Immagine: Opere
di Rothko e Giotto in una foto combinata tratta dal sito khi.fi.it (Kunsthistorisches
Institut in Florenz)
Trappole della
scrittura poetica, di Lucio Macchia.
I tre famosi
registri lacaniani, del simbolico, immaginario e reale, offrono – in una
interpretazione molto libera – lo spunto per una rapida riflessione sulle
trappole della scrittura poetica.
Certamente
il poetico è inscritto eminentemente nel simbolico, perché attiene al
linguaggio, al gesto del dire, col suo connotato rappresentativo e
intersoggettivo. Ma l’ambizione del poetico è di oltrepassare il simbolico dall’interno
del simbolico stesso, bucarlo e giungere al reale, alla “vita in sé” a ciò che
è oltre la rappresentazione ma a cui si tenta, con l’azione poetica, di
alludere (non alla realtà ma al reale: la realtà è già rappresentazione, è già
finzione). Ecco allora che una prima trappola della scrittura poetica è quella
di rimanere invischiata nel simbolico, tra le maglie delle rappresentazioni poste
come sostitute al reale, a distanza dal reale. Emerge allora una scrittura
didascalica, che non è altro che concetto articolato in modo linguisticamente
sofisticato. Una scrittura “rendibile in prosa”, che non presenta quel nucleo
di irriducibilità assoluta che caratterizza la lirica ustionata dal contatto
con il reale della vita. Una poesia pervasa dal logos, dalla dialettica,
persino dall’opinione. Non che logos non ci debba essere, nella forma del dominio
formale (pensiamo agli insegnamenti di Eliot e Valéry) ma deve essere, come
dice Zambrano, un “logos poetico” capace di calarsi e confondersi con la vita.
A volte – poi – il simbolico può essere ipnotizzante: scrutare talmente nel
segno da perdersi nel segno, da cedere alla sua metonimica proliferazione. Una
temperie sperimentalistica e di rottura avanguardistica che, a partire
dall’ultimo Mallarmé, attraversa il campo poetico e gioca un ruolo importante,
ma che si espone anche, inevitabilmente, al rischio della flessione
intellettualistica del gesto artistico, e in definitiva alla sua sterilità.
La
dimensione dell’immaginario, quella del narcisismo, dell’auto-rappresentazione,
è anch’essa connaturata all’agire artistico, che è inevitabilmente radicato
nella riflessione su se stessi. Però, anche qui, vi è il rischio di
invischiarsi in questo registro andando verso una scrittura che viene lasciata
sgorgare. La tentazione del “lasciar sgorgare” è onnipresente nella scrittura
artistica, e nella poesia si presenta di continuo. Il rischio è l’eccesso di
vibrazioni sentimentali, il domino della precaria ontologia delle emozioni
ordinarie, distese sul foglio con un insufficiente controllo formale del
tessuto testuale. Ne possono derivare una scrittura sentimentalistica, che
illude di essere presso la vita ma spesso ne è un simulacro, una finzione
scenica. Oppure uno stile appannato, affastellamento di stati d’animo intradotti
che si avvertono essenziali nel proprio io al momento della scrittura, ma che
rischiano di generare partiture che sono vere e proprie insalate di parole.
Tutt’altro è l’emozione poetica, la “sensazione di universo” di cui parla
Valéry.
Al di là di
tutte queste trappole, giace – incerta, fragile – la possibilità di una
scrittura autentica che però – questo il prezzo da pagare – proprio per non
aver ceduto sul reale, sarà inevitabilmente inscritta in una dimensione di
impossibile. Minacciata a ogni passo, come la vita stessa, dall’abisso della
perdita. Dalla brutalità dell’insensato.
Aldo Galeazzi, curatore della rubrica Voci, nel blog:
"Caro Lucio sono totalmente d'accordo con la tua riflessione. Mi piace molto
la sottolineatura dello scarto tra realtà e reale e anche l'atto di bucare
il simbolico o di non vomitarsi addosso il proprio immaginario ego
riferito. Grazie per la chiarezza e per i riferimenti che mi dai."