Nota di lettura di Rita Ciatti al volume Le mucche se non le mungi esplodono (di gioia), di Teodora Mastrototaro, Marco Saya Editore, 2025 (collana Graffiature)
https://www.marcosayaedizioni.net/graffiature
Le mucche se non le mungi
esplodono (di gioia), della poeta e drammaturga Teodora Mastrototaro, pubblicato
da Marco Saya, editore di rara sensibilità, è, come dice il sottotitolo, un
inventario della crudeltà sugli animali che raccoglie fatti di cronaca -
straordinari verrebbe da dire, in realtà ordinari nel loro susseguirsi con
indifferenza agli occhi del mondo - in cui individui appartenenti ad altre
specie hanno perso la vita per mano di un’umanità che si diletta per noia,
vendetta, goliardia, puro sadismo, incapace di riconoscere la sofferenza
dell’altro, resa miope dall’abitudine, dall’empatia mutilata sul nascere.
I versi di Teodora che
rievocano il fatto - dapprima sintetizzato in prosa -, brevissimi, hanno
sicuramente l’intenzione di consegnare alla nostra memoria l’esistenza di
questi individui cui è stata brutalmente sottratta la vita, ma soprattutto,
credo, quella di restituire loro il valore che la nostra società, tramite
dispositivi di alienazione, anche semantica, gli sottrae sistematicamente.
Gli animali morti sulle
strade durante il trasporto al mattatoio per un attimo escono allo scoperto, due
volte vittime, in quanto considerati risorse rinnovabili, fatti nascere per
diventare prodotti e in quanto individui che hanno perso la vita o che sono
rimasti feriti nell’incidente lungo il tragitto. Nessuna ambulanza e soccorsi
per loro, solo una morte ancora più prematura rispetto alla solita. Che sia la
lama di un coltello o un colpo in fronte la loro vita è segnata:
Al bordo della strada
in vendita la carne…
il fuoco non per riscaldarsi
ma per cuocersi. Le auto
lente in fila
gli chiedono quanto si
prenda
al kilo.
O ancora:
La distanza tra il cielo
e una gabbia aperta
è la caduta imperfetta
del volo.
Morire per lo schiacciamento del cervello o in un macello è solo questione di tempo.
L’immagine poetica di Teodora
è rarefatta, si esprime in poche righe, ma nella potenza della ricerca accurata
delle parole il senso esplode in tutto il suo fulgore, a illuminare ciò che la
nostra società vorrebbe invisibile, trascurabile, non degno di menzione. L’umanità
si rammenta di questi individui solo quando qualcosa va storto nell’ingranaggio
sistematico del loro annientamento - un incendio divampa in un allevamento, un
camion carico di corpi, frementi, impauriti, si ribalta, un’alluvione allaga
una struttura - altrimenti sono numeri scritti su targhette, da smaltire
insieme ai resti non commercializzabili, non commestibili.
Divertiti a dare il
biberon magico
alla tua bambola.
Osserva il latte che
sparisce
via via che giri
la mucca
a testa in giù.
Appena la rimetti
dritta
il liquido riappare.
Ci puoi giocare
fino alla morte
dell’animale.
Di una mucca morta a ventun anni, dopo essere stata ingravidata artificialmente e munta per venti. 200.000 litri di latte. Quanti vitelli nati e uccisi per conquistare questo record? Quanto dolore in un corpo martoriato da macchine, senza mai ricevere una carezza?
Particolarmente significativi sono i versi che raccontano la
morte di animali che hanno vissuto tutta la loro vita imprigionati dentro una
struttura: orche, giraffe, elefanti, leoni, orsi della luna. Qui il racconto
della loro morte assume un duplice significato, quello della fine, ma anche
della liberazione:
Abbandonarsi al sonno
sull’acqua
e allagarsi gli occhi fissi.
Di un’orca maschio che è stato
rinchiuso per trenta anni in una piccola vasca di cemento in un parco acquatico
argentino. Un’associazione animalista riuscì a riprenderlo in un video mentre
fissava immobile per ventiquattro ore il cancello che lo separava dai delfini.
Nemmeno il sollievo di una compagnia, se non a distanza.
Individui che sono stati tenuti in vita per decenni, in un quotidiano spento e sempre uguale, senza la possibilità di fare esperienza del mondo, senza la possibilità di esistere realmente se non entro i confini, fisici e ontologici, che l’umano ha deciso per loro: nei momenti dell’esibizione, dell’esposizione al pubblico. Si dice, di persone umane che muoiono dopo una lunga malattia, hanno smesso di soffrire. E così diciamo di queste persone di altre specie, peccato che non abbiano mai iniziato a vivere, che siano morte senza vivere. E allora la loro morte ci appare ancora più dolorosa, una beffa del destino quasi perché chi non ha mai iniziato a vivere non dovrebbe morire, ma dovrebbe nascere.
Giorni fa un’amica di buone speranze mi diceva che la
vivisezione non esiste più. I versi di Teodora, che si è documentata a fondo
per anni prima di approdare a questo lavoro, ci raccontano invece una delle
pratiche più atroci: quella degli esperimenti su animali vivi:
La punta del bisturi fa
della cella
una stella che scrocchia
un mezzogiorno invecchiato,
il tramonto.
Domani moriranno gli occhi
il nervo cometa coda in giù
fino all’eclissi.
All’alba, se apri gli
occhi,
rimane buio.
Per ricordare l’esperimento
chiamato sardonicamente Light-up, in cui dei macachi sono stati accecati
tramite intervento chirurgico e poi sono stati tenuti in osservazione,
costretti in una sedia di contenzione, con elettrodi e telecamere impiantate
negli occhi a registrare i movimenti all’interno della gabbia.
Ma la vivisezione non esiste più.
Ai versi che narrano la violenza istituzionale, si alternano
quelli della violenza dei singoli su cani, gatti, asini, capre, tartarughe, conigli,
individui il cui tratto in comune è quello appunto di essere vulnerabili alla
follia della nostra specie, alla forza bruta di chi massacra solo perché,
banalmente, può. Soli, senza scampo, torturati senza pietà. Nessuno a
difenderli, nemmeno leggi adeguate a punire gli assassini. Il linguaggio, l’uso
ricorrente di un termine anziché di un altro, ci dice molto delle società in
cui viviamo, anticipa o racconta cambiamenti; e allora fateci caso, il termine
“animalicida”, che pure esiste (ho dovuto controllare che fosse effettivamente
così) non viene praticamente mai usato. Esistono i femminicidi, gli
infanticidi, i matricidi, ma il termine “animalicida” non fa parte del
linguaggio corrente e questo perché nella nostra società specista l’uccisione
degli animali non solo non conta, ma anzi, è istituzionalizzata. Quando veniamo a sapere dell’uccisione
brutale di un animale, oltre al fatto in sé, immaginiamo anche quella di tanti
altri di cui non verremo mai a conoscenza, ma la cui morte è oggettivamente
avvenuta, lontana dagli occhi, lontana dal cuore.
L’inventario contenuto ne Le mucche se non le mungi
esplodono (di gioia), corredato dai bellissimi disegni di Alessandra Antonini,
non tralascia nessuno: in un ordine per lo più cronologico, ma forse
soprattutto emotivo, ci racconta anche del destino atroce dei selvatici, orsi,
cinghiali, odiati perché liberi. Nati liberi ma braccati costantemente.
Verso dopo verso, soggetto
dopo soggetto, ricordo dopo ricordo, fatto di cronaca dopo fatto di cronaca,
emerge dalla pagina una terza entità, il tratto che accomuna tutte queste
vittime: l’ideologia mortifera che ci contraddistingue e che cristallizza l’esistere
degli altri animali in una funzione, un capriccio, un prodotto. Umanità tesa
nell’intento di strappare la libertà agli altri animali, di ridicolizzarli,
umiliarli, soffocarne l’istinto vitale.
Anche questo inventario di Teodora Mastrototaro, triste,
straziante, struggente ma necessario, cristallizza le esistenze di questi
animali in pochi versi, in un momento, ma è un atto di segno opposto: per
ridargli dignità, splendore, valore. Per portarli a nuova vita, almeno sulla
carta, nella memoria di chi legge. Per farli nascere al mondo davvero. Se a
questi individui è stata sottratta l’esperienza del vivere, che almeno le fotografie
in versi della loro morte possano farsi esperienza per noi. Indicandoci da che
parte stare. Sull’asfalto insieme a loro, nelle vasche, nelle gabbie di
contenzione, dietro le sbarre. Senza più sottrarci allo sguardo di quelli che
verranno.
Rita Ciatti