Appunti di Maristella
Diotaiuti per la serata dedicata a Alejandra Pizarnik per
il ciclo Clandestine, a cura di Maristella Diotaiuti, alle Cicale Operose.
Letture (non presenti in questi appunti): Aldo Galeazzi;
musica: Nino Pellegrini (contrabbasso).
Ho conosciuto Alejandra Pizarnik dalle lettere di Cristina Campo e mi sono letteralmente innamorata della sua poesia, delle epistole, dei diari, della sua anima tutta.
Bisogna
accostarsi ad Alejandra con estrema attenzione, perché è come
un corpo di cristallo, leggerla toccarla fa sanguinare le
mani. Comunque la afferri si frantuma e ti taglia. Perché è una poeta che
scardina il senso, scrive dall’altra parte del linguaggio. Si conficca
nella carne del mondo con le parole, con i versi, a uncino e
sbalestrati. Pizarnik ci si avventa addosso con la radicalità predatoria
della sua scrittura. Costringe al buio, procede addentando. Non
è poesia nuda la sua, è poesia che ti spoglia.
Diceva Susan
Sontag, in una frase geniale:“la vera arte deve renderci nervosi.” E
la poesia di Alejandra ci rende nervosi, perché Alejandra sapeva
disturbare l’altro, perché cercava la verità attraverso la
scrittura. e cercare la verità turba il quieto vivere, è turbamento. Non
era il bello la sua preoccupazione, ma la parola. E occuparsi della parola
significa precipitare.
Alejandra ha
vissuto, ha attraversato il mondo senza filtri, in una estrema
vulnerabilità, vulnerabile soprattutto di fronte a se stessa.
Ospitava in sé un immenso abisso, un fiore dalle radici piantate nel
vuoto. Un vuoto fatto di inquietudine, disagio e
consapevolezza che tenta di riempire, di placare con le parole,
con la poesia, attraverso una passione quasi ossessiva per la
scrittura, la lettura, per l’universo delle lettere.
Questa grandissima
poeta argentina è stata penalizzata dalla giovane morte: il
suo ultimo gesto è diventato per molti, critici compresi, la
chiave di lettura della sua poesia.
Certamente parlare di
Alejandra, come di Sylvia Plath, Anne Sexton, Antonia Pozzi, Virginia
Woolf e più d’ogni altra Amelia Rosselli, è parlare anche
di morte, ma sopra ogni cosa è parlare di linguaggio. Un linguaggio
che traduce in poesia un problema esistenziale profondo, ingovernabile, irrisolvibile. Vita
morte scrittura e poesia sono soprattutto in Alejandra un corpo
unico, un intero. Alejandra Pizarnik è linguaggio!
In Argentina, e non
solo, è stata un vero e proprio caso letterario: nella storia recente
dell’editoria non si è mai verificato che un libro di poesia avesse
le stesse tirature di un best seller. In Spagna la sua opera poetica
completa, a cura di Anna Becciu, ha sfondato il muro delle 25.ooo copie
vendute. oggi, finalmente, è pubblicata anche in Italia da
Lietocolle, in Italia trovate anche “La figlia
dell’insonnia” edito da Crocetti, con le traduzioni di
Claudio Cinti. Nonostante tutto in Italia è pressoché sconosciuta,
assente.
Eppure Alejandra è
irrinunciabile: forse perché è riuscita a dire la notte che ci abita e che
abitiamo. È riuscita a dire, con estrema sincerità ed
onestà e coraggio i propri abissi e le proprie
fragilità, le nostre fragilità. Scrive nei diari: l’orrore di
abitarmi, di essere – che strano – mia ospite, mia passeggera, mio luogo
d’esilio.
La sua vita è stata
un continuo dialogo tra eros e thanatos, creazione e
distruzione, coerenza e diversità. Coerenza con la propria diversità.
Alejandra scrive: Se
c’è una ragione per la quale scrivo, è perché qualcuno mi salvi da me
stessa. Cerca se stessa attraverso l’alternanza di presenza e
assenza, attraverso un continuo avvicendarsi di parole e
silenzio, e in questo continuo disequilibrio riesce a
tenere lontana la morte e al tempo stesso a lasciarla vivere
accanto con i suoi fantasmi e le sue ombre. Lo dice in tre versi:
la
morte sempre al fianco.
ascolto
il suo dire.
odo
me sola.
A questo le serve
scrivere: a confondersi nel suo sillabare, per nascere e morire,
sgretolarsi e ricostruirsi.
L’intreccio tra sé e la
scrittura diventerà sempre più assoluto nel corso degli anni. In
una intervista a Martha Isabel Moia, una delle ultime compagne di
Pizarnik: dicono che il poeta è un grande terapeuta. In
questo senso, il lavorio poetico implicherebbe esorcizzare, scongiurare e poi
riparare. Scrivere una poesia è guarire la
ferita primordiale, la lacerazione. Essendo tutti feriti.
Nella parola c’è questa
contraddizione profonda: riempire il vuoto di senso e nello
stesso tempo convocare il vuoto. La parola dice ma ha in sé il silenzio,
l’oscurità, la notte. In Argentina dicono che sia nata con l’oscurità
nell’anima. La stessa oscurità con cui ha tessuto una poesia unica e
irripetibile. Ha fatto della notte il luogo della sua poesia-corpo: Ascolto
la notte piangere nelle mie ossa.
Alejandra è una
donna che si sente sempre straniera in questo mondo, in esilio. Certo,
come diceva Maria Zambrano “i poeti scrivono sempre dall’esilio”, ma
Alejandra vive in un esilio che ha molte radici. E queste
radici affondano tutte nel vuoto, nell’assenza, Alejandra si sente
assediata dall’assenza, parla spagnolo con un accento europeo.
Nasce in Argentina,
ad Avellaneda, un sobborgo di Buenos Aires, da genitori russo-ebraici
immigrati. Scelgono l’Argentina come luogo di residenza per sfuggire
all’immenso dramma che già si annunciava, in procinto di devastare
l’Europa. Il resto della famiglia morirà in Europa durante
l’olocausto, lo sterminio nazista.
Suo padre si
chiama Elìas Pozharnik, ma
i funzionari dell’immigrazione sbagliano a registrare il
cognome, così la conosciamo come Pizarnik. Quando nasce, il 29 aprile
1936, si chiama Flora, nome che nel tempo cambierà stabilmente in
Alejandra, Ed è sempre alla ricerca di una identità in cui riconoscersi.
Durante la sua infanzia
assiste all’eliminazione del suo passato. Questo sradicamento rimarrà per sempre
in lei e nella sua poesia, indicando una frattura che non si risanerà
mai. Nei diari scrive: Ho ereditato dai miei
antenati il desiderio di fuggire. Dicono che il mio sangue sia europeo.
Sento che ogni globulo proviene da ogni nazione, da ogni provincia, da ogni
isola, golfo, arcipelago, oasi. da ogni pezzo di terra o di mare hanno usurpato
qualcosa e così mi hanno formata, condannandomi all’eterna ricerca di un
luogo di origine […] Ho ereditato il passo
titubante per non nazionalizzarmi saldamente da nessuna parte. In
tutto e in niente! In niente e in tutto!
Da una parte l’urgenza
di appartenere a qualcosa, a qualcuno, e dall’altra la scelta di vivere nel
disequilibrio, nella frattura. L’infanzia è un tema ricorrente nella poesia di
Pizarnik, che ha il volto di quello che ha perso per qualche
motivo, o quello che non ha mai avuto. È una giovane donna dal corpo
minuto, un bel viso, i capelli corti e occhi chiari pieni
di luce che divorano con avidità i classici della letteratura. Legge
moltissimo, espressione della sua estrema fragilità interiore,
della sua estrema sensibilità. Soffre già da piccola di asma e balbuzie.
Una vera e propria prigionia somatica. La stessa Alejandra allude spesso
nei diari alla sua balbuzie, e alla sua incapacità di comunicare. Suo padre
prova ad aiutarla: paga una psicoanalista che cerca, invano, di
darle un equilibrio, e si fa carico delle spese del suo primo
libro, l’ultima innocenza, quando è appena ventenne.
Più tardi, il suo
amico Cortàzar la chiamerà “bicho”, bestiolina (ironicamente,
per prenderla affettuosamente in giro ). Cosi la descrive Ivonne
Bordelois (poetessa e linguista argentina conosciuta a Parigi, sua amica,
con la quale ebbe un rapporto epistolare denso e significativo): “Parlava
spagnolo con un accento europeo. Aveva
una dizione particolare ‘come un insulto’.
Indossava vestiti di due taglie più grandi per il suo
fisico piccolo, che nascondevano ogni forma, e pantaloni larghi, sotto un
enorme montgomery blu stile marinaro, sembrava un ragazzo
adolescente. Ma questo disagio e questa angoscia
profonda di solito non li mostrava in pubblico, anzi tra la
gente, recitava, fingeva e
affascinava. Ha giocato ad essere
disinibita, eccentrica, a confondere. Aveva un umorismo
incredibile. Ma sapeva di essere una poeta eccezionale, il suono che ha
trovato nella lingua è unico. Penso che Alejandra sia il Rimbaud
dello spagnolo: ha portato la lingua in luoghi dove nessun altro è
arrivato.”
Diventa un simbolo
di ribellione sociale. Già nel 1956 è una
ragazza anticonvenzionale: capelli corti, sigaretta tra le dita. Si veste
da maschio, intensa vita sessuale. Le piace provocare ma la
sua stravaganza è un rifugio momentaneo. La sua tenebra è una
vera e propria spirale che l’avvolge: vive di notte, in
una insonnia sofferta, appende frasi e
parole alle pareti, aspetta, disegna, contempla, demolisce il
linguaggio per ricostruirlo, scrive su una lavagnetta, così
può scegliere quali parole conservare e quali cancellare.
Se da una parte la
scrittura e la parola poetica sono una forma di salvezza, dall’altra
rappresentano l’incarnazione dell’impossibilità a dire e
soprattutto a dirsi. Dice in un frammento:
dal
combattimento con le parole appartami
e
spegni il furore del mio corpo elementare.
(da L’albero di Diana -
distruzioni)
Ma nonostante tutte le
contraddizioni, le impossibilità della parola, la seduzione del silenzio,
Alejandra continua a scrivere, a cantare, da cantatrice notturna.
Intanto, lei,
figlia dell’insonnia, sperimenta anche il breve e pericoloso fenomeno
psichedelico delle anfetamine, cura la sofferenza con
gli antidolorifici e usa i sonniferi per sfuggire alle
lunghissime e buie notti dell’anima: nel silenzio stesso/ingoiare notte una
notte immensa / immersa nei/segreti dei passi perduti.
Nel 1960 si
trasferisce a Parigi, gli anni parigini saranno decisivi nella
sua maturazione. Qui lavora per la rivista Journal e
per alcuni editori francesi. traduce e scrive. In quegli anni
sue poesie e recensioni pubblicate in diversi giornali, studia religione e
letteratura francese alla Sorbona. A
Parigi frequenta i caffè letterari, qui incontra i più
grandi poeti, scrittori e artisti del tempo, conosce Simone De
Beauveoir, Battaille, Bonnefoy (di cui è stata traduttrice). A
Parigi stringe amicizie che saranno molto importanti per lei: come
con Cortazar e con l’altro poeta Octavio Paz, che scriverà
una straordinaria prefazione alla sua raccolta di poesie L’albero
di Diana.
Quando nel 1964
ritorna in Argentina, a Buenos Aires era
cambiata, anche fisicamente: i suoi tratti si
erano induriti, era divenuta cupa, come torturata,
così la descrive l’amico scrittore Antonio Requeni.
Ma continua a scrivere e pubblica in Argentina molte
sue raccolte di poesia, le più importanti e significative. Ma non riesce a
sfuggire al vuoto che la insegue e l’assedia ovunque vada. Una vita
dominata dal sentimento di perdita, di abbandono. È un vuoto che però
rievoca (irrefutabilmente) la materia. per questo la poesia di
Pizarnik è considerata così fisica, corporea, quasi animale. Perché
lei dà corpo alle parole. Le incarna fino al midollo.
Alejandra è una
meravigliosa visionaria, come ha scritto un altro grande scrittore
argentino, Tomàs Eloy Martinez: La realtà è un vasto
labirinto in cui tutto si assomiglia. alcuni sentieri si ripetono, altri no. Il
futuro è lì, sotto gli occhi di tutti. Ma solo pochissimi, come Alejandra
Pizarnik, riescono a scorgerlo.
Alejandra è un
genio convulsivo che sa trasformare il dolore in poesia. Scrive nei
diari: Vorrei poter scrivere solo in estasi, fondendo il
corpo della poesia con il mio corpo, riscattando ogni frase con i miei giorni e
le mie settimane, infondendo alla poesia il mio respiro in modo che ogni
lettera di ogni parola sia sacrificata alle cerimonie del vivere.
Alejandra Pizarnik resta
una figura solitaria nell’ambiente letterario. È distaccata dal suo
contorno sociale, è attenta soprattutto agli echi del proprio subconscio.
La sua scrittura è
contrassegnata, o segnata, da una tremenda lucidità, lei stessa
si dice, e ci dice: Io posso parlare a pieno titolo del dolore di
essere viva. Ed è caratterizzata da un elevatissimo rigore
stilistico. Lo stile di Pizarnik però è solo in apparenza
semplice e quasi contratto, in realtà sotto sottende
una profonda ricerca di perfezione poetica che guarda ai suoi
predecessori più amati: Kafka, Woolf, Mansfield, Pavese, Gide, ma anche
Nerval e Blake, maestri della poesia visionaria, onirica, notturna. È
uno sguardo ribelle quello di Alejandra, in ogni passo, passaggio, in ogni
paesaggio del mondo, dell’essere. Scrive in una breve poesia, dal
titolo lo sguardo:
uno
sguardo dal fondo di una fogna
può
essere una visione del mondo
la
ribellione consiste nel guardare una rosa
fino
a ridurre in polvere gli occhi.
È stata chiamata
“poetessa dell’assenza”. Le scrive in una lettera Cristina Campo:Bisogna
fare deserto di sé e del mondo, per vivere nel mondo – essere deserto in faccia
agli uomini. Ci vedono, ma non vedono […] Bisogna calarsi nel sottosuolo di sé.
La vita qualche volta, si ritira come un ragno; e bisogna resistere alla
cattiva ispirazione di raccogliere le conchiglie.
Alejandra ha davvero
smesso di raccogliere le conchiglie. Si è tolta la vita nella notte tra il
24-25 settembre 1972 con una overdose di barbiturici, ingerendo
50 piccole di seconal, dicono. Ha 36 anni. in uno di
quei momenti (che anche Cristina Campo conosceva bene e
chiamava) di tenebra totale. Era un fine settimana, aveva
avuto il permesso di uscire dall’ospedale psichiatrico di Buenos
Aires, dove era stata ricoverata a seguito di una grave
depressione che le era già costata ripetuti tentativi di
suicidio. Le parole non l’hanno salvata. Quando il linguaggio ha rivelato
tutto il suo silenzio, il suo vuoto, Alejandra non ha avuto più appigli.
Alejandra
Pizarnik ci consegna un lavoro poetico straordinario e densissimo. eppure
di lei si ricorda più spesso (quando di lei ci si ricorda), e ingiustamente, il
suicidio e non le parole che ci ha lasciato in eredità.
io
ero predestinata a nominare le cose con nomi essenziali. io
non
esisto più e lo so; quello che non so è che cosa vive al posto mio.
Oggi, dopo la sua
morte, e dopo essere stata censurata dalla dittatura del suo paese, è
stata riscoperta dalle nuove generazioni, diventando la poeta più letta in
Argentina.
La sorella di
Alejandra, Miriam Pizarnik, ha donato alla Biblioteca
Nacional di Buenos Aires una mole di documenti. Alejandra in qualche
modo è lì:
– nelle macchie di
caffè lasciate sulle pagine che ha voluto
conservare per qualche motivo;
–
nei disegnini che le regalavano e anche un grande ritratto che
qualcuno le fece su un foglio da disegno e lo schizzo di un
gattino in un pezzo di carta ritagliata;
–
nelle lettere originali, scritti a macchina e cose corrette
a mano, quasi sempre con inchiostro di vari colori.
A volte era disordinata,
strappava le pagine dei libri per portare via qualche frase. Altre volte
invece era metodica, metteva i sottotitoli alle cose con il nastro
adesivo.
–
c’è l’originale scritto a macchina dell’intervista che fece a
Marguerite Dumas e che fu pubblicata nel 1968.
– ci sono testi
usciti sulla rivista Sur e le bozze delle traduzioni.
Niente ha un ordine
apparente. Ma in quella pila di carte c’è lei, la sua voce, il suo passaggio
per il mondo (così scrive Daniela Pasik sul Clarin).
Sono documenti preziosi,
perché i poeti vanno snidati, sondati, come piccole divinità, per
questo anche il frammento singolo di una lettera è importante.
Le ultime poesie
pubblicate nel 1971 col titolo L’inferno musicale, insieme al
testo in prosa, La contessa sanguinosa dello stesso anno, ci
danno la misura della sua distanza da questo mondo, della sua
decisione, sempre più irrefrenabile, di morire: Semplicemente non
vengo da questo mondo.
Faccio mie le parole di
Giorgio Anelli: Non bisogna lasciare soli i poeti, loro non ci lasciano
soli. Se qualcuno amasse davvero i poeti, li chiamerebbe ogni tanto al
telefono, ci uscirebbe insieme più spesso. Sono cose talmente banali, da
dover essere dette nuovamente. perché altrimenti parlare con i muri potrebbe
essere l’inizio dell’abisso. Non lasciate soli i
poeti. Della fratellanza cercano l’essenza, il midollo. Vi
ripagheranno con sguardi di secoli passati, e parole ustionate dal fuoco.
se sarete fortunati, può darsi che vi dedicheranno versi
immortali. Sappiate però che a loro basta poco: un sorriso,
una discussione accalorata, anche un insulto se condiviso.
Alejandra Pizarnik si
diede la morte all’alba, in un momento di solitudine che non riusciva più
a riempire. Senza più parole. Le aveva scritte tutte per noi!
Maristella Diotaiuti