mercoledì 16 luglio 2025

Nota di lettura di Rita Ciatti al volume "Le mucche se non le mungi esplodono (di gioia)", di Teodora Mastrototaro, Marco Saya Editore, 2025

 











Nota di lettura di Rita Ciatti al volume Le mucche se non le mungi esplodono (di gioia), di Teodora Mastrototaro, Marco Saya Editore, 2025 (collana Graffiature)

https://www.marcosayaedizioni.net/graffiature


Le mucche se non le mungi esplodono (di gioia), della poeta e drammaturga Teodora Mastrototaro, pubblicato da Marco Saya, editore di rara sensibilità, è, come dice il sottotitolo, un inventario della crudeltà sugli animali che raccoglie fatti di cronaca - straordinari verrebbe da dire, in realtà ordinari nel loro susseguirsi con indifferenza agli occhi del mondo - in cui individui appartenenti ad altre specie hanno perso la vita per mano di un’umanità che si diletta per noia, vendetta, goliardia, puro sadismo, incapace di riconoscere la sofferenza dell’altro, resa miope dall’abitudine, dall’empatia mutilata sul nascere.

I versi di Teodora che rievocano il fatto - dapprima sintetizzato in prosa -, brevissimi, hanno sicuramente l’intenzione di consegnare alla nostra memoria l’esistenza di questi individui cui è stata brutalmente sottratta la vita, ma soprattutto, credo, quella di restituire loro il valore che la nostra società, tramite dispositivi di alienazione, anche semantica, gli sottrae sistematicamente.

Gli animali morti sulle strade durante il trasporto al mattatoio per un attimo escono allo scoperto, due volte vittime, in quanto considerati risorse rinnovabili, fatti nascere per diventare prodotti e in quanto individui che hanno perso la vita o che sono rimasti feriti nell’incidente lungo il tragitto. Nessuna ambulanza e soccorsi per loro, solo una morte ancora più prematura rispetto alla solita. Che sia la lama di un coltello o un colpo in fronte la loro vita è segnata:


Al bordo della strada

in vendita la carne…

il fuoco non per riscaldarsi

ma per cuocersi. Le auto lente in fila

gli chiedono quanto si prenda

al kilo.


O ancora:


La distanza tra il cielo

e una gabbia aperta

è la caduta imperfetta

del volo.

Morire per lo schiacciamento del cervello o in un macello è solo questione di tempo.


L’immagine poetica di Teodora è rarefatta, si esprime in poche righe, ma nella potenza della ricerca accurata delle parole il senso esplode in tutto il suo fulgore, a illuminare ciò che la nostra società vorrebbe invisibile, trascurabile, non degno di menzione. L’umanità si rammenta di questi individui solo quando qualcosa va storto nell’ingranaggio sistematico del loro annientamento - un incendio divampa in un allevamento, un camion carico di corpi, frementi, impauriti, si ribalta, un’alluvione allaga una struttura - altrimenti sono numeri scritti su targhette, da smaltire insieme ai resti non commercializzabili, non commestibili.

 

Divertiti a dare il

biberon magico

alla tua bambola.

Osserva il latte che

sparisce

via via che giri

la mucca

a testa in giù.

Appena la rimetti

dritta

il liquido riappare.

Ci puoi giocare

fino alla morte

dell’animale.

 

Di una mucca morta a ventun anni, dopo essere stata ingravidata artificialmente e munta per venti. 200.000 litri di latte. Quanti vitelli nati e uccisi per conquistare questo record? Quanto dolore in un corpo martoriato da macchine, senza mai ricevere una carezza?

Particolarmente significativi sono i versi che raccontano la morte di animali che hanno vissuto tutta la loro vita imprigionati dentro una struttura: orche, giraffe, elefanti, leoni, orsi della luna. Qui il racconto della loro morte assume un duplice significato, quello della fine, ma anche della liberazione:


Abbandonarsi al sonno sull’acqua

e allagarsi gli occhi fissi.


Di un’orca maschio che è stato rinchiuso per trenta anni in una piccola vasca di cemento in un parco acquatico argentino. Un’associazione animalista riuscì a riprenderlo in un video mentre fissava immobile per ventiquattro ore il cancello che lo separava dai delfini. Nemmeno il sollievo di una compagnia, se non a distanza.

Individui che sono stati tenuti in vita per decenni, in un quotidiano spento e sempre uguale, senza la possibilità di fare esperienza del mondo, senza la possibilità di esistere realmente se non entro i confini, fisici e ontologici, che l’umano ha deciso per loro: nei momenti dell’esibizione, dell’esposizione al pubblico. Si dice, di persone umane che muoiono dopo una lunga malattia, hanno smesso di soffrire. E così diciamo di queste persone di altre specie, peccato che non abbiano mai iniziato a vivere, che siano morte senza vivere. E allora la loro morte ci appare ancora più dolorosa, una beffa del destino quasi perché chi non ha mai iniziato a vivere non dovrebbe morire, ma dovrebbe nascere.

Giorni fa un’amica di buone speranze mi diceva che la vivisezione non esiste più. I versi di Teodora, che si è documentata a fondo per anni prima di approdare a questo lavoro, ci raccontano invece una delle pratiche più atroci: quella degli esperimenti su animali vivi:


La punta del bisturi fa della cella

una stella che scrocchia

un mezzogiorno invecchiato,

il tramonto.

Domani moriranno gli occhi

il nervo cometa coda in giù

fino all’eclissi.

All’alba, se apri gli occhi,

rimane buio.


Per ricordare l’esperimento chiamato sardonicamente Light-up, in cui dei macachi sono stati accecati tramite intervento chirurgico e poi sono stati tenuti in osservazione, costretti in una sedia di contenzione, con elettrodi e telecamere impiantate negli occhi a registrare i movimenti all’interno della gabbia.

Ma la vivisezione non esiste più.

Ai versi che narrano la violenza istituzionale, si alternano quelli della violenza dei singoli su cani, gatti, asini, capre, tartarughe, conigli, individui il cui tratto in comune è quello appunto di essere vulnerabili alla follia della nostra specie, alla forza bruta di chi massacra solo perché, banalmente, può. Soli, senza scampo, torturati senza pietà. Nessuno a difenderli, nemmeno leggi adeguate a punire gli assassini. Il linguaggio, l’uso ricorrente di un termine anziché di un altro, ci dice molto delle società in cui viviamo, anticipa o racconta cambiamenti; e allora fateci caso, il termine “animalicida”, che pure esiste (ho dovuto controllare che fosse effettivamente così) non viene praticamente mai usato. Esistono i femminicidi, gli infanticidi, i matricidi, ma il termine “animalicida” non fa parte del linguaggio corrente e questo perché nella nostra società specista l’uccisione degli animali non solo non conta, ma anzi, è istituzionalizzata.  Quando veniamo a sapere dell’uccisione brutale di un animale, oltre al fatto in sé, immaginiamo anche quella di tanti altri di cui non verremo mai a conoscenza, ma la cui morte è oggettivamente avvenuta, lontana dagli occhi, lontana dal cuore.

L’inventario contenuto ne Le mucche se non le mungi esplodono (di gioia), corredato dai bellissimi disegni di Alessandra Antonini, non tralascia nessuno: in un ordine per lo più cronologico, ma forse soprattutto emotivo, ci racconta anche del destino atroce dei selvatici, orsi, cinghiali, odiati perché liberi. Nati liberi ma braccati costantemente.

Verso dopo verso, soggetto dopo soggetto, ricordo dopo ricordo, fatto di cronaca dopo fatto di cronaca, emerge dalla pagina una terza entità, il tratto che accomuna tutte queste vittime: l’ideologia mortifera che ci contraddistingue e che cristallizza l’esistere degli altri animali in una funzione, un capriccio, un prodotto. Umanità tesa nell’intento di strappare la libertà agli altri animali, di ridicolizzarli, umiliarli, soffocarne l’istinto vitale.

Anche questo inventario di Teodora Mastrototaro, triste, straziante, struggente ma necessario, cristallizza le esistenze di questi animali in pochi versi, in un momento, ma è un atto di segno opposto: per ridargli dignità, splendore, valore. Per portarli a nuova vita, almeno sulla carta, nella memoria di chi legge. Per farli nascere al mondo davvero. Se a questi individui è stata sottratta l’esperienza del vivere, che almeno le fotografie in versi della loro morte possano farsi esperienza per noi. Indicandoci da che parte stare. Sull’asfalto insieme a loro, nelle vasche, nelle gabbie di contenzione, dietro le sbarre. Senza più sottrarci allo sguardo di quelli che verranno.

Rita Ciatti