venerdì 21 febbraio 2025

Trappole della scrittura poetica, di Lucio Macchia.

 
Immagine: Opere di Rothko e Giotto in una foto combinata tratta dal sito khi.fi.it (Kunsthistorisches Institut in Florenz)



Trappole della scrittura poetica, di Lucio Macchia.

I tre famosi registri lacaniani, del simbolico, immaginario e reale, offrono – in una interpretazione molto libera – lo spunto per una rapida riflessione sulle trappole della scrittura poetica.

Certamente il poetico è inscritto eminentemente nel simbolico, perché attiene al linguaggio, al gesto del dire, col suo connotato rappresentativo e intersoggettivo. Ma l’ambizione del poetico è di oltrepassare il simbolico dall’interno del simbolico stesso, bucarlo e giungere al reale, alla “vita in sé” a ciò che è oltre la rappresentazione ma a cui si tenta, con l’azione poetica, di alludere (non alla realtà ma al reale: la realtà è già rappresentazione, è già finzione). Ecco allora che una prima trappola della scrittura poetica è quella di rimanere invischiata nel simbolico, tra le maglie delle rappresentazioni poste come sostitute al reale, a distanza dal reale. Emerge allora una scrittura didascalica, che non è altro che concetto articolato in modo linguisticamente sofisticato. Una scrittura “rendibile in prosa”, che non presenta quel nucleo di irriducibilità assoluta che caratterizza la lirica ustionata dal contatto con il reale della vita. Una poesia pervasa dal logos, dalla dialettica, persino dall’opinione. Non che logos non ci debba essere, nella forma del dominio formale (pensiamo agli insegnamenti di Eliot e Valéry) ma deve essere, come dice Zambrano, un “logos poetico” capace di calarsi e confondersi con la vita. A volte – poi – il simbolico può essere ipnotizzante: scrutare talmente nel segno da perdersi nel segno, da cedere alla sua metonimica proliferazione. Una temperie sperimentalistica e di rottura avanguardistica che, a partire dall’ultimo Mallarmé, attraversa il campo poetico e gioca un ruolo importante, ma che si espone anche, inevitabilmente, al rischio della flessione intellettualistica del gesto artistico, e in definitiva alla sua sterilità.

La dimensione dell’immaginario, quella del narcisismo, dell’auto-rappresentazione, è anch’essa connaturata all’agire artistico, che è inevitabilmente radicato nella riflessione su se stessi. Però, anche qui, vi è il rischio di invischiarsi in questo registro andando verso una scrittura che viene lasciata sgorgare. La tentazione del “lasciar sgorgare” è onnipresente nella scrittura artistica, e nella poesia si presenta di continuo. Il rischio è l’eccesso di vibrazioni sentimentali, il domino della precaria ontologia delle emozioni ordinarie, distese sul foglio con un insufficiente controllo formale del tessuto testuale. Ne possono derivare una scrittura sentimentalistica, che illude di essere presso la vita ma spesso ne è un simulacro, una finzione scenica. Oppure uno stile appannato, affastellamento di stati d’animo intradotti che si avvertono essenziali nel proprio io al momento della scrittura, ma che rischiano di generare partiture che sono vere e proprie insalate di parole. Tutt’altro è l’emozione poetica, la “sensazione di universo” di cui parla Valéry.

Al di là di tutte queste trappole, giace – incerta, fragile – la possibilità di una scrittura autentica che però – questo il prezzo da pagare – proprio per non aver ceduto sul reale, sarà inevitabilmente inscritta in una dimensione di impossibile. Minacciata a ogni passo, come la vita stessa, dall’abisso della perdita. Dalla brutalità dell’insensato.



Aldo Galeazzi, curatore della rubrica Voci, nel blog: 

"Caro Lucio sono totalmente d'accordo con la tua riflessione. Mi piace molto 
la sottolineatura dello scarto tra realtà e reale e anche l'atto di bucare 
il simbolico o di non vomitarsi addosso il proprio immaginario ego 
riferito. Grazie per la chiarezza e per i riferimenti che mi dai."