lunedì 17 marzo 2025

Appunti di Maristella Diotaiuti per la serata dedicata a Alejandra Pizarnik per il ciclo Clandestine, Le Cicale Operose.

 











Appunti di Maristella Diotaiuti per la serata dedicata a Alejandra Pizarnik per il ciclo Clandestine, a cura di Maristella Diotaiuti, alle Cicale Operose. Letture (non presenti in questi appunti): Aldo Galeazzi; musica: Nino Pellegrini (contrabbasso).

Ho conosciuto Alejandra Pizarnik dalle lettere di Cristina Campo e mi sono letteralmente innamorata della sua poesia, delle epistole, dei diari, della sua anima tutta. 

Bisogna accostarsi ad Alejandra con estrema attenzione, perché è  come un corpo di cristallo, leggerla toccarla fa sanguinare le mani. Comunque la afferri si frantuma e ti taglia. Perché è una poeta che scardina il senso, scrive dall’altra parte del linguaggio. Si conficca nella carne del mondo con le parole, con i versi, a uncino e sbalestrati. Pizarnik ci si avventa addosso con la radicalità predatoria della sua scrittura. Costringe al buio, procede addentando. Non è poesia nuda la sua, è poesia che ti spoglia.

Diceva Susan Sontag, in una frase geniale:“la vera arte deve renderci nervosi.” E la poesia di Alejandra ci rende nervosi, perché Alejandra sapeva disturbare l’altro, perché cercava la verità attraverso la scrittura. e cercare la verità turba il quieto vivere, è turbamento. Non era il bello la sua preoccupazione, ma la parola. E occuparsi della parola significa precipitare.

Alejandra ha vissuto, ha attraversato il mondo senza filtri, in una estrema vulnerabilità, vulnerabile soprattutto di fronte a se stessa. Ospitava in sé un immenso abisso, un fiore dalle radici piantate nel vuoto. Un vuoto fatto di inquietudine, disagio e consapevolezza che tenta di riempire, di placare con le parole, con la poesia, attraverso una passione quasi ossessiva per la scrittura, la lettura, per l’universo delle lettere.

Questa grandissima poeta argentina è stata penalizzata dalla giovane morte: il suo ultimo gesto è diventato per molti, critici compresi, la chiave di lettura della sua poesia.

Certamente parlare di Alejandra, come di Sylvia Plath, Anne Sexton, Antonia Pozzi, Virginia Woolf e più d’ogni altra Amelia Rosselli, è parlare anche di morte, ma sopra ogni cosa è parlare di linguaggio. Un linguaggio che traduce in poesia un problema esistenziale profondo, ingovernabile, irrisolvibile. Vita morte scrittura e poesia sono soprattutto in Alejandra un corpo unico, un intero. Alejandra Pizarnik è linguaggio!

In Argentina, e non solo, è stata un vero e proprio caso letterario: nella storia recente dell’editoria non si è mai verificato che un libro di poesia avesse le stesse tirature di un best seller. In Spagna la sua opera poetica completa, a cura di Anna Becciu, ha sfondato il muro delle 25.ooo copie vendute. oggi, finalmente, è pubblicata anche in Italia da Lietocolle, in Italia trovate anche “La figlia dell’insonnia” edito da Crocetti, con le traduzioni di Claudio Cinti. Nonostante tutto in Italia è pressoché sconosciuta, assente.

Eppure Alejandra è irrinunciabile: forse perché è riuscita a dire la notte che ci abita e che abitiamo. È riuscita a dire, con estrema sincerità ed onestà e coraggio i propri abissi e le proprie fragilità, le nostre fragilità. Scrive nei diari: l’orrore di abitarmi, di essere – che strano – mia ospite, mia passeggera, mio luogo d’esilio.

La sua vita è stata un continuo dialogo tra eros e thanatos, creazione e distruzione, coerenza e diversità. Coerenza con la propria diversità.

Alejandra scrive: Se c’è una ragione per la quale scrivo, è perché qualcuno mi salvi da me stessa. Cerca se stessa attraverso l’alternanza di presenza e assenza, attraverso un continuo avvicendarsi di parole e silenzio, e in questo continuo disequilibrio riesce a tenere lontana la morte e al tempo stesso a lasciarla vivere accanto con i suoi fantasmi e le sue ombre. Lo dice in tre versi:

la morte sempre al fianco.

ascolto il suo dire.

odo me sola.  

A questo le serve scrivere: a confondersi nel suo sillabare, per nascere e morire, sgretolarsi e ricostruirsi.

L’intreccio tra sé e la scrittura diventerà sempre più assoluto nel corso degli anni. In una intervista a Martha Isabel Moia, una delle ultime compagne di Pizarnik: dicono che il poeta è un grande terapeuta. In questo senso, il lavorio poetico implicherebbe esorcizzare, scongiurare e poi riparare. Scrivere una poesia è guarire la ferita primordiale, la lacerazione. Essendo tutti feriti.

Nella parola c’è questa contraddizione profonda: riempire il vuoto di senso e nello stesso tempo convocare il vuoto. La parola dice ma ha in sé il silenzio, l’oscurità, la notte. In Argentina dicono che sia nata con l’oscurità nell’anima. La stessa oscurità con cui ha tessuto una poesia unica e irripetibile. Ha fatto della notte il luogo della sua poesia-corpo: Ascolto la notte piangere nelle mie ossa.

 Alejandra è una donna che si sente sempre straniera in questo mondo, in esilio. Certo, come diceva Maria Zambrano “i poeti scrivono sempre dall’esilio”, ma Alejandra vive in un esilio che ha molte radici. E queste radici affondano tutte nel vuoto, nell’assenza, Alejandra si sente assediata dall’assenza, parla spagnolo con un accento europeo.

Nasce in Argentina, ad Avellaneda, un sobborgo di Buenos Aires, da genitori russo-ebraici immigrati. Scelgono l’Argentina come luogo di residenza per sfuggire all’immenso dramma che già si annunciava, in procinto di devastare l’Europa. Il resto della famiglia morirà in Europa durante l’olocausto, lo sterminio nazista.

Suo padre si chiama Elìas Pozharnik, ma i funzionari dell’immigrazione sbagliano a registrare il cognome, così la conosciamo come Pizarnik. Quando nasce, il 29 aprile 1936, si chiama Flora, nome che nel tempo cambierà stabilmente in Alejandra, Ed è sempre alla ricerca di una identità in cui riconoscersi.

Durante la sua infanzia assiste all’eliminazione del suo passato. Questo sradicamento rimarrà per sempre in lei e nella sua poesia, indicando una frattura che non si risanerà mai. Nei diari scrive: Ho ereditato dai miei antenati il desiderio di fuggire. Dicono che il mio sangue sia europeo. Sento che ogni globulo proviene da ogni nazione, da ogni provincia, da ogni isola, golfo, arcipelago, oasi. da ogni pezzo di terra o di mare hanno usurpato qualcosa e così mi hanno formata, condannandomi all’eterna ricerca di un luogo di origine […] Ho ereditato il passo titubante per non nazionalizzarmi saldamente da nessuna parte. In tutto e in niente! In niente e in tutto!

Da una parte l’urgenza di appartenere a qualcosa, a qualcuno, e dall’altra la scelta di vivere nel disequilibrio, nella frattura. L’infanzia è un tema ricorrente nella poesia di Pizarnik, che ha il volto di quello che ha perso per qualche motivo, o quello che non ha mai avuto. È una giovane donna dal corpo minuto, un bel viso, i capelli corti e occhi chiari pieni di luce che divorano con avidità i classici della letteratura. Legge moltissimo, espressione della sua estrema fragilità interiore, della sua estrema sensibilità. Soffre già da piccola di asma e balbuzie. Una vera e propria prigionia somatica. La stessa Alejandra allude spesso nei diari alla sua balbuzie, e alla sua incapacità di comunicare. Suo padre prova ad aiutarla: paga una psicoanalista che cerca, invano, di darle un equilibrio, e si fa carico delle spese del suo primo libro, l’ultima innocenza, quando è appena ventenne.

Più tardi, il suo amico Cortàzar la chiamerà “bicho”, bestiolina (ironicamente, per prenderla affettuosamente in giro ). Cosi la descrive Ivonne Bordelois (poetessa e linguista argentina conosciuta a Parigi, sua amica, con la quale ebbe un rapporto epistolare denso e significativo): “Parlava spagnolo con un accento europeo. Aveva una dizione particolare ‘come un insulto’. Indossava vestiti di due taglie più grandi per il suo fisico piccolo, che nascondevano ogni forma, e pantaloni larghi, sotto un enorme montgomery blu stile marinaro, sembrava un ragazzo adolescente. Ma questo disagio e questa angoscia profonda di solito non li mostrava in pubblico, anzi tra la gente, recitava, fingeva e affascinava. Ha giocato ad essere disinibita, eccentrica, a confondere. Aveva un umorismo incredibile. Ma sapeva di essere una poeta eccezionale, il suono che ha trovato nella lingua è unico. Penso che Alejandra sia il Rimbaud dello spagnolo: ha portato la lingua in luoghi dove nessun altro è arrivato.”

Diventa un simbolo di ribellione sociale. Già nel 1956 è una ragazza anticonvenzionale: capelli corti, sigaretta tra le dita. Si veste da maschio, intensa vita sessuale. Le piace provocare ma la sua stravaganza è un rifugio momentaneo. La sua tenebra è una vera e propria spirale che l’avvolge: vive di notte, in una insonnia sofferta, appende frasi e parole alle pareti, aspetta, disegna, contempla, demolisce il linguaggio per ricostruirlo, scrive su una lavagnetta, così può scegliere quali parole conservare e quali cancellare.

Se da una parte la scrittura e la parola poetica sono una forma di salvezza, dall’altra rappresentano l’incarnazione dell’impossibilità a dire e soprattutto a dirsi. Dice in un frammento:

dal combattimento con le parole appartami

e spegni il furore del mio corpo elementare.

(da L’albero di Diana - distruzioni)

Ma nonostante tutte le contraddizioni, le impossibilità della parola, la seduzione del silenzio, Alejandra continua a scrivere, a cantare, da cantatrice notturna.

 Intanto, lei, figlia dell’insonnia, sperimenta anche il breve e pericoloso fenomeno psichedelico delle  anfetamine, cura la sofferenza con gli antidolorifici e usa i sonniferi per sfuggire alle lunghissime e buie notti dell’anima: nel silenzio stesso/ingoiare notte una notte immensa / immersa nei/segreti dei passi perduti.

Nel 1960 si trasferisce a Parigi, gli anni parigini saranno decisivi nella sua maturazione. Qui lavora per la rivista Journal e per alcuni editori francesi. traduce e scrive. In quegli anni sue poesie e recensioni pubblicate in diversi giornali, studia religione e letteratura francese alla SorbonaA Parigi frequenta i caffè letterari, qui incontra i più grandi poeti, scrittori e artisti del tempo, conosce Simone De Beauveoir, Battaille, Bonnefoy (di cui è stata traduttrice). A Parigi stringe amicizie che saranno molto importanti per lei: come con Cortazar e con l’altro poeta Octavio Paz, che scriverà una straordinaria prefazione alla sua raccolta di poesie L’albero di Diana.

Quando nel 1964 ritorna in Argentina, a Buenos Aires era cambiata, anche fisicamente: i suoi tratti si erano induriti, era divenuta cupa, come torturata, così la descrive l’amico scrittore Antonio Requeni. Ma continua a scrivere e pubblica in Argentina molte sue raccolte di poesia, le più importanti e significative. Ma non riesce a sfuggire al vuoto che la insegue e l’assedia ovunque vada. Una vita dominata dal sentimento di perdita, di abbandono. È un vuoto che però rievoca (irrefutabilmente) la materia. per questo la poesia di Pizarnik è considerata così fisica, corporea, quasi animale. Perché lei dà corpo alle parole. Le incarna fino al midollo.

Alejandra è una meravigliosa visionaria, come ha scritto un altro grande scrittore argentino, Tomàs Eloy Martinez: La realtà è un vasto labirinto in cui tutto si assomiglia. alcuni sentieri si ripetono, altri no. Il futuro è lì, sotto gli occhi di tutti. Ma solo pochissimi, come Alejandra Pizarnik, riescono a scorgerlo.

Alejandra è un genio convulsivo che sa trasformare il dolore in poesia. Scrive nei diari: Vorrei poter scrivere solo in estasi, fondendo il corpo della poesia con il mio corpo, riscattando ogni frase con i miei giorni e le mie settimane, infondendo alla poesia il mio respiro in modo che ogni lettera di ogni parola sia sacrificata alle cerimonie del vivere.

Alejandra Pizarnik resta una figura solitaria nell’ambiente letterario. È distaccata dal suo contorno sociale, è attenta soprattutto agli echi del proprio subconscio.

La sua scrittura è contrassegnata, o segnata, da una tremenda lucidità, lei stessa si dice, e ci dice: Io posso parlare a pieno titolo del dolore di essere viva. Ed è caratterizzata da un elevatissimo rigore stilistico. Lo stile di Pizarnik però è solo in apparenza semplice e quasi contratto, in realtà sotto sottende una profonda ricerca di perfezione poetica che guarda ai suoi predecessori più amati: Kafka, Woolf, Mansfield, Pavese, Gide, ma anche Nerval e Blake, maestri della poesia visionaria, onirica, notturna. È uno sguardo ribelle quello di Alejandra, in ogni passo, passaggio, in ogni paesaggio del mondo, dell’essere. Scrive in una breve poesia, dal titolo lo sguardo:

uno sguardo dal fondo di una fogna

può essere una visione del mondo

la ribellione consiste nel guardare una rosa

fino a ridurre in polvere gli occhi.

È stata chiamata “poetessa dell’assenza”.  Le scrive in una lettera Cristina Campo:Bisogna fare deserto di sé e del mondo, per vivere nel mondo – essere deserto in faccia agli uomini. Ci vedono, ma non vedono […] Bisogna calarsi nel sottosuolo di sé. La vita qualche volta, si ritira come un ragno; e bisogna resistere alla cattiva ispirazione di raccogliere le conchiglie.

Alejandra ha davvero smesso di raccogliere le conchiglie. Si è tolta la vita nella notte tra il 24-25 settembre 1972 con una overdose di barbiturici, ingerendo 50 piccole di seconal, dicono. Ha 36 anni. in uno di quei momenti (che anche Cristina Campo conosceva bene e chiamava) di tenebra totale. Era un fine settimana, aveva avuto il permesso di uscire dall’ospedale psichiatrico di Buenos Aires, dove era stata ricoverata a seguito di una grave depressione che le era già costata ripetuti tentativi di suicidio. Le parole non l’hanno salvata. Quando il linguaggio ha rivelato tutto il suo silenzio, il suo vuoto, Alejandra non ha avuto più appigli.

Alejandra Pizarnik ci consegna un lavoro poetico straordinario e densissimo. eppure di lei si ricorda più spesso (quando di lei ci si ricorda), e ingiustamente, il suicidio e non le parole che ci ha lasciato in eredità.

io ero predestinata a nominare le cose con nomi essenziali. io

non esisto più e lo so; quello che non so è che cosa vive al posto mio.  

Oggi, dopo la sua morte, e dopo essere stata censurata dalla dittatura del suo paese, è stata riscoperta dalle nuove generazioni, diventando la poeta più letta in Argentina.

La sorella di Alejandra, Miriam Pizarnik, ha donato alla Biblioteca Nacional di Buenos Aires una mole di documenti. Alejandra in qualche modo è lì:

– nelle macchie di caffè lasciate sulle pagine che ha voluto conservare per qualche motivo;

– nei disegnini che le regalavano e anche un grande ritratto che qualcuno le fece su un foglio da disegno e lo schizzo di un gattino in un pezzo di carta ritagliata;

– nelle lettere originali, scritti a macchina e cose corrette a mano, quasi sempre con inchiostro di vari colori.

A volte era disordinata, strappava le pagine dei libri per portare via qualche frase. Altre volte invece era metodica, metteva i sottotitoli alle cose con il nastro adesivo.

– c’è l’originale scritto a macchina dell’intervista che fece a Marguerite Dumas e che fu pubblicata nel 1968.

– ci sono testi usciti sulla rivista Sur e le bozze delle traduzioni.

Niente ha un ordine apparente. Ma in quella pila di carte c’è lei, la sua voce, il suo passaggio per il mondo (così scrive Daniela Pasik sul Clarin).

Sono documenti preziosi, perché i poeti vanno snidati, sondati, come piccole divinità, per questo anche il frammento singolo di una lettera è importante.

Le ultime poesie pubblicate nel 1971 col titolo L’inferno musicale, insieme al testo in prosa, La contessa sanguinosa dello stesso anno, ci danno la misura della sua distanza da questo mondo, della sua decisione, sempre più irrefrenabile, di morire: Semplicemente non vengo da questo mondo.

Faccio mie le parole di Giorgio Anelli: Non bisogna lasciare soli i poeti, loro non ci lasciano soli. Se qualcuno amasse davvero i poeti, li chiamerebbe ogni tanto al telefono, ci uscirebbe insieme più spesso. Sono cose talmente banali, da dover essere dette nuovamente. perché altrimenti parlare con i muri potrebbe essere l’inizio dell’abisso. Non lasciate soli i poeti. Della fratellanza cercano l’essenza, il midollo. Vi ripagheranno con sguardi di secoli passati, e parole ustionate dal fuoco. se sarete fortunati, può darsi che vi dedicheranno versi immortali. Sappiate però che a loro basta poco: un sorriso, una discussione accalorata, anche un insulto se condiviso.

Alejandra Pizarnik si diede la morte all’alba, in un momento di solitudine che non riusciva più a riempire. Senza più parole. Le aveva scritte tutte per noi!  

Maristella Diotaiuti