Per la rubrica Voci, a cura di Aldo Galeazzi:
La pressione del capitale, di Aldo Galeazzi.
Le Cicale Operose (marchio e denominazione registrati) è stato un caffè letterario e poi un'associazione culturale, dal 2016 al 2024. Questo blog conserva la memoria dell'attività svolta in quegli anni ed ospita nuovi contenuti su temi culturali affini all’ethos delle Cicale Operose (vedi menu). Vi terrà inoltre aggiornati sulle attività per Beatrice Hastings.
Per la rubrica Voci, a cura di Aldo Galeazzi:
La pressione del capitale, di Aldo Galeazzi.
Per la rubrica Semiosfera in Interplay, a cura di Enzo Nini:
Semiosfera e Complessità: introduzione a un metodo jazzistico a tre dimensioni.
Definire le esperienze percettive è sempre difficile, io proverò a descrivere questa plurima possibilità, nonostante la sua apparente “complessità”.
Jurij Lotman ha chiamato SEMIOSFERA lo spazio nel quale i diversi sistemi di segni in una cultura, la lingua, l'arte, le scienze ecc., possono sussistere e generare nuove informazioni.
È un processo individuale che tutti conosciamo quando viaggiamo non solo come turisti , ma come facevano gli esploratori di una volta, immergendoci negli odori, nei suoni, nelle immagini, nell'area dei processi dinamici interrelazionali di un ambiente che cominciamo a conoscere, nel quale ci addentriamo e che complessivamente assorbiamo come esperienza di una determinata cultura.
È questo il caso in cui l'interazione avviene con dei fattori visivi, sonori, olfattivi che sinesteticamente noi viviamo attraverso i diversi linguaggi.
Un altro ambito in cui avviene questa percezione semiosferica è il sogno, il desiderio, l' amore.
Sono cose che “succedono” e che sono fortemente legate alla nostra psiche e alla nostra cultura.
Questo fin troppo lungo discorso è soltanto una premessa ad un'osservazione , a un metodo che può sembrare molto complesso; ma la realtà che ci circonda, anche quando ci appare familiare, è complessa. Quando vediamo una mela, la definiamo di colore rosso: da bambini la conosciamo così e quanto i bambini possono insegnarci sulle sinestesie espressive; quando vediamo il cielo lo definiamo più o meno azzurro; un bosco è verde e marrone; il mare è blu. Eppure se osserviamo davvero una mela da vicino, vediamo che le componenti visibili che ci fanno dire che la mela è rossa sono una falsa affermazione, perché in realtà è fatta di tanti altri colori. Così avviene col bosco, col mare col cielo: quanti verdi, quanti marroni, quanti colori fanno parte di quello che vediamo.
Lo sanno bene i pittori figurativi che prima dell’evento della fotografia cercavano di riprodurre con tecniche sempre più avanzate quello che vedevano.
Quindi quello che può sembrare complesso non è necessariamente “difficile” ma è solo composto da elementi percettibili che ne costituiscono la sua ricchezza e unicità estetica.
La “complessità” in tal senso, è quella dimensione che Edgar Morin, il grande filosofo vivente che da un bel po’ ha superato i 100 anni, ci invita a coltivare per capire davvero la realtà dei nostri tempi.
E quindi la complessità dell’Interplay può apparirci caotica come il centro di Napoli invaso dai turisti, ma se sappiamo muoverci nel modo giusto ne percepiremo i suoni e i colori come “unicum” dell’esperienza fatta.
L’Interplay è, nell’ambito della musica jazz, quel “viaggio” che intraprendono i musicisti dopo aver steso un tema convenuto verso l’avventura sonora che nessuno conosce fino alla sua realizzazione. Ci si ascolta reciprocamente mentre si esegue, comprendendo, nella sua esecuzione, gli stimoli e le provocazioni possibili.
L’Interplay è qualcosa di magico: immaginiamolo come sarebbe la comunicazione verbale umana se fossimo in grado di ascoltare mentre parliamo. Sarebbe un flusso verbale reciproco in cui la comunicazione è totale e quindi influenzata da quello che stiamo ascoltando e comprendendo(,) quindi producendo un dialogo sempre diverso e inimmaginato . Il dialogo infatti è inevitabilmente influenzato da quello che comprendiamo mentre esprimiamo l’inizio del nostro discorso precedentemente concordato quale tema dell’argomento. Importante e basilare è, quindi, saper ascoltare e comprendere per dialogare, contrastare o accompagnare coerentemente il discorso dell’altro.
L’Interplay è una sorta di palleggio di idee ascoltate ed espresse tra più persone, la cui reciproca e corretta comprensione permette un flusso coerente o in contrasto. Come una dialettica del linguaggio e dell’ascolto, che avviene nel tempo e sul tempo e nella mutua comprensione di un discorso non concordato.
Ognuno di noi ha un suo modo personale di ascoltare che si combina in modo maggiore o minore con quello di altri, esso dipende da vari fattori come la tradizione musicale a cui ci si riferisce; è comunque raro trovare due persone che ascoltino allo stesso modo la stessa musica. C’è chi ascolta conoscendo un repertorio più vasto di altri, chi riesce a selezionare culturalmente quello che sta ascoltando, chi si basa unicamente sulle proprie emozioni o su quelle prodotte dalla musica ascoltata. Nel caso del jazz noi stiamo parlando di una musica che è nata da una comunità e da una esigenza umana che definiamo prossimità e si è fatta comunità nel rapporto tra i musicisti e nel rapporto degli ascoltatori con i musicisti. In fondo quello che hanno in comune i musicisti e il pubblico è l’atteggiamento dell’ascolto: finalizzato e produttivo quello del musicista, fruitivo quello dell’ascoltatore, ma non è molto diversa l’attenzione con cui ci si comporta rispetto a un vero ascolto.
Ora immaginiamo lo stesso processo allargato alla parola: in tal senso noi quando dialoghiamo con altri improvvisiamo quello che diciamo, e, salvo che per parole che ci aspettiamo come un “pronto? ”, un “buongiorno!” o un “grazie” non sappiamo quello che ci verrà detto o che risponderemo in un dialogo: un Interplay appunto.
Durante un reading di solito il testo è determinato e la musica
agisce e danza intorno, ma immaginiamo che il lettore si comporti come il
musicista di jazz e modifichi il flusso sonoro delle parole sulle “provocazioni” musicali;
avremmo un reale Interplay a due dimensioni. Con l’arte figurativa avremmo un terzo performer che agisce
nel nostro Interplay. Non come quando il flusso sonoro tra parola e suoni
diventa una colonna sonora di tipo cinematografico, ma come “azione visiva”
estemporanea. Qui grazie all’elettronica,
le potenzialità visive possono interagire e variare quanto inizialmente
mostrato come tema, e l’ “azione visiva” diventa performativa e
interagente con gli altri linguaggi in tempo reale.
In altri termini i colori, e le forme elaborabili con un computer, le citazioni da “ritagli” di film o di altri riferimenti visibili evocheranno, mostreranno, agiranno sulla percezione visiva secondo lo stesso principio con cui abbiamo immaginato questo nuovo rapporto di derivazione jazzistica.
Un Interplay tridimensionale, quindi, di interazione come avviene per un quartetto di jazz, ma con possibilità di estetiche “tridimensionali” estemporanee.
Il discorso non finisce qui ma, come disse Frank Zappa, parlare di musica è come ballare di architettura per cui arrivederci alla prossima performance di jazz tridimensionale, di Semiosfera in Interplay.
Enzo Nini
Per chi volesse approfondire:
1. Ingrid Monson “Saying
Something, Jazz Improvisation and Interaction”
2. Jurij Mihajlovic Lotman “La semiosfera”
3. Edgar Morin “La sfida della complessità”
Per il ciclo Clandestine, grandi poete dimenticate, alle Cicale Operose: Claudia Ruggeri,
a cura di Maristella Diotaiuti; Letture:Aldo Galeazzi; Musica: Nico Gori (piano, clarinetto).
Volumi di Claudia Ruggeri pubblicati con Terra d'ulivi Edizioni grazie all'azione meritoria di Elio Scarciglia di recupero dei testi di questa grande poetessa.
Appunti di Maristella Diotaiuti (Le
Cicale Operose) per la presentazione dei volumi di Claudia Ruggeri.
Claudia Ruggeri e la sua poesia
oltrecanone.
La poesia di Claudia Ruggeri si colloca
in quella temperie culturale tra gli anni ‘80 e ‘90 del ‘900 in cui si andavano
esaurendo le ultime spinte avanguardiste del gruppo ‘63, e quindi si andava
verso una rinnovata spinta espressionista, e un diffuso simbolismo postmoderno
sul modello forte di Milo De Angelis.
Ma questa attualità poetica non ha avuto
una particolare influenza su Claudia Ruggeri-poeta così potentemente
autoreferenziale, così lontana da avvicinamenti o compromessi, certo era però
attenta a quanto accadesse intorno a sé. E anche la sua marginalità geografica,
il fatto di essere una intellettuale Salentina, lontana rispetto ai grossi
centri culturali ed editoriali, se l’ha esclusa da un immediato successo ha
fatto anche in modo che la sua ricerca poetica si svolgesse senza
condizionamenti.[…]
Claudia Ruggeri completa la sua prima
raccolta “Inferno minore” dedicando e inviando il dattiloscritto a Fortini,
accompagnandolo con la lettera del 1 marzo del 1990. Ma la risposta di Fortini
la deluse moltissimo […], e da quel momento in poi Claudia non si sentirà
capita né come persona né come poeta. Perché la poesia di Claudia Ruggeri è una
poesia oltrecanone, nel senso che si colloca al di fuori del canone letterario
da sempre declinato al maschile, nel senso che è una scrittura fortemente
connotata al femminile, soprattutto nel suo essere scrittura dell’eccesso:
eccessiva, ridondante, barocca, l’ha definita Fortini nella famosa lettera,
Fortini invitava Ruggeri ad asciugare la sua parola poetica. E’ la stroncatura
toccata in sorte a molte poete donne quali, ad esempio, Antonia Pozzi e
Goliarda Sapienza. Lo stesso appunto viene oggi fatto alla scrittura di
Beatrice Hastings, di essere ridondante.
In realtà la poesia di Ruggeri è una
indagine, drammatica, dolorosa, sulla natura enigmatica del linguaggio, la sua
inadeguatezza a descrivere la realtà, l’inconciliabilità tra significato e
significante. La confusione, il disordine comunicativo, l’accumulo, appaiono a
Ruggeri la soluzione più adatta per rappresentare il subbuglio della sua
interiorità, e per rispecchiare, più in generale, lo spaesamento vissuto dall’uomo
nella sua vita di ogni giorno. Ed è quindi una scrittura accumulativa,
ridondante, perché deve lacanianamente compensare il vuoto che Ruggeri avverte
come universale; la sua espressività proteiforme parte da una mancanza, da
un’assenza, un vuoto che è di tutti, ma del quale non tutti sono pienamente
consapevoli, solo il poeta, l’artista ne ha coscienza ed è suo compito
convocare con la parola questo vuoto e cercare di colmarlo.
Claudia ha inventato una nuova lingua
letteraria, un nuovo canone, come pochi sono riusciti nella sua generazione. Si
tratta una lingua poetica tesa fino allo spasimo, in cui la parola è sempre
fortemente stressata, aggredita con una forte esigenza di manipolazione (che
sfocia nel dominio) un linguaggio in cui le parole sono continuamente caricate
di sensi inediti e multipli. Claudia realizza un plurilinguismo e un
pluristilismo molto simile a quello dantesco, in cui trovano posto tutte le
letture, le conoscenze, i modelli di cui si è nutrita, un linguaggio svincolato
da ogni convenzione e apparentemente privo di coerenza sintattica. Un pastiche
linguistico fatto di incrinature, anche infrazioni, deformazioni lessicali,
parole trobadoriche, riferimenti colti e popolari, tradizione italiana,
orfismo, un simbolismo volutamente esasperato. E’ un linguaggio
provocatoriamente antilirico: perché per Claudia la poesia non deve accarezzare
il lettore, ma lo deve mettere in crisi, irritare, la poesia non deve mettere
ordine, ma scompigliare, non deve domare il caos ma crearlo, la poesia non può
essere accomodante, lenitiva, ma creare fratture, ferite, spaccature.
[...]
In quanto anarchica, la scrittura di
Claudia è un problema per il lettore ma lo è soprattutto per la critica, per
l’imperativo categorico che muove gli studiosi, gli esegeti, di catalogare,
dare un nome, racchiudere in un canone le varie scritture. Un’operazione questa
estremamente complessa, e a volte anche ingiusta, ma direi inopportuna se non
proprio sbagliata, come nel caso della poesia di Claudia che non si riesce né
si può né si deve collocare in un ambito, circoscrivere in una nozione ben
definita. Le parole poetiche di cui si serve sono quasi impossibili da tradurre
in un commento prosastico. Per cui ogni tentativo di lettura critica non può
che essere provvisorio e superficiale.
Claudia era dentro una disperata
vitalità (che bruciava la spazio tra i settenari e lo spazio bianco della
pagina), che disperatamente voleva affermare la bellezza della vita, la
bellezza persino della contraddizione, della fragilità, della indecisione. E
Claudia era una donna sospesa, oscillante, bloccata su una soglia labile, sul
confine. Non voleva rinunciare alla vita. ma era anche figlia di una terra
tellurica, quella terra che convive quotidianamente con la morte, ha un
rapporto speciale con le ombre, con dimensioni altre, e che ha generato la
Sibilla, discendeva cioè da frasi che non si lasciano immediatamente decifrare
ma che si ricompongono nell’animo di chi le coglie. Doveva parlare per
ambiguità, e così ha fatto, perché solo nell’ambiguità poteva aderire alla
totalità della creazione a cui aspirava, e in quell’ambiguità è rimasta
sospesa.
Pasquale Lenge:
Quarcarunë recë
nù mena, sëccata
a quarcarunatë venë
lu trëmulizzë, la mbosta!
Ciuccië pè jastmà
mulë pé fatëá
cavaddë pè camnà
pè passà la jumara
amici sincirë e carë
quà lu screvë
qui l'ho detto
invito faccio al poeta
Alfredo Panetta.
Pasquale Lenge (poeta Lucano, curatore della rubrica Torrenti):
"Si tratta di un invito ad attraversare il torrente; qualcuno afferma che è secco, altri, paurosi (trëmulizzë), che è in piena. Ognuno con i suoi mezzi simbolici: asini per bestemmiare, muli per lavorare, cavalli per viaggiare. Per guadare il torrente, amici sinceri e cari, poeti."
A FOLIA D’A CUCUGGHJIATA
Chiji chi si ndi jiru eranu
cristiiani nosthri. Ndi mancanu
i sò parrati, a caminata, i sònna.
A vita, bastarda! non rigala mà
na nticchjia ‘i tempu ‘i cchjiù.
Non nci spija ma’
com’è
a nu zuccu portatu d’a chjina
e mancu ò juncu vigliaccu
se ammata ò brisciri si prìcanta.
Nto nthramenti, iji e nui perduti
comu se u mundu fussi
sulu nto prisenti o d’i vivi.
Sarria nicessariu mu si mbattinu
ad unu ad unu, suli senza
specchjiu, menthri a non penzata
facianu pipì o l’amuri.
Tornari è jorna quandu
l’idea mu si dassa u Temphu
era l’urtima, sjancata, d’a lista.
E mbasciari ò hjiumi, zalari
‘n versu è hjiuri d’i bardani
scippari d’a rina na stroffa d’inula mbiscusa
jettari petrhi nt’è rivuleji
o tirarisilli ncoju. E jà
na bufficeja, jà n’agranciu
jà na belladonna… attenzioni!
D’a stroffa d’elicrisu si lurgi
‘n volu na cucugghjiata.
Nc’esti na folia bellissima
cu quatthru ova janchi a màcula
e ognunu ‘i nu, vivi e morti
tutti ngrugnati dinta.
IL NIDO D’ALLODOLA
Quelli che sono andati via
erano gente nostra. Ci mancano
le loro parlate, i passi, i sogni.
La vita, bastarda! non regala
mai un supplemento di tempo.
Non chiede mai com’è
a un tronco trascinato dalla piena
né al giunco codardo
se ancora si stupisce all’alba.
Intanto, loro e noi persi
come se il mondo fosse
solo nel presente o dei vivi.
Sarebbe necessario rivederli
ad uno ad uno, soli senza
specchio, mentre distratti
facevano pipì o l’amore.
Tornare ai giorni in cui
l’idea di lasciare il Tempo
era l’ultima, sbiadita, della lista.
E scendere al fiume, urlare
un verso ai fiori di bardane
cavare dalla rena l’inula viscosa
gettare sassi sui rigagnoli
o tirarseli addosso. E lì
un ranocchio, lì un granchio
lì una libellula e…attenti!
Dal cespo d’elicriso s’alza
in volo un’allodola di fiume.
C’è un nido bellissimo
con quattro uova bianche
chiazzate, e tutti noi, vivi
e morti, accovacciati dentro.
Note biografiche
Alfredo Panetta è nato nel
Le Cicale Operose ha avuto il piacere di ospitare Alfredo Panetta in occasione del Festival di poesia VOCI, II Edizione, dedicato alla poesia dialettale, invitando poeti di varie regioni d'Italia.
Sulla militanza politica di Beatrice Hastings.
Beatrice Hastings, donna fabianista e poi militante comunista, editrice,
giornalista, scrittrice, femminista libertaria, ha teorizzato un femminismo
d'avanguardia, moderno, ancora oggi attuale e dirompente.
Donna libera “dalla nascita”, ha voluto affermarsi con tutte le sue forze
in un mondo al maschile.
Il suo femminismo anarchico, prima di essere strategia normata di vita, è essenzialità di natura. Si esprime in un inesausto bisogno di libertà e di affermazione di sé. Per questo Beatrice è sempre contro, eversiva, dissenziente, dissonante, perciò avvertita come anomala, come violazione all’ordine costituito, finanche da alcune femministe contemporanee! Ed anticipa i più importanti punti nodali più avanti affrontati e teorizzati dal femminismo degli anni ’70.
Punta per tutta la vita, anche attraverso la sua scrittura originale e graffiante,
a smantellare l’architettura ideologica, economica e sociale del potere
capitalistico e patriarcale.
Per questo Beatrice Hastings è sempre al fianco di chi agisce concretamente per affermare e difendere la libertà di pensiero e di azione, i diritti primari degli individui e dei corpi sociali.
Conosce Emma Goldman a New York nel 1904-5 (Free Speech League), alla quale dedicherà, nel 1909, il suo saggio femminista "Woman's Worst Enemy: Woman". Grazie al lascito di Goldman abbiamo potuto rintracciare e raccogliere il prezioso allegato di Hastings alla rivista The New Age per la sua ripubblicazione.
Accoglie, nel suo giornale The Straight Thinker (1932), l’appello di Sylvia Pankhurst e del di lei compagno anarchico italiano Silvio Cori per salvare e liberare Velia Titta, la quale, dopo l’assassinio del marito, Giacomo Matteotti, è strettamente sorvegliata dai fascisti di Mussolini.
Nel 1932 si iscrive al Partito Comunista (Communist Party of Great Britain) e partecipa, il 4 ottobre 1936, alla Battaglia di Cable street, manifestando, insieme ai suoi compagni anarchici (tra i quali l’amico e editore Charles Lahr) e comunisti, contro la parata provocatoria dei fascisti di Mosley nel quartiere popolare di White Chapel.
[…]
Voce dissonante, quindi inascoltata e solitaria, è rimasta fedele alle sue idee
nell’intero arco della sua vita.
Muore suicida, per le atroci sofferenze dovute a un cancro in fase
terminale (referto autoptico: “organi interni devastati”), il 30 ottobre del
1943.
Federico Tortora
(nelle foto: Battaglia di Cable street; comizio di Emma Goldman a New York)
Le due
poesie sono tratte dal volume Una lucida disperazione, di Piera Oppezzo, a cura
di Luciano Martinengo e Giancarlo Majorino, Interlinea Edizioni, Novara, 2016.
Attorno mi circondano
Tengo
la porta chiusa con tutto il corpo
Perché
almeno oggi nessuno entri.
Ho qui
tutti questi conti da regolare
Con
l’orgoglio il tono di voce
La
lucidità il razionale l’irrazionale.
Non
posso farlo se attorno mi circondano
Qualche
volta magari indifferenti
La
loro vita completamente da un’altra parte.
Se
capitano
Cerco
subito di raggiungere il loro posto
Senza
allontanarmi dal mio
Perché
il mio è una sedia con lo schienale
Che
almeno mi tiene le spalle.
Così
li raggiungo sempre in bilico
Illudendomi
per un po’
Di non
avere problemi di equilibrio.
Continuo
a fantasticarci su
Anche
quando sono ormai distesa dalla loro parte
E mi
dico che era questo che volevo.
Ma
quando sono lì distesa
E mi
sento chiedere sempre di più
E
sorrido e regalo con entusiasmo
Scopro
che quelli si stanno gustando il superfluo
Mentre
io mi svuoto dell’essenziale.
Gente che aspetta e sospetta
Vivo
in una città
Di
finestre ben serrate
(qualcuna
ha anche i doppi vetri).
È una
città come tutte le altre
Per
questo mi sembra il centro del mondo
E
anche perché c’è chi i vetri li ha rotti
E sta
affacciato appoggiando i gomiti alle schegge,
indifferente
come un fachiro.
Si
tratta di curiosi insaziabili
Spaventati
all’idea di perdere una scena.
Gente
che aspetta e sospetta qualcosa,
non
sopporta i ritardi, impaziente,
ma che
non chiude mai con l’attesa.
Per
descrivere meglio dovrei dire
Che il
paesaggio è uniforme e tirato
Però
con delle crepe a sorpresa
Verso
cui io posso lanciare un segnale
O
salire e prendere posizione
O
semplicemente ridere e sparlare
Di
quelli che veloci abbassano la tendina,
quelli
che di fronte a qualunque evidenza
proprio
non vogliono esserci.
Maristella Diotaiuti: "Quella di Piera è una disperazione che non è ripiegata su se stessa ma si fa universale e investe il tempo e la vita di tutti. In questa chiave Piera Oppezzo si inserisce a pieno titolo nel solco di fine secolo, lì dove le grandi illusioni stanno tramontando, la comunità intesa come aggregato è finita, e il soggetto individuale assoluto fa il suo ingresso inarrestabile sul piano della storia.
Di questa realtà Oppezzo si fa lucida interprete, con uno sguardo affilato e abissale, quasi medico, autoptico che enuclea la solitudine degli individui, la loro inquietudine e la sua personale inconciliabilità con il mondo.
Guarda la realtà da una posizione di lucida disperazione, un continuo stato di allerta, uno stare con i nervi scoperti, che diventa postura privilegiata per meglio
leggere il mondo e le persone, penetrare la loro vera essenza, al di là degli infingimenti, dei mascheramenti, e delle sovrastrutture deformanti.
Piera è una creatura sola, che ricerca orgogliosamente la solitudine, in un atto volontaristico, decisionale, ma con la necessità spirituale dell’altro, che non trova appigli nella realtà sociale circostante, e che usa le parole come filtro a un mondo che non è capace a vivere e con le quali puntella il suo instabile equilibrio. Una non-felicità perseguita con accanimento, come fonte e molla di ispirazione.
Tutto questo lo vediamo chiaramente nella poesia attorno mi circondano e nella poesia gente che aspetta e sospetta in cui la solitudine investe regioni al di là dell’anima individuale."
Opera Lo strappo, di Alberto Burri
Lo strappo, di Lucio Macchia.
L'Eden perduto è il mito fondativo dell'occidente. Ma l'Eden non è un altro mondo, ma è questo mondo come mondo della vita, “Lebenswelt” (come lo ha chiamato Husserl): perduto perché dimenticato. Perché si è smarrito lo sguardo su di esso. Il dio che ci ha scacciato da quell'Eden è un dio "umano troppo umano": è il logos. Alla radice del pensiero occidentale c'è la scelta di sostituire alle cose le loro "rappresentazioni". Dall'idea platonica tutto ha proceduto in tal senso, speditamente, fino a Cartesio, Kant, Hegel. La ragione ha preso possesso del mondo, con l'indubbio dominio tecno-scientifico che ne è conseguito. In questo processo l'Eden è stato perduto: il logos ha impresso un taglio nel rapporto tra uomo e mondo, lo ha disincantato, concettualizzato, fino a dominare e irretire la vita stessa in quanto spontaneità, in quanto inassimilabile dal pensiero. Schopenhauer per primo si è fatto carico – in ambito filosofico – di questa tremenda scissione: Schopenhauer installa come categoria centrale del soggetto il voler vivere [...] constata la scissione tra rappresentazione e reale senza rappresentazione. È un reale apparentato con il voler vivere dato che, per lui, la volontà corrisponde a quello che Kant chiamava la “cosa in sé” (Miller, L’uno-tutto-solo). Il mondo si presenta insanabilmente diviso tra rappresentazione e volontà, con quest'ultima che sfugge a ogni rappresentazione, inaugurando una modalità di pensiero filosofico completamente diversa che tenta, attraverso movimenti "impossibili", di pensare l'impensabile, di oltrepassare lo schermo concettuale, guardando all’orizzonte del reale che elude la presa del pensiero. Che è, eminentemente, l'operazione tentata – per altra via – dal poeta che, come dice splendidamente Zambrano in Filosofia e Poesia, reagisce allo strappo della rappresentazione, insiste sul pulsare primigenio della forza vitale: Alcuni di quelli che hanno sentito la loro vita sospesa, la loro vita irretita dalla foglia o dall’acqua, non hanno potuto passare al momento successivo in cui la violenza interiore fa chiudere gli occhi cercando altre foglie o altra acqua più vere. Il poeta, detto in termini immediati, si rivolta all’installazione di dispositivi che disciplinano la vita entro le strutture concettuali, in un gesto di ritorno all’incanto. A ciò che manca. A ciò che è perduto.
Pasquale Lenge:
“Torint, torente, turéntì, fos, fiumane, fiumiciedde, hjiumareja, ciumara, yumara e altri mille modi di descrivere un corso d'acqua. Dal flusso variabile con alternanza di piena e portata limitata o nulla: o della poesia dialettale.”
Pasquale Lenge è un senza fissa dimora mentale. Nato in montagna a Calvello nel 1972. Vive tra l' Alta Val di Merse nel senese e il paesello d'origine, in Lucania. Sue esercitazioni poetiche sono apparse in blog e riviste, sia in lingua che in dialetto. Coltiva l'illusione che, seppur senza mandato, si può rifondare la poesia nel mondo contemporaneo compromesso nelle fondamenta.
Aldo Galeazzi: La rubrica Voci, a cura di Aldo Galeazzi, cercherà di intercettare quelle ecolalie, quei frammenti di discorso poetico (e non) che vagano nell’orizzonte letterario, nel turbinio delle parole. Voci conosciute e assoluti outsiders si alterneranno nelle registrazioni che verranno proposte, senza un ordine preciso, senza una cadenza determinata, a condire il pasto nudo servito sulla tavola del nostro nuovo inconscio collettivo.
Aldo Galeazzi, poeta, attore.
Pigro ricercatore di verità smarrite,
smozzicate, lette a voce alta.
Animo semplice, tiene il contegno
dell'incontenibile, per adattarsi a non avere l'occhio contaminato dai fatti;
siede tranquillo fuori dal bar per assecondare l'idea di tutti gli altri della
sua mansuetudine, della loro possibilità di ignorarlo.
Celebra il rito di divozione al Dio
Cannibale che è,
leccando via la schiuma del cappuccino
dai baffi.
E sorride beota beato.
Enzo Nini: Un dato FONDAMENTALE del jazz, per il quale si
distingue dalle altre forme musicali, è il concetto di INTERPLAY: cioè la capacità di suonare e ascoltarsi reciprocamente
durante l’esecuzione.
L’improvvisazione rappresenta un elemento
primigenio di tutti i generi musicali ed anche nell’ambito della musica
classica, dove la musica intesa musica colta in quanto scritta in realtà era
stata composta da musicisti che erano grandi improvvisatori: Bach, Paganini (che, appunto, non … ripeteva), Mozart erano “improvvisatori”: arrivano alla
trascrizione delle loro opere per “fissare” l’opera permettendo l’altrui
esecuzione. Quindi non è elemento esclusivo del jazz l’improvvisazione, ma è appunto Il cosiddetto
Interplay. Nel linguaggio parlato non è possibile praticarlo: o ascoltiamo o
parliamo dialogando con altri.
Nel jazz dopo l’esecuzione del tema
tradizionalmente comincia “l’avventura”:
si esegue il tema, comunemente, e poi si seguirà quanto gli stessi esecutori
non sanno cosa sarà se non nel momento dell’esecuzione stessa; a conclusione,
la ripetizione del tema è come se fosse un ritrovarsi sul terreno convenuto.
È probabile ragione di questa esigenza di comunicazione
tra linguaggi diversi quella che è immaginabile sia nata tra gli emigranti e le
popolazioni di colore provenienti dall’Africa, che non potendo dialogare nel
linguaggio parlato, perché profondamente
diverso, trovarono attraverso la musica i ritmi e quanto di emotivamente dentro
di loro significativo della loro cultura; potevano così realizzare una
possibilità comunicativa interagente.
Una esigenza culturale come bisogno di
prossimità, di appartenenza di chiedere
all’altro chi fosse e di ricerca della propria nuova identità.
L’Interplay rappresenta quindi una possibilità di
abbracciarsi, confrontarsi, dialogare e poter trovare un territorio emotivo,
attraverso lo swing, su cui poter creare nuove espressioni estemporanee.
Se all’organico musicale aggiungiamo una o più
voci recitanti e un “operatore creativo” le possibilità performative agiscono
in un interplay a tre dimensioni come altrettanti jazzmen: ognuno attraverso il
suo linguaggio generando quella che diventa:
SEMIOSFERA
IN INTERPLAY
Esso è quindi un “work” in continuo “progress”
che dalla SEMIOSFERA come intesa da Juri Lotman e dalla COMPLESSITÀ,
concetto felicemente espresso da Edgar
Morin, prende idee e metodo di relazione tra i linguaggi sonori e visuali.
È un percorso polilinguistico e sinestetico che diventa performativo attraverso l’estemporaneità jazzistica dove nulla è dato al caso e tutto è estemporaneo.
Enzo Nini: note
biografiche
Già docente di Sassofono Jazz presso il
conservatorio "L. Perosi" di Campobasso “U.Giordano” di Foggia, si è
occupato di didattica musicale per
l’infanzia presso la Sequoia/Scuola Bilingue/American Studies Centre di Napoli.
È Formatore musicale per l’ Associazione
Montessori di Napoli.
Ha suonato e registrato con numerosi artisti del
panorama jazzistico. Ha diretto la “Moody Orchestra” (2010 Foggia con Ellade
Bandini, Paolo Pallante e Valerio Zelli). Ha scritto musica per teatro come
“L’incanto muore senza lutti” (2003 Festival dei Popoli Mediterranei con
Roberto De Simone e Edoardo Sanguineti), “Cholera” (2003 di Roberto De Simone)
“Lucì-Voci
e volti dal faro” (2008 Premio del presidente Opera IMAIE). Si interessa sinesteticamente
del rapporto tra la musica e altri linguaggi artistici. Ha pubblicato a suo
nome i CD Quartieri Spagnoli (1990), Doppio Sogno Doppio (1997), Contrappunti in
Utopia (2002), Paths of Thought (2008), 8 Jazz Club (2010) e, indegnamente, il
libro di poesie Volendo Siamo Tutti Poeti (2008).
www.enzonini.it
www.myspace.com/enzonini