lunedì 13 gennaio 2025

Virginia Farina. Nota di lettura di Maristella Diotaiuti.

 


Nota di lettura di Maristella Diotaiuti per il volume Oltremare, di Virginia Farina, 2020, Terra d'ulivi Edizioni, Lecce, presentato a Le Cicale Operose.


I temi trattati da Virginia sono temi importanti, potenti, ci chiamano in causa, ci riguardano, e riguardano la nostra contemporaneità, il tempo dell’oggi, ma anche il nostro tempo interiore, il tempo del nostro vissuto personale, esistenziale, esperienziale.

È una poesia della soglia. Virginia parla di rive, reali e simboliche, perché c’è sempre una faglia, un taglio, una ferita, una cesura nella nostra esistenza.  

Ma questi tagli, le rive, appunto, se, da una parte, significano distanza, dall’altra significano anche attraversamenti, tensione ad andare oltre, “Oltremare” appunto, e quindi approdare in un altrove. Le rive, quindi, intese come confine, dove confine non significa limite, se ci riferiamo all’etimo latino “cum finis”, dove “cum” significa “con”, quindi un confine comune, un punto di coagulo dove si incontrano e si mescolano differenze, culture, linguaggi, persone.

Il confine, la riva indicano, nello stesso tempo, ciò che separa e ciò che unisce. Ciò che chiude e ciò che apre insieme. Il punto cruciale è la scelta, e la scelta è rimanere dentro o oltrepassare, divergere, accettare il confine e lo sconfinamento e imparare a riconoscerne il valore.

E allora la riva apre al viaggio, o meglio alla viandanza, perché la viandanza ha a che fare con la strada e la fatica della strada, non ha un percorso netto, stabilito è fatta di tappe, di soste, di riprese e ritorni, viandanza che nella raccolta di Virginia è scandita, anche nella struttura della raccolta stessa, attraverso le varie sezioni tutte significativamente intitolate: “Riva”, “Viaggio”, “Oltremare”, “L’altra riva”.

È un itinerario prima di tutto personale, individuale, identitario, che ha a che fare con i legami che ci stringono visceralmente alle madri, ai padri, ma anche alla terra d’origine, figure dalle quali prendiamo nutrimento, nome, identità, esistenza, ereditiamo lingua, saperi, immaginario, ma dai quali dobbiamo partire per poter realizzare quel progetto di esistenza che ci è stato affidato con la nascita, portarlo a termine tra fedeltà e tradimenti, tra abbandoni e recuperi, prevedendo anche i naufragi, le perdizioni, insieme alle riemersioni, alle rinascite.

La prima sezione del volume è, infatti, sulle radici che sono di terra e di acque, in una ambivalenza significativa e fortemente simbolica.

Perché la terra è riferita al padre, che dà l’identità sociale, il nome burocratico, stabilisce il luogo dove si è (per parafrasare il titolo di una poesia di Virginia), la parte di riva in cui si è inizialmente collocati, e l’altra parte, l’acqua, è la madre, cioè il femminile, l’identità ancestrale, quella di tutte le madri che ci hanno precedute, quindi una immersione nelle acque amniotiche, primordiali, nella dimensione prelogica, prestrutturata, della cura, dell’accoglienza, della nenia, della filastrocca, della lingua che nomina le cose e le mette al mondo, e qui significativamente anche la versificazione di Virginia recupera questi metri, queste misure poetiche.

Le acque, però, sono anche le acque dei mari che lambiscono le terre, i continenti, e circondano l’isola, le isole, acque che danno la vita ma anche la tolgono, come accade per tutti quelli che sono naufragati e morti per acqua, per loro Virginia ha parole e immagini potenti, di una bellezza straziante, come quella di una danza in fondo al mare di tutti i morti per acqua che si prendono per mano e danzano.

Così come potenti e bellissime sono le immagini con le quali Virginia ferma nel verso certe partenze, certi distacchi, dalla madre e dal padre, con fermo-immagini  che vengono sicuramente dalla consuetudine di Virginia con la fotografia ma che trovano nel verso la loro efficacia di senso e di risonanza.

Quindi il viaggio, la viandanza.

Ma il viaggio viandante è anche quello di tutta l’umanità che da sempre, fin dalla preistoria, ha sperimentato i trasferimenti, gli spostamenti da un posto all’altro della terra, e oggi anche del cosmo, delle galassie e oltre, oggi sono le sonde, i satelliti, le macchine, a viaggiare, domani si prospettano viaggi intergalattici, interstellari, anche delle persone. Ed è, purtroppo, anche il viaggio dei migranti, dei profughi, di queste genti che si avventurano sui mari per approdare su rive, sponde “migliori”.

E qui la poesia di Virginia si fa civile, di denuncia, ma mai, come dire, morale, accusatoria, è senza pregiudizi e senza retorica, è invece quasi preghiera accorata, dolorosa, un atto di dolore, per le sorti di quanti sono costretti alle partenze e non riescono ad arrivare a nessuna riva, a nessun approdo e si perdono nel mare profondo.

La postura di Virginia, la sua posizione ideologica è quella di una persona, di una poeta che si interroga sul mondo nel quale vive, non si gira dall’altra parte, anzi assume su di sé certi avvenimenti, li fa propri e da questa interiorizzazione li analizza, apportando, portandoci dentro tutta l’incandescenza di un sentire e non la freddezza del pensare, perlomeno non solo.

Virginia ha scelto un versificare chiaro, un trobar leu, come dicevano i poeti provenzali, perché vuole farsi capire, vuole arrivare a tutti con il suo messaggio, vuole che la poesia ancora una volta recuperi la sua funzione di messa in allerta dell’attenzione e della coscienza.

Ed ha scelto di parlare in prima persona, di partire da sé, perché non si sottrae alle responsabilità delle azioni, né alla consapevolezza di un destino comune, di essere una tra i tanti, per questo il suo è un “io” che diventa presto un “noi”, che alla fine prepara,  è epifania di un possibile nuovo mondo, di una possibile futura palingenesi.

M.D: