Nota di lettura di Maristella Diotaiuti per il volume Oltremare, di Virginia Farina, 2020, Terra d'ulivi Edizioni, Lecce, presentato a Le Cicale Operose.
I temi trattati da Virginia sono
temi importanti, potenti, ci chiamano in causa, ci riguardano, e
riguardano la nostra contemporaneità,
il tempo dell’oggi, ma anche il nostro tempo interiore, il tempo del nostro vissuto personale, esistenziale, esperienziale.
È una poesia della soglia. Virginia parla di rive, reali e simboliche, perché c’è sempre una faglia, un taglio, una ferita, una cesura nella nostra
esistenza.
Ma questi tagli, le rive, appunto, se, da una parte, significano distanza, dall’altra significano anche attraversamenti, tensione ad andare oltre, “Oltremare” appunto, e quindi approdare in un altrove. Le rive, quindi, intese come confine, dove
confine non significa limite, se ci
riferiamo all’etimo latino “cum finis”, dove “cum” significa “con”,
quindi un confine comune, un punto di coagulo dove si incontrano e si mescolano differenze,
culture, linguaggi, persone.
Il confine,
la riva indicano, nello stesso tempo, ciò che separa e ciò che unisce. Ciò che
chiude e ciò che apre insieme.
Il punto cruciale è la scelta, e la
scelta è rimanere dentro o
oltrepassare, divergere, accettare il confine e lo sconfinamento e imparare
a riconoscerne il valore.
E allora la riva apre al viaggio, o meglio alla viandanza, perché la
viandanza ha a che fare con la strada e la fatica della strada, non ha un
percorso netto, stabilito è fatta
di tappe, di soste, di riprese e ritorni, viandanza che nella raccolta di Virginia è scandita, anche nella struttura della raccolta stessa,
attraverso le varie sezioni tutte significativamente intitolate: “Riva”, “Viaggio”, “Oltremare”, “L’altra riva”.
È un itinerario prima di tutto personale,
individuale, identitario, che ha
a che fare con i legami che ci
stringono visceralmente alle madri, ai padri, ma anche alla
terra d’origine, figure dalle quali prendiamo nutrimento, nome,
identità, esistenza, ereditiamo lingua, saperi, immaginario,
ma dai quali dobbiamo partire
per poter realizzare quel progetto di
esistenza che ci è stato affidato con la nascita, portarlo a termine tra
fedeltà e tradimenti, tra
abbandoni e recuperi, prevedendo
anche i naufragi, le perdizioni, insieme alle riemersioni, alle rinascite.
La prima sezione
del volume è, infatti, sulle radici che sono di terra e di acque, in una ambivalenza
significativa e fortemente
simbolica.
Perché la terra è riferita al padre, che dà l’identità sociale, il nome
burocratico, stabilisce il luogo
dove si è (per parafrasare il titolo di una poesia di Virginia), la parte di riva in cui si è inizialmente collocati, e l’altra parte, l’acqua, è la madre,
cioè il femminile, l’identità ancestrale, quella di tutte le madri che ci hanno precedute,
quindi una immersione nelle acque
amniotiche, primordiali, nella dimensione
prelogica, prestrutturata, della cura,
dell’accoglienza, della nenia, della filastrocca, della lingua che nomina le cose e le mette al mondo,
e qui significativamente anche la versificazione di Virginia recupera
questi metri, queste misure poetiche.
Le acque, però, sono anche le
acque dei mari che lambiscono le
terre, i continenti, e circondano l’isola, le isole, acque che danno la vita ma anche la tolgono, come accade per tutti quelli che sono naufragati e
morti per acqua, per loro Virginia
ha parole e immagini potenti, di una bellezza straziante, come quella
di una danza in fondo al mare di tutti i morti per acqua che si prendono per
mano e danzano.
Così come potenti e bellissime sono le immagini con le quali Virginia ferma nel verso certe
partenze, certi distacchi, dalla
madre e dal padre, con fermo-immagini che vengono sicuramente dalla consuetudine di Virginia con la fotografia ma che trovano nel verso la loro efficacia di senso e di risonanza.
Quindi il
viaggio, la viandanza.
Ma il viaggio viandante è anche quello di tutta l’umanità che da sempre, fin dalla preistoria, ha sperimentato i trasferimenti, gli spostamenti da un posto all’altro della
terra, e oggi anche del cosmo,
delle galassie e oltre, oggi
sono le sonde, i satelliti,
le macchine, a viaggiare, domani si prospettano
viaggi intergalattici, interstellari, anche delle persone. Ed è, purtroppo,
anche il viaggio dei migranti, dei
profughi, di queste genti
che si avventurano sui mari per approdare su rive, sponde “migliori”.
E qui la poesia di Virginia si fa civile, di denuncia,
ma mai, come dire, morale, accusatoria, è senza pregiudizi e senza retorica, è invece quasi preghiera
accorata, dolorosa, un atto di dolore, per le sorti di quanti sono costretti alle partenze e non riescono ad arrivare a nessuna riva,
a nessun approdo e si perdono nel mare profondo.
La postura
di Virginia, la sua posizione ideologica è quella di una persona, di una poeta che si interroga
sul mondo nel quale vive, non si
gira dall’altra parte, anzi assume
su di sé certi avvenimenti, li
fa propri e da questa
interiorizzazione li analizza, apportando, portandoci dentro tutta l’incandescenza di un sentire e non la
freddezza del pensare, perlomeno non solo.
Virginia ha scelto un versificare chiaro, un trobar leu, come dicevano i poeti
provenzali, perché vuole farsi capire,
vuole arrivare a tutti con il suo messaggio, vuole che la poesia ancora una volta recuperi la sua funzione di messa in allerta
dell’attenzione e della coscienza.
Ed ha scelto di parlare in prima persona, di partire da sé, perché non
si sottrae alle responsabilità delle azioni, né alla
consapevolezza di un destino comune, di essere una tra i tanti, per questo il suo è un “io” che diventa presto un “noi”, che alla fine prepara, è epifania di un possibile nuovo mondo, di una possibile futura palingenesi.
M.D: