Per la rubrica Semiosfera in Interplay, a cura di Enzo Nini:
Semiosfera e Complessità: introduzione a un metodo jazzistico a tre dimensioni.
Definire le esperienze percettive è sempre difficile, io proverò a descrivere questa plurima possibilità, nonostante la sua apparente “complessità”.
Jurij Lotman ha chiamato SEMIOSFERA lo spazio nel quale i diversi sistemi di segni in una cultura, la lingua, l'arte, le scienze ecc., possono sussistere e generare nuove informazioni.
È un processo individuale che tutti conosciamo quando viaggiamo non solo come turisti , ma come facevano gli esploratori di una volta, immergendoci negli odori, nei suoni, nelle immagini, nell'area dei processi dinamici interrelazionali di un ambiente che cominciamo a conoscere, nel quale ci addentriamo e che complessivamente assorbiamo come esperienza di una determinata cultura.
È questo il caso in cui l'interazione avviene con dei fattori visivi, sonori, olfattivi che sinesteticamente noi viviamo attraverso i diversi linguaggi.
Un altro ambito in cui avviene questa percezione semiosferica è il sogno, il desiderio, l' amore.
Sono cose che “succedono” e che sono fortemente legate alla nostra psiche e alla nostra cultura.
Questo fin troppo lungo discorso è soltanto una premessa ad un'osservazione , a un metodo che può sembrare molto complesso; ma la realtà che ci circonda, anche quando ci appare familiare, è complessa. Quando vediamo una mela, la definiamo di colore rosso: da bambini la conosciamo così e quanto i bambini possono insegnarci sulle sinestesie espressive; quando vediamo il cielo lo definiamo più o meno azzurro; un bosco è verde e marrone; il mare è blu. Eppure se osserviamo davvero una mela da vicino, vediamo che le componenti visibili che ci fanno dire che la mela è rossa sono una falsa affermazione, perché in realtà è fatta di tanti altri colori. Così avviene col bosco, col mare col cielo: quanti verdi, quanti marroni, quanti colori fanno parte di quello che vediamo.
Lo sanno bene i pittori figurativi che prima dell’evento della fotografia cercavano di riprodurre con tecniche sempre più avanzate quello che vedevano.
Quindi quello che può sembrare complesso non è necessariamente “difficile” ma è solo composto da elementi percettibili che ne costituiscono la sua ricchezza e unicità estetica.
La “complessità” in tal senso, è quella dimensione che Edgar Morin, il grande filosofo vivente che da un bel po’ ha superato i 100 anni, ci invita a coltivare per capire davvero la realtà dei nostri tempi.
E quindi la complessità dell’Interplay può apparirci caotica come il centro di Napoli invaso dai turisti, ma se sappiamo muoverci nel modo giusto ne percepiremo i suoni e i colori come “unicum” dell’esperienza fatta.
L’Interplay è, nell’ambito della musica jazz, quel “viaggio” che intraprendono i musicisti dopo aver steso un tema convenuto verso l’avventura sonora che nessuno conosce fino alla sua realizzazione. Ci si ascolta reciprocamente mentre si esegue, comprendendo, nella sua esecuzione, gli stimoli e le provocazioni possibili.
L’Interplay è qualcosa di magico: immaginiamolo come sarebbe la comunicazione verbale umana se fossimo in grado di ascoltare mentre parliamo. Sarebbe un flusso verbale reciproco in cui la comunicazione è totale e quindi influenzata da quello che stiamo ascoltando e comprendendo(,) quindi producendo un dialogo sempre diverso e inimmaginato . Il dialogo infatti è inevitabilmente influenzato da quello che comprendiamo mentre esprimiamo l’inizio del nostro discorso precedentemente concordato quale tema dell’argomento. Importante e basilare è, quindi, saper ascoltare e comprendere per dialogare, contrastare o accompagnare coerentemente il discorso dell’altro.
L’Interplay è una sorta di palleggio di idee ascoltate ed espresse tra più persone, la cui reciproca e corretta comprensione permette un flusso coerente o in contrasto. Come una dialettica del linguaggio e dell’ascolto, che avviene nel tempo e sul tempo e nella mutua comprensione di un discorso non concordato.
Ognuno di noi ha un suo modo personale di ascoltare che si combina in modo maggiore o minore con quello di altri, esso dipende da vari fattori come la tradizione musicale a cui ci si riferisce; è comunque raro trovare due persone che ascoltino allo stesso modo la stessa musica. C’è chi ascolta conoscendo un repertorio più vasto di altri, chi riesce a selezionare culturalmente quello che sta ascoltando, chi si basa unicamente sulle proprie emozioni o su quelle prodotte dalla musica ascoltata. Nel caso del jazz noi stiamo parlando di una musica che è nata da una comunità e da una esigenza umana che definiamo prossimità e si è fatta comunità nel rapporto tra i musicisti e nel rapporto degli ascoltatori con i musicisti. In fondo quello che hanno in comune i musicisti e il pubblico è l’atteggiamento dell’ascolto: finalizzato e produttivo quello del musicista, fruitivo quello dell’ascoltatore, ma non è molto diversa l’attenzione con cui ci si comporta rispetto a un vero ascolto.
Ora immaginiamo lo stesso processo allargato alla parola: in tal senso noi quando dialoghiamo con altri improvvisiamo quello che diciamo, e, salvo che per parole che ci aspettiamo come un “pronto? ”, un “buongiorno!” o un “grazie” non sappiamo quello che ci verrà detto o che risponderemo in un dialogo: un Interplay appunto.
Durante un reading di solito il testo è determinato e la musica
agisce e danza intorno, ma immaginiamo che il lettore si comporti come il
musicista di jazz e modifichi il flusso sonoro delle parole sulle “provocazioni” musicali;
avremmo un reale Interplay a due dimensioni. Con l’arte figurativa avremmo un terzo performer che agisce
nel nostro Interplay. Non come quando il flusso sonoro tra parola e suoni
diventa una colonna sonora di tipo cinematografico, ma come “azione visiva”
estemporanea. Qui grazie all’elettronica,
le potenzialità visive possono interagire e variare quanto inizialmente
mostrato come tema, e l’ “azione visiva” diventa performativa e
interagente con gli altri linguaggi in tempo reale.
In altri termini i colori, e le forme elaborabili con un computer, le citazioni da “ritagli” di film o di altri riferimenti visibili evocheranno, mostreranno, agiranno sulla percezione visiva secondo lo stesso principio con cui abbiamo immaginato questo nuovo rapporto di derivazione jazzistica.
Un Interplay tridimensionale, quindi, di interazione come avviene per un quartetto di jazz, ma con possibilità di estetiche “tridimensionali” estemporanee.
Il discorso non finisce qui ma, come disse Frank Zappa, parlare di musica è come ballare di architettura per cui arrivederci alla prossima performance di jazz tridimensionale, di Semiosfera in Interplay.
Enzo Nini
Per chi volesse approfondire:
1. Ingrid Monson “Saying
Something, Jazz Improvisation and Interaction”
2. Jurij Mihajlovic Lotman “La semiosfera”
3. Edgar Morin “La sfida della complessità”