lunedì 24 marzo 2025

Beatrice Hastings. Breve nota su un diverso modernismo. Di Simone Turco. Per gli Atti del Primo Convegno di Studi, Le Cicale Operose, 2021.











Articolo di Simone Turco per gli Atti del Primo Convegno di Studi su Beatrice Hastings, Le Cicale Operose, 2021.


Beatrice Hastings. Breve nota su un diverso modernismo. Di Simone Turco


Dal punto di vista formale, la corrente modernista, specialmente in àmbito letterario, sfugge a una definizione univoca. Descritta alternativamente come reazione al pensiero realistico e positivistico o come sua evoluzione, essa in realtà ha inglobato e modificato i caratteri propri di tali correnti. Sono infatti modernismo sia lo stream of consciousness[1] woolfiano e la sintassi joyciana, miranti a ridurre la distanza tra il pensiero e la sua formulazione linguistica con la proposizione di una modalità espressiva intrinsecamente primitivista perché meno strutturata e stratificata nella lingua ‘grammaticale’, sia l’elogio della macchina da parte dei futuristi e dei vorticisti, fenomeni che dunque equivalgono a un parossismo del pensiero positivista[2].

            Il problema non è nuovo, e inerisce alla difficoltà di definizione di correnti tanto multiformi; tanto che ‘modernismo’ potrebbe più facilmente essere mantenuto come mero cappello cronologico anziché aspettuale, così come, per inciso, potrebbe e dovrebbe essere fatto anche con il positivismo[3]. Se la caratteristica comune attribuita ai vari ‘modernismi’ è la volontà di sperimentazione, è pure vero che questa non si è declinata solo in senso contemporaneistico o di rottura con le forme precedenti, ma in alcuni autori si è sostanziata in una riproposizione quasi sostanziale di forme che secondo la definizione più stretta di modernismo sarebbero ritenute eccessivamente ancorate ai modelli precedenti per esservi incluse[4]. Ad esempio, come ha osservato Sasha Colby a proposito di Pound, il cui nome è divenuto sinonimo di modernismo letterario, si nota un “recapturing of the historical moments that pointed out the path to the future […] If Pound succeeded in creating an agenda for modernism, it was partly through a mining of the strata that come before”[5]. In questo, Pound è certamente, ad esempio per il suo afflato dantesco, il più ‘antichista’ tra i modernisti.

            Un esempio d’elezione, sul quale ancora troppo poco si è scritto e si è riflettuto accademicamente, è quello della cosmopolita Emily Alice Haigh, ovvero Beatrice Hastings (1879-1943). Come viene messo brillantemente in luce nella recente raccolta di scritti curata da Maristella Diotaiuti e Federico Tortora[6], l’esperienza della Hastings si pone come rivoluzionaria rispetto ai canoni artistici e, in generale, culturali del suo tempo. Anzi, con il vitalismo che ella manifesta vengono sottolineati i tratti reazionari di parte della corrente modernista, la quale, in molti suoi settori – pur ostentando rivolta, sperimentalismo e innovatività –, relegava ancora politicamente e culturalmente la donna a un ruolo accessorio; ciò a riprova della multiformità della corrente stessa e della sua intrinseca contraddittorietà.

            Se la Hastings saggista e giornalista si presenta come un’intellettuale poliedrica, con una vena polemica incontenibile e con posizioni forti ma tanto ragionate da risultare, spesso, difficilmente confutabili[7], la Hastings creatrice di poesia mostra un carattere a prima vista perfettamente inscrivibile in canoni formali della poesia vittoriana. Dal punto di vista formale, risalta quasi automaticamente l’impiego di elementi morfologici arcaici che sono la norma nella poesia classica inglese.

 

Da Metamorphosis (1908)

 

The foul Apollonian enchanter

Has laid upon me his dark finger:                            2

Know ye not – ceaselessly bleating –

Me, my companions?                                               4

 

[…]

 

Hath not my mouth aught familiar,

Bleeding to utter its secret?                                     8

Pass ye not by! Shall Selene

Gaze on me, beaten, encysted                               10

Thus in this bovine?

 

 

Si noti l’alternanza delle forme has e hath, nonché il pronome ye, che costella l’intero testo, e l’arcaico aught invece di anything. Si noti anche la sintassi, che appare volutamente classicheggiante. Il componimento è datato al 1908; ma all’occhio di un lettore aggiornato sulle mode letterarie d’inizio Novecento, apparirebbe indistinguibile dal pezzo di un autore radicato nelle convenzioni vittoriane e, anzi, decisamente refrattario alle proposte moderniste. Ciò è ancor più evidente in Bacchanal and Nymph (1910), che si riporta integralmente:

 

He caught one day a Naiad in the cool:

She smoothed her glistening limbs upon a bank.                2

He watched her as she formed from out the pool.

The depth of one brown bulb the water sank.                     4

 

He asked her whom she loved and who loved her:

She sang a song of wooing Heroes-won!                            6

A shout from some wild huntsman startled her.

He loosed her, snatched again, but she was gone.               8

 

A bubbling wave be-dimmed the surface gloss.

The bubbles died, yet no nymph did he see.                      10

He stared where late her form had pressed the moss,

But there not, nor in all the pool was she.                          12

 

 

Sebbene la lingua risulti più libera dai formalismi ottocenteschi e più vicina a una sensibilità novecentesca, qui sono la forma a sonetto (benché sui generis) e la rima strettamente alternata a dare dell’insieme un’impressione di assoluto rigore formale, in questo caso persino meccanico. Il medesimo pattern è rinvenibile in altri componimenti, che uscirono tutti sulla celebre rivista The New Age, la quale tra il 1894 e il 1938 accolse, assieme agli esponenti di valori sociali e politici innovativi, anche gli scritti di quei poeti che hanno formato il cuore della corrente modernista. In questo contesto, l’opera poetica di una “rivoltosa” come la Hastings risulterebbe – per fare un esempio estremo – molto meno rivoluzionaria e sperimentale di quella d’un autore cronologicamente vittoriano ma poeticamente unico e innovativo come fu G.M. Hopkins.

            La contraddizione fra questi due lati, nella Hastings, ad oggi non è stata spiegata in termini soddisfacenti. Eppure dovrebbe esserlo, tenendo conto di esperienze sostanzialmente differenti come quella, appunto, di Hopkins, e della nozione binomiale di rivolta e di conformismo. E qui si possono menzionare due esempi opposti: Alfred Tennyson (1809-1892) e, appunto, G.M. Hopkins (1844-1889), che possono essere impiegati come touchstones per un’analisi dell’autrice.

Tennyson fu un apprezzatissimo esponente dell’epoca sua, tematicamente e ideologicamente inscritto in essa, tanto che il suo nome è associabile per antonomasia al vittorianesimo nei suoi aspetti più idealistici. Ciò non significa che il suo pensiero – beninteso – vada perfettamente a collimare con ogni istanza politica e culturale propalata dalle varie correnti politiche sviluppatesi nel lungo regno di Vittoria; politicamente orientato alle posizioni Whig (e poi sostenitore del Liberal Party), egli spesso espresse per iscritto opinioni politiche difformi da quelle ufficiali. Per promuovere l’impero, però, “Tennyson was forced to overlook some of the seamier aspects of colonialism, and to turn a blind eye to the horrors of war”[8]. Pertanto, la sua è un’estetica più aderente ai valori del suo secolo, più vicina alle posizioni conservatrici e meno associabile a un contesto di cambiamento e di innovazione. Egli incarna un modello definito: non poeta di Corte, ma senz’altro poeta favorito dalla Corte . Le tensioni soggiacenti alla sua visione del mondo, che pure furono molte e articolate, a partire dalla particolarissima visione del cristianesimo e dal suo rapporto con l’estetismo preraffaellita, vengono in qualche modo normalizzate[9].

            Diverso è il caso del contemporaneo, ma più giovane, Hopkins. Egli vive una privatissima stagione creativa sperimentale, con l’elaborazione delle nozioni poetico-filosofiche di inscape e instress e la teorizzazione del sistema prosodico definito sprung rhythm. Al contempo, si converte al cattolicesimo e si fa gesuita; aspetti, questi, che lo allontanano dalla sensibilità comune alla compagine culturale inglese maggioritaria. La sua fama, postuma, è in gran parte dovuta alla ricezione dei suoi princìpi poetici in àmbito modernistico, poiché le contraddizioni e i dubbi che si rinvengono nella sua complessa produzione poetica e nella sua storia personale furono messi in relazione – forse anche semplicisticamente – con l’esistenzialismo, in maniera analoga a ciò che avvenne nel caso di Kierkegaard[10].

            Tra Tennyson e Hopkins è chiaro che l’etichetta – seppur approssimativa – di rivoluzionario possa essere attribuita al secondo, se per rivoluzionario si intende, a parità di grandezza complessiva degli autori in questione, un gradiente di difformità rispetto ad alcuni comuni valori che definiscono l’epoca storica in cui vissero. La tendenza invalsa nel giudizio sul modernismo, però, è stata per lungo tempo quella di definire innovativo e rivoluzionario chi si fosse posto in un rapporto di opposizione o rottura formale con tutto ciò che l’aveva preceduto, il che risulta nuovamente in un’eccessiva semplificazione. Secondo tale principio, Hopkins risulterebbe rivoluzionario dal punto di vista strettamente poetico perché la sua opera rompe con gli schemi vittoriani; ma allo stesso tempo sarebbe antimodernista nelle scelte di vita, che anziché tendere a una liberazione dalle costrizioni (e il vittorianesimo ne presenta moltissime) vanno verso un ultraconservatorismo ancora più restrittivo di quello inglese ottocentesco. Essere inglesi e diventare cattolici (come Newman), e per giunta gesuiti, era considerato, culturalmente, in modo deteriore, poiché equivaleva a sottoporsi a un potere religioso – e in parte politico – straniero storicamente avversato dalla nazione che, fra le prime in Europa, si era violentemente affrancata da tale potere. Nell’Ottocento, periodo di articolatissimi dibattiti religiosi, la retorica sulla grandezza e sul progresso della Gran Bretagna passa anche attraverso la magnificazione dell’indipendenza confessionale rispetto al cattolicesimo professato da tanta parte dell’Europa continentale[11]. Il farsi cattolici è visto, nella cultura maggioritaria, quasi come un rinnegamento delle conquiste in termini di libertà da parte della Madrepatria.

            È qui che s’inserisce il discorso su rivolta e rivoluzione culturale e sulla percezione e definizione di tali concetti. Seppur ultraconservatrice – anzi, reazionaria – sul piano religioso, nella scelta confessionale di Hopkins si ravvisa un’ulteriore conferma, e non una sconfessione, del suo carattere rivoluzionario. Questa posizione può essere sostenuta a patto che il gradiente di ‘deviazione’ rispetto alla norma valoriale e comportamentale non sia giudicato in senso qualitativo bensì obiettivo. In pratica, è rivoluzionario anche chi, in termini storicistici, non ‘va avanti’ ma ‘torna indietro’ rompendo, in qualche modo, con gli schemi culturali vigenti. Un inglese che si fa gesuita in epoca vittoriana è un rivoluzionario[12], così come – tornando all’argomento principe di questa trattazione – lo è un’autrice quale la Hastings che predica e pratica la rivolta ma che, quando scrive, reitera regolarmente schemi formali che non appartengono alla nascente corrente nella quale ella viene – giustamente – inscritta. Nel suo caso, scrivere versi calcati su schemi fortemente legati alla tradizione e alla metrica classica in un momento in cui lo sperimentalismo imperante imporrebbe un cambiamento di direzione e un’ulteriore liberalizzazione delle forme poetiche equivale a un atto di rivolta.

            L’ostentazione di tradizionalismo formale è dunque, nel caso della Hastings, una critica nella critica; pare essere intesa ad affermare che ogni movimento di insurrezione, allorché questa diventi etichetta permanente, automaticamente si cristallizza e perde il suo valore insurrezionale. Infatti, lo sperimentalismo continuo non può essere indice di cambiamento, poiché diviene esso stesso una moda e come tale perde di genuinità. Il riconoscimento di questo paradosso è senz’altro parte integrante dell’esperienza poetica hastingsiana, e rivela un’ulteriore particolarità dell’autrice: la piena rivolta (che è, appunto, ‘piena’ e non ‘continua’) va vissuta come stato sostanziale e ontologico, non formale. A dover essere giudicati rivoluzionari sono quindi gli esiti contenutistici e concettuali, non formali; il fatto che un poema sia scritto con crismi sperimentalistici non ne fa un’opera di per sé innovativa. Ed è quindi vero anche il contrario.

Si prenda, quale esempio, il noto poema Vashti, dedicato all’omonima regina medopersiana (Vasti, in italiano) menzionata nel Libro di Ester. Se possibile, la forma del poema è ancora più tradizionale rispetto alle poesie citate sopra. Si tratta di una canzone composta da quartine a rima alternata in cui ogni verso corrisponde metricamente al verso omologo di ciascuna quartina. Inoltre, viene reiterata la scelta lessicale e morfologica antichistica rilevata anche per altri componimenti. È chiaro, qui, un tentativo di rivivificazione del mito in chiave moderna, ossia una trasposizione valoriale dalla tradizione (in questo caso quella biblica) a una controparte contemporanea.

Questa gabbia formale contiene un messaggio di un’innovatività sconvolgente rispetto ai valori del mondo in cui si è formata l’autrice e contro cui combatte. La poesia agisce “recuperando la storia e riconsegnando un evento e una figura di donna al presente, affinché funzioni dentro una genealogia femminile che può essere da esempio e da spinta propulsiva”[13]. I contenuti sono infatti basati sul racconto biblico secondo cui la regina, essendosi rifiutata di danzare per il diletto degli ospiti del re Assuero a un banchetto, sarebbe stata ripudiata. Si tratta di un rifiuto di compiere un atto che l’avrebbe relegata a essere “oggetto privo di consapevolezza e volontà”[14]. La forza di tale rifiuto sta nell’implicita ribellione non soltanto al sistema patriarcale, ma anche al potere in generale in quanto agente propulsivo che sempre tenta di soffocare la spinta libertaria.

E qui si scorgono la complessità dell’intreccio e la problematicità delle questioni sollevate dall’autrice, poiché Vasti pare rendersi perfettamente conto che il suo atto di sfida ha tanto maggior valore dato che lei è regina, cioè costituisce simbolo e catalizzazione del potere (To-night I am Queen!, v. 21; […] A thousand lamps light / The Feast I have holden, vv. 23-24). Quando non sarà più regina, venendo deposta, la sua memoria e la forza ch’essa ispira potranno essere dimenticate, poiché ogni azione ha tanta più risonanza quanto più è grande il suo agente. Ecco quindi il messaggio finale:

 

Rise up, O Women! and sound out your chorus,

Lift high each head serene:

Leading the Banquet of Freedom before us,

Vashti, this night, is Queen. (vv. 25-28)

 

Vasti diviene così un ente collettivo in cui ogni donna può rispecchiarsi, e il suo banchetto diviene una ‘festa della libertà’, la libertà di scelta, per la quale combattere. Lungi dall’essere sessista, questa è un’impostazione che parte dalla constatazione di uno stato di inferiorità indotto, una condizione indipendente dalla diversità fisiologica tra uomo o donna; ciò che l’autrice contesta è primariamente la discriminazione dovuta a una idealizzazione del sesso femminile quale mentalmente più debole e quindi incapace di esercitare una volontà propria. Persino quando ricopre una carica tanto elevata come quella regale, ella resta, agli occhi altrui, sempre donna, e quindi la sua facoltà decisionale viene costretta e limitata.

            Pur essendo questo un messaggio comune alla compagine femminista primonovecentesca, è innegabile che la Hastings sviluppi il tema con inusuale finezza, impiegando un linguaggio paradossalmente tradizionale e, al contempo, infondendo ai contenuti poetici una forza semantica derivante, in parte, dal contrasto con le dette forme tradizionali. Altrove, specialmente in quei componimenti che non si rifanno al mito e nei quali non sarebbe forse giustificato iuxta lo stile suo, il linguaggio poetico appare invece del tutto svincolato dalle norme sintattiche e dalle scelte lessicali classicheggianti. È il caso di Mind Pictures (1909), dove viene applicato una sorta di stream of consciousness poetico che riporta a un simbolismo quasi minimalista, teso a cogliere nell’attimo in cui l’immagine si palesa alla mente un valore ontologico, che colpisce immediatamente il lettore per la sua chiarezza morfologica e al contempo disorienta per la pluralità di significati ascrivibili all’immagine stessa. E ciò è indice di quel modernismo ‘canonico’ menzionato sopra, tra lo sperimentale e l’anti-ottocentesco.

            È evidente che la Hastings rappresenta uno dei volti più comprensivi e meno stereotipati di quello che sarebbe poi stato fissato come ‘movimento modernista’, in cui la rottura degli schemi avviene prima di tutto a livello tematico. In questo è forse più modernista della Woolf, la cui innovatività dipende, in larga misura, da una strutturazione formale ‘multiprospettivista’ giudicata deviante rispetto agli schemi narrativi precedenti. Inoltre, la Hastings compartecipa del risveglio spiritualista che del positivismo è il volto più marcato, il cui prodotto è l’esperienza teosofica di Helena Blavatsky. La teosofia della Blavatsky è, peraltro, un filo rosso che sopravvive all’Ottocento e si impone, con varie derivazioni e ramificazioni, nella cultura dei primi decenni del Novecento, andando a formare una vera e propria controcultura i cui princìpi vengono poi ripresi dai movimenti (contro)culturali del postmodernismo.

L’interesse per la teosofia e l’apologia della Blavatsky da parte di Beatrice Hastings (con il suo Defence of Madame Blavatsky, 1937) possono essere letti, anch’essi, da una parte come espressione di una continuità con la tradizione sapienziale – e dunque pre-industriale e umanistica – e dall’altra come un ulteriore parcours à rebours; un modo per portare avanti una critica al ‘mito virtuista’ (per usare una celebre espressione di Vilfredo Pareto) che prendeva piede proprio negli anni a cui risalgono le poesie citate qui e ribadire la sostanziale libertà, quasi magica, dell’essere pensante. È indicativo che il succedaneo di matrice teosofica che ebbe maggiore risonanza nel Novecento fu Aleister Crowley (peraltro intimo di Alfred Richard Orage, che fu anche direttore di The New Age e sostenitore di Gurdjieff), la cui fede thelemica è ispirata al principio della libertà assoluta e rappresenta il volto più controculturale, dal punto di vista sia morale sia religioso, della compagine modernistica. Idee magico-teosofiche e libertà, anche dalle costrizioni morali tradizionali, viaggiano dunque in parallelo. Loro catalizzatori sono le varie declinazioni del nonconformismo, spesso in contraddizione più o meno manifesta le une con le altre, dal socialismo al fabianesimo, dall’anarchismo alla mistica übermenschlich.

Beatrice Hastings si muove tra queste istanze operandone una metacritica assertiva, destrutturando e ristrutturando continuamente le loro basi teoretiche nel momento in cui esse si cristallizzano e dunque divengono meno genuine. È in tale ottica che vanno letti, ad esempio, i suoi attacchi a coloro che si ergono a leader del movimento per i diritti delle donne, perché le loro argomentazioni, facendo sovente leva sulle differenze tra i sessi, non fanno che promuovere paternalisticamente uno stereotipo d’inferiorità; nonché, iperbolicamente, le sue critiche alle donne, ‘peggiori nemiche di se stesse’ in quanto reitererebbero sovente schemi sociali autolesivi[15]. Quello della Hastings è dunque un femminismo pensato, che tiene in giusto equilibrio la spinta intellettuale (in special modo artistico-poetica) e l’attivismo politico e sociale, e cerca di praticare l’ideale libertario radicale senza scadere in clichés solo formalmente rivoluzionari che rappresentanto, in realtà, espressioni già logore della retorica progressista così comune in età edoardiana.

Si tratta, in ultima analisi, di un modernismo ‘altro’, avverso alle mode, necessariamente in polemica continua anche nei confronti dei suoi sostenitori; un po’ come avviene con la satira politica, il cui unico imperativo morale è quello di non poter parteggiare per nessuno e di essere, costantemente, in una condizione di ironica e beffarda equidistanza da ogni posizione, maggioritaria e no. Si può forse, in parte, spiegare così l’oblio cui Beatrice Hastings andò soggetta per lungo tempo, tanto da suscitare, anche in tempi relativamente recenti, un sentimento di pacata avversione. Tuttavia, considerando corretta la lettura qui proposta, il suo atteggiamento dovrebbe essere considerato invece come un valore aggiunto. Di conseguenza, l’autrice dovrebbe essere interpretata come quell’elemento coevo a ogni corrente ma che le appare estraneo sotto molti aspetti, il quale, proprio grazie alla sua presenza, dimostra di quella corrente – in questo caso il modernismo – la vitalità, l’eterogeneità e la connessione imprescindibile con il passato; un continuum che è anche, paradossalmente, un perenne punto di rottura.

 Simone Turco

 


[1] Il sintagma stream of consciousness appare in realtà come concetto legato allo studio della psiche in Principles of Psychology (1890), di William James; si veda Peter Childs, Modernism, London and New York, Routledge, 2000, p. 211.

[2] Ponendosi in prospettiva modernista, il movimento futurista sveste tuttavia il progresso tecnologico del valore teleologico attribuitogli nel pensiero positivo ottocentesco; ne è quindi un derivato diretto ma epurato. Si veda Serge Milan, The ‘Futurist Sensibility’: An Anti-philosophy for the Age of Technology, in Klaus Beekman et al. (ed.), Futurism and the Technological Imagination, Avant-Garde Critical Studies 24, Amsterdam – New York, Rodopi, p. 64.

[3] Per un’esposizione generale del problema, cfr. Carlo Guillén, L’uno e il molteplice. Introduzione alla letteratura comparata, Bologna, Il Mulino, 1992, pp. 431-446.

[4] Ad oggi la definizione corrente del termine nell’Encyclopaedia Britannica è, in primis, “a break with the past and the concurrent search for new forms of expression” (s. v. «Modernism»).

[5] Sasha Colby, Stratified Modernism: The Poetics of Excavation from Gautier to Olson, Bern, Peter Lang, 2009, p. 239. Colby chiama tale tensione verso il passato “Freudian archaeology” (ibidem).

[6] Maristella Diotaiuti e Federico Tortora (ed.), Beatrice Hastings: “in full revolt”, Livorno, Caffè letterario Le Cicale Operose, 2020. A livello internazionale si ricorda il volume di studio a cura di Benjamin Johnson ed Erika Jo Brown, Beatrice Hastings: On the Life and Work of a Lost Modern Master, Warrensburg (MO), Pleiades Press, 2016.

[7] Per una trattazione dettagliata ci si riferisca a Stephen Gray, Beatrice Hastings: A Literary Life, New York, Viking, 2004 (ried. 2012), che resta una delle compilazioni più complete sulla vita dell’autrice.

[8] Lawrence W. Mazzeno, Alfred Tennyson: The Critical Legacy, New York, Camden House, 2004, p. 153.

[9] Esiste su questo un’estesa bibliografia; cfr. il recente saggio di Nodeh Soghra, The Pre-Raphaelites and Tennyson’s Poetry, Hamburg, Lap Lambert Academic Publishing, 2015.

[10] Si veda, per una disamina, Mary E. Finn, Writing the Incommensurable: Kierkegaard, Rossetti and Hopkins, Literature and Philosophy Series, University Park, Pennsylvania State University Press, 1993.

[11] A testimonianza della difficile atmosfera esistente dal punto di vista religioso si hanno gli scritti di Newman stesso, il quale si sentì in dovere di esortare i cattolici inglesi: “Oblige men to know you; persuade them, importune them, shame them into knowing you. Make it clear who you are, that they cannot affect not to see you, nor refuse to justify you”; Duties of Catholics Towards the Protestant View, in Lectures on the Present Position of Catholics in England (1851) edito da Andrew Nash, Notre Dame, University of Notre Dame Press, 2000, p. 372.

[12] La concezione del mondo esposta poeticamente da Hopkins “rivela tratti di una religiosità ormai ‘propria’, scevra, nonostante i riferimenti teologici, dai tecnicismi del dogma ufficiale”; Simone Turco, ‘Poëta theologus’. Gerard Manley Hopkins «al paragone», in «Campi Immaginabili» 48/49 – 50/51 (2013), p. 203.

[13] Diotaiuti e Tortora, Beatrice Hastings, cit., p. 29.

[14] Ibidem.

[15] Cfr. il suo trattato polemico e paradossale intitolato Woman’s Worst Enemy: Woman, London, New Age Press, 1909.



Simone Turco. Genova, 1985

Allievo della comparatista Enrica Salvaneschi e della germanista Anna Lucia Giavotto, è studioso di Letterature comparate e di Storia delle idee. Specialista delle Letterature inglese e tedesca, conduce ricerche di critica semantica, prediligendo un approccio ermeneutico e transdisciplinare. Ha tenuto corsi di Studi giudaici (Ebraico), di Linguistica generale magistrale e di Letterature comparate e Storia delle idee presso l’Università di Genova, ed è direttore, insieme con la linguista Rosa Ronzitti, del periodico scientifico internazionale «Lumina. Rivista di Linguistica storica e di Letteratura comparata». È membro del comitato scientifico della collana «I Quaderni di Minerva», diretta da Davide Arecco (casa editrice Città del Silenzio), e della rivista «Kepos». Si è occupato, nell’àmbito degli studi di critica letteraria e culturale, del rapporto tra la cultura religiosa o para-religiosa e la letteratura, con particolare riguardo alla trasformazione dell’immaginario e dell’estetica attraverso la ricezione del pensiero magico antico entro la modernità, nonché alle relazioni tra filosofia, religione, politica e produzione letteraria. Sul versante linguistico, ha studiato l’applicabilità dei metodi d’indagine narratologica al linguaggio giuridico. È autore di decine di articoli e contributi in pubblicazioni nazionali e internazionali. Tra i suoi lavori: ‘Adel’ eckartiano, ‘nobilitade’ dantesca. La nobiltà nel pensiero di Meister Eckhart e nel Convivio, Trattato IV (Pisa 2011) “The Marble Faun”. Art, Nature, and Morals Between Classicism and Aestheticism (Roma [Canterano] 2020). Tra le sue traduzioni: J. Baillie, Saggio sul sublime, prima ed. e trad. it. di Essay on the sublime (Ro Ferrarese 2014); G. Grattacaso, The Will-Be World. Selected poems, trad. ing. da Il mondo che farà, a c. di S. Turco (New York 2022).