Una riflessione sulla scrittura di Beatrice Hastings
di Maristella Diotaiuti
Per gli Atti del Primo Convegno di studi su Beatrice Hastings, Le Cicale Operose, 2021.
Uno dei meriti di questo workshop, tra i tanti che si potrebbero elencare, è di aver messo in rilievo, sia attraverso le voci teoriche che quelle narrative, il carattere proteiforme di Beatrice Hastings, della sua personalità, della sua scrittura, del suo pensiero, evidenziandone, in particolare, il suo essere “eccentrica”, cioè “fuori dal centro e, in ambito letterario, fuori dal canone consolidato.” Il soggetto eccentrico, così come teorizzato dalla critica femminista, è “un soggetto che sta dentro e fuori, è critico e autocritico. Pur essendo cosciente della sua determinazione storica, è tuttavia attivamente impegnato in un continuo processo di riscrittura del sé che gli consenta di posizionarsi in modo de-centrato, dis-locato, dis-identificato, al di là delle regole.”.[2] E tale è sicuramente Beatrice Hastings, così come emerge dagli scritti presenti in questo volume. Soprattutto Hastings, come le altre donne eccentriche, riconosce nella scrittura un atto di sopravvivenza e di resistenza per le donne, e il segno della loro identità.
Per questo, Hastings, da oggetto di
rappresentazione è voluta essere soggetto di scrittura, ha voluto raccontarsi,
non farsi raccontare, non stare dentro una narrazione tutta declinata al
maschile. Per Beatrice il femminile è percepito come l’altro rispetto al
maschile, una alterità che emerge nella scrittura del sé che irrompe nel testo.
Beatrice, infatti, scrive mettendo in
campo la sua identità, la sua autobiografia e la sua esperienza, in una forte
correlazione tra identità femminile, corporeità e scrittura/autorialità. Il
corpo e la sua materialità si riflettono nella scrittura di Hastings in un
discorso complesso e ricco di sfumature.
La scrittura di Hastings, a prima vista
avvertita come complessa, difficile, astrusa, non è una scrittura estemporanea,
anzi è il frutto di una ricerca consapevole, muove da una esigenza e da una
constatazione precise. Nasce dalla consapevolezza che il linguaggio non è mai
neutro, e che quello dominante è un linguaggio tutto al maschile che esclude la
donna; per millenni l’uomo si è espresso in una lingua della quale era padrone,
e avere la padronanza della lingua significa esercitare un dominio, un potere
fortissimo. Quindi è difficile per una donna esprimersi in una lingua che la
esclude, in un linguaggio nettamente patriarcale e inadeguato per la donna che
deve far emergere la sua differenza.
Nasce da qui l’esigenza di una
teorizzazione prima e di una elaborazione poi di una scrittura, di un
linguaggio, di un testo che portino con
sé tracce di un vissuto diverso, tracce del sé che diventano parte della
testualità, una lingua, un testo, quindi,
intessuti, intrecciati alla materialità dell’essere donna.
Tale teorizzazione avviene già negli anni giovanili di Beatrice Hastings, ed è rintracciabile nel paragrafo di “Note d’Oriolo
II”, pubblicato nel periodico The New Age il 18 aprile del 1908, pagine
estremamente complesse dal punto di vista esegetico, ma significative nella
vita personale e artistica di Beatrice.
Hastings, oltre a un profonda
riflessione sull’arte, sulla creazione artistica, sul rapporto tra arte e vita,
arte e realtà, e una accorata meditazione sulla condizione politica delle terre
d’Africa, in queste pagine sente
la necessità di portare avanti una revisione del canone linguistico e
letterario, sente la necessità di
ritrovare una tradizione al femminile, di riscoprire le voci delle madri. Inizia
così un lavoro di rilettura e revisione del linguaggio. E’,
in una certa misura, il concetto di revisione che, anni dopo, sosterrà Adrienne Rich, quando nel famoso saggio “When
We Dead Awaken: Writing as Re-Vision”, sottolinea l’importanza dell’atto di “ri-guardare, di vedere con occhi nuovi un
testo vecchio da una nuova prospettiva critica”. Analogamente Beatrice Hastings
opera questo atto di revisione, più che sui testi, sul linguaggio,
sottolineando implicitamente la correlazione tra linguaggio/identità di genere.
Simbolicamente Beatrice affida la sua
ricerca linguistica, la sua teorizzazione, alle pagine dedicate all’Africa. Qui
entra con forza la sua esperienza giovanile in terra d’Africa con tutte le
suggestioni sensoriali, percettive, mitiche, magiche e, non ultime,
linguistiche, che tanta parte hanno avuto nella elaborazione di una sua
personalissima idea di scrittura.
In questo contesto storico-esistenziale africano,
Hastings ha costruito la sua Heimat che,
come dice Elisabeth Jankowskj nel suo saggio “Ascoltare la madre”, è “un
concetto legato alle relazioni affettive stabilite durante l’infanzia con
persone, la lingua madre e il luogo d’origine”, e ha imparato a diffidare
delle lingue egemoni, delle civiltà dominanti, di fisse identità. La lingua
materna è per lei associata all’idea di una casa che non è una città o uno
stato, ma un luogo di relazioni dove può ascoltare ed essere ascoltata.
L’Africa, per Beatrice Hastings,
rappresenta, infatti, il punto di
partenza, il materno, il punto comune da cui ha origine il femminile, il
recupero di una dimensione prelogica, prestrutturata, con i suoi elementi
liberi, anarchici, da dove ripartire per una rinominazione, una
risignificazione nonché riscrittura delle
cose, del mondo.
E’ l’Africa a fornire a Hastings il
nutrimento della lingua materna, l’Africa sarà per lei sempre la madre da cui
si proviene e alla quale si ritorna.
Come afferma Hélène Cixous, le donne scrivono con
l’inchiostro bianco, cioè con la memoria
del latte materno che scorre dentro di loro, il loro corpo/testo è “una
traversata di fiotti canori”.[3] Trovo
estremamente significativo questo coincidente riferimento al canto, i “fiotti
sonori” di Cixous e il canto dell’oriolo di Hastings, uccello reale e simbolico
nello stesso tempo. E’ il suono, la vibrazione della terra, è la voce materna
che ci accompagna per tutta la vita come un brusio, una nenia, quella che Ida
Travi in “Poetica del basso continuo” definisce come “[…] qualcosa di basso
e ripetuto, anche un po’ ossessivo, qualcosa che si poteva misurare facilmente,
qualcosa di molto imparentato al battito del cuore ...”.[4]
E Beatrice scrive, in Note d’Oriolo IV
(The New Age, 25 luglio 1908), creando una forte connessione tra suono e
parola: “Sillabe che si gonfiano in un
suono, […] Le ascolto avvolgendosi nella spirale della mia mente: e il mio
orecchio intorno le va accordando. Spuntano sulle mie labbra e dico A con l’erba,
B con le api, O con gli uccelli […]
cantano la canzone che Eva gli insegnò.”.[5]
Si afferma così una scrittura che si
riconosce in una fluidità senza fine, un parlare del corpo sulla pagina bianca
in segni che affermano la differenza e il potere dell’immaginario femminile. Il
testo diventa allora un’opera aperta fondata sulla circolazione del desiderio,
dell’eccesso, dell’arcaico perduto di cui emergono però delle tracce.
Nel paragrafo Note d’Oriolo II, Beatrice
Hastings si riferisce ad un viaggio attraverso il deserto, una terra desolata,
una regione della pre-parola, per cui l’atto di Hastings di ordinare gli
oggetti in una lista, equivale all’atto di rinominarli. Vuol dire rivendicarli
e ridare loro una nuova esistenza, una nuova carica di significazione.
“Acqua
: fango : albero : mobilio chippendale
Acqua
: fango : girino : cotolette de crapaud
Acqua
: fango : io : aulici versi.
La
vita si fa beffe di chi vuol fare un inventario”[6]
E’
una esposizione oggettivante, paratattica che si affida alla variazione
nell’identico. Le combinazioni semantiche sono infinite, non è possibile quindi
una cristallizzazione della parola in un significato univoco, come invece fa il
linguaggio normato. La parola, quindi, si apre ad una libera associazione di
idee, di immagini, di senso, che è prima di tutto libertà di pensiero,
fantasia, immaginazione.
Hastings si avvia, così, ad elaborare un
nuovo stile spezzato, vario, che assecondi il flusso mutevole dell’esistenza,
uno stile che possa infrangere il
decoro, la compostezza omogenea della
scrittura.
Scrive più avanti, sempre in Note d’Oriolo II, “Non abito tempio alcuno. Quant’è rigido il linguaggio, sfuggente il pensiero. Scrivo, per i poeti, che eternità di pensiero separano parola e parola […]”.[7]
Da queste premesse Beatrice Hastings approda, così, ad un linguaggio e uno stile
che potremmo definire burlesque: uno
stile leggero e sofisticato, vario e mosso, perché, secondo Beatrice, varia e
mossa è la vita, è la realtà. Un
linguaggio, uno stile in cui convivono seduzione ed ironia, con una buona dose
di esibizionismo e di verve parodistica, a tratti sarcastica. Un lessico, un
sistema linguistico, tutto al femminile che innova, certamente, ma che, al
tempo stesso, attinge alla lingua arcaica, ancestrale, che quindi si muove tra
il nuovo e la tradizione.
Una scrittura solo apparentemente
disorganica, divagante, sempre appassionata, dirompente, a tratti lirica,
soprattutto nelle pagine dedicate all’Africa.
Una
lingua aperta, quindi, ma nello stesso
tempo lingua sincera, aderente all’oggetto, perché, come la lingua materna a
cui tende, “è concreta, non astrae.
Perché è dinamica, narra per eventi … va avanti non si sofferma”,[8] e
ancora “Una lingua che nomina le cose per
quelle che sono: questa è la bocca. Questo è il seno. Questo è un albero.
Questo è un uccello. Questo è un fiore … Una lingua che nomina quello che è,
nient’altro. Non ci può essere fraintendimento. Eppure si tratta di tutt’altro.
Questo può fare la lingua parlata sul nascere: indica la realtà mentre crea
immagini.”.[9]
Mi sembrano riflessioni che ben si
attagliano alle sperimentazioni che Hastings andava svolgendo nei primi anni
del ‘900 sul linguaggio e sulla scrittura, e che ci testimoniano una filiazione
e una convergenza tra donne, tra intellettuali e poete, che va assolutamente
evidenziata.
Una scrittura fortemente aderente alla
realtà certamente, quella di Hastings, ma con ampi ricorsi all’immaginifico,
individuando nell’immaginazione una qualità sapienziale e rigeneratrice, una
funzione trasgressiva, rivoluzionaria, il fulcro da cui far partire le sue
istanze libertarie e di opposizione alla normalità programmatica che costringe
gli individui dentro una uniformità mediocre e grigia, reprimendo gli slanci
del gioco e della fantasia, della bellezza e della libertà.
Una lingua, quindi, divergente,
eccessiva, eccentrica, oppositiva anche e soprattutto alla imperante normazione
maschile, per questo inaccettabile e di
fatto inaccettata dall’egemonica presenza maschile nel mondo culturale di
inizio novecento.
E’ quanto di solito gli uomini
intellettuali rimproverano alle donne di scrittura, di essere eccessive,
umorali, irrazionali, sentimentali. Ad Antonia Pozzi, per esempio, è stato rimproverato, dal suo amico Remo Cantoni, un
certo “disordine” nella scrittura, nel suo poetare, che era
però anche disordine nelle idee, nella vita. In realtà quello che disorientava
Cantoni, e che non sapeva cogliere nella scrittura di Pozzi, era il fatto che
più che di disordine nella scrittura di Pozzi
c’è uno scarto, un non allineamento. Come Antonia Pozzi anche
Beatrice Hasting non si muove a suo agio nell’ordine del discorso che crea
costantemente un sistema, se ne tira fuori, ed elabora un suo ordine basato
sullo sbilanciamento, sullo squilibrio.
Per Hastings è paradigmatico in
proposito l’atteggiamento di Ezra Pound.
Ezra Pound scrisse un articolo, all’indomani
della partenza di Hastings per Parigi come inviata del The New Age, comparso
nel 1918 sul giornale di Chicago “The little review” di Margaret Anderson, dove
troviamo queste parole: “uno dei
fondatori (del The New Age, cioè Alfred Orage) si è finalmente liberato di un’amante che può essere considerata una
puttana e che scrisse copiosamente nel giornale, interferendo con tutti gli
autori degni e, generalmente, volgarizzando il giornale. Lei è - grazie a Dio –
andata nel continente ed è stata sostituita qui (spero permanentemente). C’era,
nel precedente ordine delle cose, una costante smania editoriale di provare il
primato della scrittura femminile (che sfortunatamente lei non rappresentava).
Il giornale adesso stampa occasionalmente articoli leggibili”.
Questo articolo di Pound è la replica a
posteriori di uno scritto, non l’unico, di Hastings uscito sul The New Age,
nell’ottobre del 1913, in cui lamentava la presenza copiosa e dilagante di
Pound nel giornale (Pound fu assunto nel giornale nel 1908, dopo il suo arrivo
a Londra) e ne criticava lo stile, giudicandolo “ambrosia réchaufée dal poeta più semplice che io
conosca”.
Gli scontri tra i due furono forti e
numerosi. La reazione di Ezra Pound è quella consueta degli uomini di fronte
alle critiche che vengono loro mosse dalle donne: il discredito, la censura, e
la rimozione.
Beatrice Hastings è stata sicuramente
una donna divergente, deviante dal modello programmato, fuori dalle figure della
femminilità codificata. Con i suoi scritti ha detto la rivolta,
l’insubordinazione. Ha rivendicato il suo essere femminile attraverso una
scrittura la cui cifra è l’eccesso, la dismisura. Beatrice ha fatto della
scrittura il luogo per eccellenza della sua individuazione e lo strumento del
suo stare al mondo.
Per Hastings - come sarà per Audre Lorde
- la possibilità di sottrarsi alla violenza del linguaggio che inchioda in una
identità passa attraverso la rottura del silenzio, attraverso la possibilità della
presa di parola, e Hastings è stata donna di parola, donna sostenuta dalla
parola e dal corpo, entrambi liberati dalla censura e dalla rimozione. Era
quindi inevitabile che fosse avvertita come un’infrazione, una devianza, e
quindi andava cancellata e dimenticata.
E’ l’uso sovversivo del linguaggio, che
permette la resistenza all’atto linguistico del potere, ma è un uso complesso,
difficile da esercitare, perché il linguaggio del potere è sempre capace di
riassorbirlo, di ripiegarlo all’interno del proprio discorso.
Da qui l’imperativo di opporre la
propria singolarità, la propria divergenza. L’infrazione di Beatrice Hastings è
tutta in una costante tensione verso l’emersione della singolarità, perché la resistenza, alla violenza del mondo, del
pensiero, del linguaggio dominante maschile, si situa proprio in ciò che il
linguaggio non può afferrare, cioè nella singolarità insostituibile.
E’ un nuovo uso del linguaggio che fa riferimento
al legame della parola con il corpo, che non è mai un corpo in generale, ma
sempre un corpo singolare al confine tra molte identità; anche in questa chiave
vanno lette le molte identità in cui Hastings si declina,
le molte definizioni di sé che sfondano i confini delle identità decostruendole
e moltiplicandole. Per questo la
riscrittura delle parole per Hastings deve passare attraverso un riscrittura
del corpo, e attraverso lo spostamento del corpo biologico in testualità
vivente. Il corpo è quello sessuato, è il corpo desiderante, capace di
stabilire legami, di costituirsi come testo, attraverso quello che Lorde chiamerà
“il potere dell’erotico”. E’ un corpo
che parla con la propria voce, facendo risuonare a suo modo il suono delle
parole, impregnandole del proprio stile, apponendovi la propria firma,
inventando i propri pseudonimi, enunciandosi, performandosi e
reinterpretandosi. In questo modo le parole determinano nuove configurazioni
del reale, nuovi rapporti, strutturando un mondo in cui le differenze non
subordinano e separano, ma mettono in comunicazione.
[2] Botta, Farnetti, Le eccentriche scrittrici del Novecento, Tre Lune ed., 2003
[3] Hélène Cixous, “Il riso di Medusa”, 1997, p. 230
[4] Ida Travi, “Poetica del basso continuo. La scrittura, la voce, le immagini”, Moretti&Vitali ed., p. 15
[5] Diotaiuti, Tortora, Beatrice Hastings in full revolt, 2020 p. 137.
[6] Ibidem, p. 130
[7] Ibidem p. 132
[8] Ida Travi, “L’aspetto orale della poesia” Moretti&Vitali ed., 2007, p. 38
[9] Ida Travi, “Poetica del basso continuo. La scrittura, la voce, le immagini”, Moretti&Vitali ed., 2015, p. 61