Nota di
lettura di Maristella Diotaiuti per il volume Non siamo tutti, qualcuno è in
galera, di Annamaria Travaglini, Edizioni del Boccale, 2016, scritta in
occasione della presentazione alle Cicale Operose in trasferta a Napoli
(Libreria Evaluna)
QUANDO LA FERITA SI FA LETTERATURA. DI MARISTELLA DIOTAIUTI
Scrivere è una forma socialmente
accettabile di schizofrenia, ha detto E. L. Doctorow in una intervista al Paris Rewiew, puoi combinarne
di tutti i colori e passarla liscia. Uno dei miei figli ha detto una volta –
una verità tremenda, e solo un bambino piccolo poteva dirlo - papà si nasconde
sempre nel suo libro.
Parole
illuminanti per il viandante sprovveduto che si avventuri senza lucerna per le
strade impervie di Annamaria Travaglini. Eppure il lettore è avvertito dal
titolo semanticamente ambivalente che minaccia
un’iperbole di senso. Chi è realmente in prigione e quali libertà sono reali o
possibili? e gabbie dentro gabbie sono lo scenario invisibile, perturbante che
ci comprime con tanta illusoria lusinga. Da credere di cadere senza farsi male,
come l’omino della copertina del libro che si fa filiforme per poter
agevolmente infilarsi nel taglio e passare dall’altra parte.
L’umanità
che Annamaria ci ammassa intorno – perché sono personaggi ingombranti,
materiati da farne una folla palpabile e opprimente – non suppone di farla
franca e di trovare una sutura a quella ferita dolorosa che la pone in antitesi
col mondo. Esseri sovraesposti, connotati da un desiderio inespresso e
inappagante, sono schegge di vite impossibili che si aggrumano senza lievito,
una schiera di creature inchiodate al proprio ruolo av-verso, per-verso,
di-verso, avvinti da più profondi legacci di quelli del T.S.O.
istituzionalizzato.
Le mani di
Annamaria sono impietose, affondano nella materia nera e ne compongono
microstorie sconfitte, sanno di essere sconfitte e vogliono essere sconfitte.
Tutto ha un
andamento straniante, spiazzante. Inizi di mediocre normalità ci dispongono ad
una lettura serena, a tratti identificante, e ti immagini lettore da fine
settimana che ti godi la sacrosanta meritata lettura borghese. E la scrittura
di Annamaria asseconda questa lusinga, ci accarezza con iniziali ampi periodi,
distesi in un lessico discorsivo, azzarda anche qualche aggettivazione, e il cursus è planus, è ascendente, è paratattico. Cosa c’è di
più rassicurante di una donna qualsiasi che intraprende un giorno qualsiasi di
una vita qualsiasi, con un ottimismo da sopore dei sensi, una gioia inebetente
di piccole cose da associazione cattolica? A patto di restare in casa, poi è
tutto uno scomporsi, uno sfaldarsi di quel losco essere iniziale, fasullo e
diabolico mascherato da angelica beghina, non regge il dialogo col mondo nel
suo vuoto assoluto di parole e di empatie.
Poi lo
scarto, improvviso come una cesura metrica. E quello che accade dopo ha un
sapore più amaro. A cerchi concentrici dilaga qualcosa che impietrisce in un
gesto il personaggio e lo fissa in una maschera tragica, può essere l’accensione
di un fiammifero, una lettura faticosa,
il lasciare le impronte del proprio pugno nella neve, o un sonno a due eternato
dallo scoppio di una bomba, un urlo definitivo nel silenzio della chiesa, o lo schianto
su un sogno. Perché si viaggia a vista sulle strade della
Travaglini, non ci sono regole sociali, morali, religiose che ci portino in
fondo al cammino senza pericoli. Unici segnali: i piccioni e poi piccioni e poi
piccioni, o, meglio, corpi di piccioni, senza vita. Inquietante metafora che
restituisce un surreale sussulto di ricerca di senso se, di fronte a quei
corpi-segnali, ci viene voglia di tornare con mente e occhi all’immagine più
rassicurante di decine e decine di altri piccioni allineati sotto i cornicioni
di vecchi palazzi, pacifici abitatori della notte disposti a sogni migliori con
il capo piumato sotto piumate ali.
Ogni
racconto è un microcosmo narrativo, e meriterebbe un’analisi isolata e
approfondita, perché sono racconti che, pur nella loro brevità, sono perfetti e
rimandano al migliore Buzzati ma con un valore aggiunto, lo sguardo femminile
sul mondo. Non è un caso, credo, che quasi tutti i personaggi siano femminili,
personagge dunque, che riscrivono una
nuova epica non più connotata secondo il canone della tradizione maschile, che
sperimentano la diversità, affermandosi come figure multiple, poli-segniche,
polisemiche. Ne deriva che, nell’economia generale del testo, nella struttura complessiva,
i frantumati capitoli si dispongono a far parte di un ordito fitto, accomunati
da un filo rosso, da un totalizzante messaggio o pensiero o sperimentazione del
sé che li sottende e li ricompone in una forma nuova di romanzo, di moderna epopea.
Ma questa è un’altra lettura.
Nell’immediatezza dell’urgenza, invece, l’organicità
del testo si frantuma, si atomizza, si destruttura, e, anche laddove c’è un
tentativo di agglomerare la materia intorno a un nucleo, una forza centripeta
interviene sul senso e il significato si incarna nel significante. Il lettore è
spiazzato, volutamente, e precipita in quell’apparente comprensione che rimanda
ad altra comprensione, come in un gioco di specchi.
E allora la
lingua si fa oggettivante, accumulativa, non concede abbandoni, lirismi o
accenti qualificanti che possano distrarre o alleggerire l’attesa. Il congegno
è meticoloso e punta alla progressiva scarnificazione dei personaggi, a
raggiungere il bersaglio ultimo della nuda significazione. Solo qualche
deviazione ironica e tagliente che nulla toglie ma aggiunge certo qualcosa alla
compiuta perfezione dei piccoli preziosi
capitoli. La prova linguistica di Annamaria è alta, e anche il gioco delle
metafore e delle compenetrazioni di senso, gli slittamenti semantici, come nel
bellissimo racconto della donna-ferita dove il corpo della donna si fa libro, parola,
si incarna nei bulbi e nei gangli della esperienza scritta, e ogni taglio
apportato sulla pagina da fantomatici censori di kafkiana memoria, si fa ferita
profonda, sanguinante nella carne viva.
Dov’è la via
di fuga, la salvezza? Un ospedale, la fede, un sogno, un ricordo, la gabbia del
cinismo? Non c’è balsamo e Annamaria lo sa e anche i suoi personaggi.
Per
Annamaria può essere la scrittura? Tutta proiettata così com’è a esprimerlo,
quello strappo, a veicolarlo, fa
oltrepassare la soglia?
Per
Annamaria il balsamo è altrove, nell’ “altro
libro”, quello che non ha subito tagli e che le lascia il corpo e l’anima
intatti, è in quel territorio dove è anche capace di suonare “decentemente” uno
strumento, dove poter esporre il suo furore e lo sgomento del vivere, la
perdizione nel nulla, la vertigine di affacciarsi sull’abisso e averne paura e
piacere insieme, le fratture tra l’essere e l’esistere, senza provarne vergogna
e angoscia, dove ricomporre il proprio mondo dimembrato, dove le riesce facile accogliere
tutto il dolore, tutte le paure, e ridarli sottoforma di pulviscolo luminoso.
E’ forse la poesia?
Annamaria si
chiede, e ci costringe a chiederci, che mondo è questo se per esprimere
tenerezza, cura, solidarietà, siamo costretti a comprare una tanichetta di
benzina da un benzinaio in difficoltà che non ne comprende il gesto, anzi lo
fraintende, e a versare gocce di quel
liquido in una piccola vita come fosse latte amoroso di mamma, perché quella
vita è limbo, o solitaria gemmazione bellissima e impossibile a schiudersi?
Atto d’amore terribile moltiplicato nelle assenze, nelle dimenticanze, nei
respingimenti, ai quali assistiamo quotidianamente, indifferenti ma sempre
allertati nella condanna.
Le creature
di Annamaria, figure del non-transito, non osano avvicinamenti, pericolosi
contatti. Lo sa bene Gloria che si attarda in un bar per carpire la vita che le
scorre intorno. L’impatto con l’altra donna è distruttivo, provoca la morte
immediata.
Ma voglio
finire con le parole di Gloria-Annamaria, perché se è vero, come è vero, che i
dialoghi sono interrotti, le solidarietà sospese, le nevrosi gli unici
meccanismi funzionanti, e gli esseri sono sempre più isole disperse e senza
approdi, una palingenesi futura è possibile. La si intravede dietro una porta molto bella e altrettanto pesante.
C’era un’ombra in movimento dietro al vetro, si muoveva lentamente mutando il
suo volume, a volte più grande subito più piccola.
Bisogna fare
in fretta o usare il lungo giro di un millennio, utilizzare le parole o il
silenzio, la scrittura, i colori, le pietre, le rivoluzioni, rifare i codici e
ri-predisporre le rotte, attuando il
piano di rieducazione alle forze primarie, solo con una persona, una
donna-nuova-Eva, solo con un uomo-nuovo-Adamo che si lascia liberare dalla struttura esistenziaria che ci fa forzati della vita.
Bisogna
farlo, in un attimo spostai l’anta e fui
dentro, dentro al tempo. In un tempo per vedere tutti i domani di tutti i
mondi, tutto il passato di ogni linguaggio, ogni forma di vita giocare col sé,
studiandolo bene per poi farne di niente…non avere paura…è un’interruzione
dello spazio, uno scatto del tempo. Un buco nero.
È il bene
improvviso che irrompe tra gli esseri affamati che li fa ubriacare, che non cambia il gioco ma ridistribuisce le carte. E così è possibile la narrazione, il
racconto, la poesia.
M. D.