che le attraversa. Potrebbero interessare il mineralogista che opera la sua riduzione scientifica. Per il resto sono solo una stolida massa che "è così". Il concetto è elevato a sostituto totale del mondo. Esiste solo la rappresentazione. Non c'è nulla di "reale" (e fa capolino Lacan...). L’immanenza, in quanto resistente al concetto, appare banale, vuota, priva di interesse.
Eppure un secolo dopo queste parole, Cézanne dipingeva il suo mont Sainte-Victoire, cercava il rapporto con quella che Merleau-Ponty (che tanto ha studiato Cézanne) definisce la carne del mondo. Carne di fronte alla carne. Emerge tutta un'altra visione dello stare al mondo, in cui l’interiorità dello spettatore è cavità che accoglie il mondo, è ripiegamento del mondo stesso all’interno del soggetto che non è scisso da esso, non è spettatore di fronte a oggetti ma è chiasma col mondo, intreccio indissolubile.
L’esperienza del mondo è quella di questo intreccio. Dire quest’esperienza, cercare il linguaggio per esprimerla, è l’impossibile via dell’artista: il paesaggio si pensa in me e io ne sono la coscienza (Cézanne).
Lucio Macchia