martedì 14 gennaio 2025

Biancamaria Monticelli. Nota di lettura di Maristella Diotaiuti.


                                                                              
I giganti del mare. Una narrazione.   
ph Biancamaria Monticelli

di Maristella Diotaiuti (Caffè letterario Le Cicale Operose-Livorno)

I Giganti del mare della fotografa Biancamaria Monticelli costituiscono un corpus di immagini di grande formato e di forte impatto emotivo, e si pongono come una tappa importante del suo percorso creativo, dove l’artista-fotografa concentra la sua ricerca tra mare, cielo, metallo e ruggine, fotografando relitti di navi abbandonati in luoghi più o meno remoti, e fari ormai in disuso, privi della loro luce.

Sono foto che, se pur dominate da un realismo uniforme e permeante, possono essere lette come una narrazione in cui si muove un sottotesto di metafore e metonimie, di anafore ed epifore, per veicolare una serie di significati esistenziali resi segno e materia, offerti all’osservatore.

Corpi di navi, carghi, natanti, senza più destinazioni o scopi, che hanno ormai smarrito le mappe dei loro viaggi, con sestanti bussole e astrolabi inceppati, corpi sgualciti da tempeste, giganti caduti vinti dall’oblio. Le loro carcasse macchiano le acque e la sabbia, nel silenzio e nel vento e nelle risacche. Relitti che si impongono come una parabola, totem e tabù della presenza umana.

Le navi di Biancamaria Monticelli, immobili e in disarmo, hanno perso il loro statuto di utopia cioè di non luogo, ma anche quello di eterotopia, di luogo-altro, di luogo senza luogo, separato dal normale contesto quotidiano, per ridefinirsi come cronotopo in cui spazio e tempo si implicano a vicenda. Come se il Tempo si ispessisse e si incarnasse, divenendo artisticamente visibile, come se lo spazio si sensibilizzasse rispondendo ai movimenti del tempo, diceva Bakhtin.

C’è una nuova dimensione resa possibile dalla creazione artistica, perché la fotografa, con la sua peculiare sensibilità di sguardo, trasfonde nelle sue immagini fotografiche, bloccate nel fermo-azione, una geografia dell’immaginario, l’attimo pieno di nostalgia, uno spazio effimero in cui nuovi viaggi sono possibili, viaggi del sogno, nel sogno e nella memoria. Biancamaria Monticelli ci spinge verso l’accettazione di uno spazio irrimediabilmente attraversato e di un tempo irrimediabilmente trascorso, e ci propone un viaggio all’indietro, al termine di un nostos, il viaggio di ritorno. E così le immagini di queste navi dismesse, in abbandono, creano un’identità ossimorica che non dimentica il proprio doppio, l’altra nave che navigò mari e oceani, e ci impongono la presenza di un gemello che ci interroga ancora e sul tempo e sullo spazio.

Questi corpi inanimati contengono grandi addii, li attraversano voci e suoni che declinano liste di nomi che si sono dispersi come semi, ma ancora sospinti da maree arcaiche in cerca di nuove rive e nuove terre.

Anche i fari, alleati delle navi in un destino di mare e tempeste, vivono della doppia natura di gigante decaduto e di corpo che si apre a nuove identità.

Biancamaria Monticelli riprende la natura tormentata e isolazionista dell’individuo novecentesco e fotografa fari che diventano la personificazione della solitudine e della libertà dell’uomo, della sua tensione verso l’infinito, verso l’ignoto, l’inconosciuto e l’inconoscibile. Il faro, quindi, come elemento nostalgico e identificativo di una condizione esistenziale.

I fari di Biancamaria Monticelli sono sì deteriorati, corrosi dal tempo e dall’assenza, ma si stagliano ancora maestosi ed evocativi di vita per la presenza di una fanciullezza che si accende in un colore o in una possibile ascensione, basta aprire l’ombrello e volare, verso nuove epifanie e inediti approdi.

I suoi fari sono come le sirene di Kafka ormai senza voce, ma che proprio nel silenzio continuano la loro seduzione.

Per questo lo scopo della Monticelli artista non è la denuncia, piuttosto la risposta a un’urgenza, quella di dare significato al caos, di dare senso ai paradossi e alle contraddizioni di uomini e cose. Fotografare la ruggine, l’abbandono, la dimenticanza, significa reinventare un nuovo tempo e una nuova materia, riscrivere la storia di questi giganti-corpi, una trasmutazione della materia, una rinominazione delle cose.

Nella trasfigurazione artistica di Biancamaria Monticelli i giganti che si affermano in tutta la loro effimera corporeità, non sono più giganti morti, e i fari non più giganti senza luce, perché la vita non se n’è andata da loro. I loro resti sono lì, imperfetti e pericolanti, come un canto alla durata.

Non è un caso che in ogni fotografia, al relitto si oppone un’immagine vitale, una vita nascente, un ragazzo, una famiglia, una bimba, al grigio del ferro, alla corrosione della ruggine, al bianco del silenzio, si oppone sempre una macchia di colore, un’intuizione di dinamismo, una promessa, una possibilità. La naturalezza della vitalità del bimbo che corre con alle spalle l’immobilità di una fine, genera la meraviglia per qualcosa che inizia, un terzo movimento, come in un gioco combinatorio, una forza calamitante, un principio d’interazione.

Biancamaria Monticelli scrive con la luce e con il tramite del mezzo fotografico la poesia della finitezza, della ferita, della fragilità delle cose e degli uomini, non nascondendole ma esibendole come un valore alto e insopprimibile che accomuna ogni creatura.

Per questo il suo sguardo è distaccato e ardente insieme, di fredda intensità, perché è uno sguardo che proviene dall’ombra, di chi sta dietro la luce ma della luce si nutre, per poterne testimoniare e scriverne.

Nessuno sa come fanno gli artisti a trovare la strada per andare oltre, ma la trovano. Come l’ha trovata, ancora una volta, Biancamaria Monticelli.

Il fascino di queste fotografie sta qui, in questo continuo sconfinare, in questo contrasto dialettico di piani temporali e visivi, in questo stare nel futuro sebbene sembrino parlare al passato, sta nella frizione di storie oppositive, nella sovrapposizione di paesaggi mai del tutto esplorati. Sta nel rapporto ossimorico tra la memoria e il naufragante oblio, il gioco ottico di spazi lontani e primi piani rivelatori di un messaggio esistenziale personale e universale insieme. Senza mai una caduta nel superfluo, o nel sospetto di un romanticismo datato. Un esercizio di sobrietà sentimentale e tecnica, che ci restituisce la bellezza e la complessità del mondo e dell’esistere.

Biancamaria Monticelli sa come esteriorizzare il segreto delle cose, accettando il rischio di far emergere dal fondo ciò che nutre e dilania insieme. Perché dinanzi allo strazio della fine e al corrompersi delle cose, non manca di far riverberare un lucore quasi tattile, quasi olfattivo, che salva e fa poesia.