Vorrei, nel tracciare alcune isoipse
tra Paraìso (Arcipelago Itaca) e Dialoghi della sedia (Anterem
2023), partire dallo spazio, ovvero dall’idea di spazio che abita i due testi.
Quello di Paraìso è apparentemente uno spazio geografico
– Paraìso è anagramma di Parasio, quartiere storico di
Imperia, e ovviamente richiama per allusione grafica e fonica il Paradiso; non
a caso il testo – che porta come sottotitolo “Topografia del centro” –
s’incentra su un viaggiare, completo di accenni a una prima cerchia, una
seconda cerchia eccetera… su un peregrinare per una città dalle complesse
stratificazioni storiche e culturali, un passeggiare attraverso i secoli e le
loro incrostazioni urbane – che un po’ mi ha ricordato, mutatis
mutandis, gli strata della Dublino di Joyce, e il vagare
di Leopold Bloom. Fatto sta che il centro esplorato nel testo è un centro
composito, ovvero è un possibile punto di congiunzione tra io, mondo e pagina
in un interscambio continuo tra lo spazio della scrittura e lo spazio esterno
alla pagina, cioè quello del paesaggio osservato, intuito, evocato… dall’io
poetante. Afferma Lello Voce nella sua postfazione al libro (Voce il quale,
ricordiamolo, è un po’ il deus ex machina segreto di questo
incontro in quanto qualche mese fa ha scritto sul «Fatto Quotidiano» un
articolo in cui appaiava proprio Paraìso e Dialoghi
della sedia all’insegna di una comune rinuncia al verso in favore
della prosa, Serani e Giuliberti: la poesia non va a capo )
che al cuore del libro di Giuliberti vi è «un esperimento di
psicogeografia situazionista, pronto a mutarsi in ogni istante
in détournement, un’analisi degli effetti che il contesto
geografico ha sull’affettività di chi lo esperisce». Il centro è dunque il
punto in cui si incrociano e si centrano corpo, lingua (io) e mondo – ma in un
equilibrio instabile, mosso… perché c’è nel testo un rimescolamento continuo di
attribuzioni e funzioni, e quindi una riattribuzione, per esempio, della lingua
al mondo, che parla, interloquisce direttamente con l’osservatore, e quindi col
soggetto poetante, e di un corpo al mondo e alla lingua: «da fuori è tutto
schiena», «le muffe dispiegano le scapole», «ritmo circadiano della città»,
«tanta salsedine s’ostina a smentire» si legge nel testo. Questo equilibrio
instabile, questa osmosi, si reifica poi sulla pagina in anagrammi, in
paronomasie… ed ecco infine che il “locale” non è più categoria che appartenga
solo alla topografia, cioè, secondo la lettera etimologica, alla “scrittura del
luogo”, dunque all’ecfrasi del circostante, ma alla scrittura in toto,
alla parola, le cui microstrutture locali vengono esplorate e manipolate,
rimescolate. Per venire a sintesi, la “topografia” si fa in Giuliberti, mi
sembra, punto d’accesso metaletterario privilegiato e la conquista dello
spazio, del paesaggio, la sua descrizione, sono la conquista della lingua
stessa, e inevitabilmente dell’io e del corpo, da cui la scrittura, come
cristallizzazione proprio della lingua, muove anche in qualità di atto
performativo. Serve infatti un corpo, per scrivere.
E qui intravedo una profonda consonanza
tra il testo di Laura e il mio, in cui c’ è forse un’analoga volontà di
esplorazione dello spazio, che è principalmente spazio del corpo e attorno al
corpo; Luigi Severi, a proposito dei Dialoghi della sedia, ha
parlato di “ecfrasi” – cioè, di descrizioni di azioni performative. Se nel caso
del testo di Laura la descrizione, l’ecfrasi è soprattutto rivolta al
paesaggio, nel caso dei Dialoghi il paesaggio è semmai quello
del corpo e della gestualità. Mi sovviene una frase –che al momento fatico ad
attribuire, per mancanza di memoria, al suo autore o autrice – e che mi pare
azzeccata per introdurre il mio testo: «Il mondo è un gesto il cui archetipo è
l’occupazione dello spazio». E di nuovo, dunque, siamo alle prese con una
spazialità, che in questo caso è quella di un corpo femminile che viene
esplorato, attraversato e descritto, ma con una presa di distanza rispetto al
corpo stesso, un po’ come nel caso degli scorci del testo di Laura, in cui l’io
poetante è ora fuori dal quadro ora dentro il quadro; vi è infatti nei Dialoghi una
estrinsecazione dell’io che da soggetto diventa oggetto di osservazione, si
reifica, si oggettivizza appunto, mettendosi in scena attraverso la
performatività fisica, e quindi non attraverso la diretta analisi psicologica
delle emozioni ma la loro dissezione quasi chirurgica per come si manifestano
nel gesto. «Ciò che noi leggiamo è sostanzialmente il referto di quest’io che
scrive guardandosi agire, senza reclamare alcun senso a ciò che fa.
Semplicemente refertandolo», scriveva Voce sui Dialoghi, evocando a
ragione un io poetico che è quasi un anatomo-patologo. Nei Dialoghi l’anatomia
è allora forse l’equivalente della topografia in Paraìso, la sua
lente diffrattiva, perché il corpo viene letto come un campo istituito da
molteplici forze, simultaneamente materiali e simboliche (che sono un po’ il
corrispondente di quelle stratificazioni storico-culturali di cui si diceva
proprio a proposito degli scenari di Paraìso), e si rivela, l’anatomia,
anche come un principio di organizzazione e ortopedia politica: il corpo, i
corpi, vengono architettati, costruiti in base al loro contesto storico,
proprio come fossero un paesaggio urbano. Gesti e oggetti, moltissimi oggetti,
si muovono nei Dialoghi, e a questo proposito vorrei leggere
un’avvertenza che si trova però in apertura di Paraìso: «ci piace
pensare […] che solo in un’estroflessione dell’anima e nell’inflessione di ogni
oggetto che la circonda, si dia qualcosa come il trovarsi». Una frase che mi
pare adattarsi con miracolosa perfezione anche e proprio ai Dialoghi,
in quel gioco continuo di proiezioni e interazioni tra io e gli oggetti del suo
quotidiano.
Circa la similarità formale dei due
testi, scriveva ancora Voce: «Due opere che fanno a meno del verso, due libri
insomma che mi hanno confermato nella mia convinzione che la poesia, prima che
stile, lessico (letterario) e, soprattutto, verso stia tutta nella
sintassi. Che si vada a capo, o meno, poco conta.» Entrambi i
nostri libri ricorrono prevalentemente alla prosa, anche se ci sono porzioni
più o meno residue di verso, la cui presenza in qualche modo aleggia e poi si
concretizza, soprattutto nel testo di Laura. La forma prevalente in entrambi i
libri è comunque quella della lassa, direi, del blocco in prosa, che nel caso
di Paraìso si conclude talvolta con un richiamo alla poesia,
uno o più versi isolati che sembrano staccarsi dalla lassa stessa come in una
specie di decantazione; e del resto nel libro di Laura c’è anche qualche breve testo
in versi. Nel caso di Dialoghi le lasse sono seguite da blocchi di
altre voci che si presentificano nel libro dalle fonti più varie (internet, la
Bibbia, testi poetici, filosofici…) e che reagiscono con le parti precedenti
per via di relazione, irrelazione, analogia, commento, problematizzazione;
inoltre compaiono una filastrocca e un testo conclusivo in versi. Naturalmente
questa rinuncia preponderante al verso s’inserisce in uno scenario post-poetico
di ricerca lontano dalla tradizione e dalla parola verticale, dall’a capo.
Eppure, la lingua di Laura è una lingua che mantiene intatti molti crismi del
dire poetico (brevità, densità, incandescenza), e persino del dire lirico: se
infatti elemento imprescindibile della lirica è la centralità dell’io, il testo
di Laura dimostra come si possa scrivere una poesia dell’io senza dire “io”.
Gli effetti dell’osservazione del paesaggio sull’emotività della voce poetante,
la psicogeografia, diceva Voce, sono qui ciò che conta: di nuovo la topografia
appare non più solo come griglia metaletteraria ma come medium per
“parlare” del soggetto, del sé e della sua percezione, persino propriocezione.
Nel caso dei Dialoghi il corpo e le sue azioni ludico-sadiche
servono in realtà a mettere in scena psicodrammi interiori ma, di nuovo, senza
la necessità di dire “io”, o di utilizzare la terza persona, come fanno oggi
molti autori che vogliono evitare l’usurata, inflazionata prima persona
poetica. Dunque a me pare che entrambi i due libri infilino una certa
originalità, in particolare perché generalmente quando si utilizza la prosa,
soprattutto nella cosiddetta “scrittura di ricerca”, si tratta perlopiù di una
prosa fredda, o raffreddata, attraverso le modalità dell’informativo,
dell’espositivo, dell’installativo (come sacrosanti modi avversi a una “Poesia”
monumentalizzata che appare ormai stantia, incapace di rinnovarsi), mentre in
questo caso siamo in presenza di una prosa indirettamente “emotiva”, in cui la
rinuncia al verso non coincide totalmente con la rinuncia a dire di sé seppur
in maniera, appunto, mediata.
Link all'articolo di Lello Voce ne Il Fatto Quotidiano citato da Chiara Serani:
https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/01/16/duetti-20-serani-e-giuliberti-la-poesia-non-va-a-capo/7837042/?fbclid=IwY2xjawOI8KBleHRuA2FlbQIxMABicmlkETFYeXh5VVpiclM0cmcxSjdEc3J0YwZhcHBfaWQQMjIyMDM5MTc4ODIwMDg5MgABHvaOiPMlPqDnEY9u6p_IgnSygBdmMxsKlmnvR3WzWc8EyCEsA4q1JvvTplQI_aem_gouGSprtB-SO0YzyOPTUDA
Le Cicale Operose è molto orgogliosa e felice nel ricordare che il primo incontro tra Chiara Serani e Lello Voce, più volte citato nell'articolo, avvenne grazie al Festival VOCI (settembre 2024), ideato e a cura de Le Cicale Operose, in cui scegliemmo Chiara Serani per dialogare con Lello Voce, consapevoli della sua bravura e competenza, infatti Lello Voce, non conoscendo l'autrice, rimase piacevolmente sorpreso dalla preparazione e dalla profondità di sguardo della relatrice nell'introdurre la sua opera, Razos, La nave di Teseo, 2022.
Video di un frammento della presentazione di Lello Voce a Le Cicale Operose:





