di Maristella Diotaiuti (Caffè letterario Le Cicale Operose-Livorno)
I Giganti
del mare della fotografa Biancamaria Monticelli costituiscono un corpus di
immagini di grande formato e di forte impatto emotivo, e si pongono come una
tappa importante del suo percorso creativo, dove l’artista-fotografa concentra
la sua ricerca tra mare, cielo, metallo e ruggine, fotografando relitti di navi
abbandonati in luoghi più o meno remoti, e fari ormai in disuso, privi della
loro luce.
Sono foto che, se pur dominate da un
realismo uniforme e permeante, possono essere lette come una narrazione in cui
si muove un sottotesto di metafore e metonimie, di anafore ed epifore, per
veicolare una serie di significati esistenziali resi segno e materia, offerti
all’osservatore.
Corpi di navi, carghi, natanti, senza
più destinazioni o scopi, che hanno ormai smarrito le mappe dei loro viaggi,
con sestanti bussole e astrolabi inceppati, corpi sgualciti da tempeste,
giganti caduti vinti dall’oblio. Le loro carcasse macchiano le acque e la
sabbia, nel silenzio e nel vento e nelle risacche. Relitti che si impongono
come una parabola, totem e tabù della presenza umana.
Le navi di Biancamaria Monticelli,
immobili e in disarmo, hanno perso il loro statuto di utopia cioè di non luogo,
ma anche quello di eterotopia, di luogo-altro, di luogo senza luogo, separato
dal normale contesto quotidiano, per ridefinirsi come cronotopo in cui spazio e
tempo si implicano a vicenda. Come se il
Tempo si ispessisse e si incarnasse, divenendo artisticamente visibile, come se
lo spazio si sensibilizzasse rispondendo ai movimenti del tempo, diceva
Bakhtin.
C’è una nuova dimensione resa possibile
dalla creazione artistica, perché la fotografa, con la sua peculiare
sensibilità di sguardo, trasfonde nelle sue immagini fotografiche, bloccate nel
fermo-azione, una geografia dell’immaginario, l’attimo pieno di nostalgia, uno
spazio effimero in cui nuovi viaggi sono possibili, viaggi del sogno, nel sogno
e nella memoria. Biancamaria Monticelli ci spinge verso l’accettazione di uno
spazio irrimediabilmente attraversato e di un tempo irrimediabilmente
trascorso, e ci propone un viaggio all’indietro, al termine di un nostos, il viaggio di ritorno. E così le
immagini di queste navi dismesse, in abbandono, creano un’identità ossimorica
che non dimentica il proprio doppio, l’altra nave che navigò mari e oceani, e
ci impongono la presenza di un gemello che ci interroga ancora e sul tempo e
sullo spazio.
Questi corpi inanimati contengono grandi
addii, li attraversano voci e suoni che declinano liste di nomi che si sono
dispersi come semi, ma ancora sospinti da maree arcaiche in cerca di nuove rive
e nuove terre.
Anche i fari, alleati delle navi in un
destino di mare e tempeste, vivono della doppia natura di gigante decaduto e di
corpo che si apre a nuove identità.
Biancamaria Monticelli riprende la
natura tormentata e isolazionista dell’individuo novecentesco e fotografa fari
che diventano la personificazione della solitudine e della libertà dell’uomo,
della sua tensione verso l’infinito, verso l’ignoto, l’inconosciuto e
l’inconoscibile. Il faro, quindi, come elemento nostalgico e identificativo di
una condizione esistenziale.
I fari di Biancamaria Monticelli sono sì
deteriorati, corrosi dal tempo e dall’assenza, ma si stagliano ancora maestosi
ed evocativi di vita per la presenza di una fanciullezza che si accende in un
colore o in una possibile ascensione, basta aprire l’ombrello e volare, verso
nuove epifanie e inediti approdi.
I suoi fari sono come le sirene di Kafka
ormai senza voce, ma che proprio nel silenzio continuano la loro seduzione.
Per questo lo scopo della Monticelli
artista non è la denuncia, piuttosto la risposta a un’urgenza, quella di dare
significato al caos, di dare senso ai paradossi e alle contraddizioni di uomini
e cose. Fotografare la ruggine, l’abbandono, la dimenticanza, significa
reinventare un nuovo tempo e una nuova materia, riscrivere la storia di questi
giganti-corpi, una trasmutazione della materia, una rinominazione delle cose.
Nella trasfigurazione artistica di
Biancamaria Monticelli i giganti che si affermano in tutta la loro effimera
corporeità, non sono più giganti morti, e i fari non più giganti senza luce,
perché la vita non se n’è andata da loro. I loro resti sono lì, imperfetti e
pericolanti, come un canto alla durata.
Non è un caso che in ogni fotografia, al
relitto si oppone un’immagine vitale, una vita nascente, un ragazzo, una
famiglia, una bimba, al grigio del ferro, alla corrosione della ruggine, al
bianco del silenzio, si oppone sempre una macchia di colore, un’intuizione di
dinamismo, una promessa, una possibilità. La naturalezza della vitalità del bimbo
che corre con alle spalle l’immobilità di una fine, genera la meraviglia per
qualcosa che inizia, un terzo movimento, come in un gioco combinatorio, una
forza calamitante, un principio d’interazione.
Biancamaria Monticelli scrive con la
luce e con il tramite del mezzo fotografico la poesia della finitezza, della
ferita, della fragilità delle cose e degli uomini, non nascondendole ma
esibendole come un valore alto e insopprimibile che accomuna ogni creatura.
Per questo il suo sguardo è distaccato e
ardente insieme, di fredda intensità, perché è uno sguardo che proviene
dall’ombra, di chi sta dietro la luce ma della luce si nutre, per poterne
testimoniare e scriverne.
Nessuno sa come fanno gli artisti a
trovare la strada per andare oltre, ma la trovano. Come l’ha trovata, ancora
una volta, Biancamaria Monticelli.
Il fascino di queste fotografie sta qui,
in questo continuo sconfinare, in questo contrasto dialettico di piani
temporali e visivi, in questo stare nel futuro sebbene sembrino parlare al
passato, sta nella frizione di storie oppositive, nella sovrapposizione di
paesaggi mai del tutto esplorati. Sta nel rapporto ossimorico tra la memoria e
il naufragante oblio, il gioco ottico di spazi lontani e primi piani rivelatori
di un messaggio esistenziale personale e universale insieme. Senza mai una
caduta nel superfluo, o nel sospetto di un romanticismo datato. Un esercizio di
sobrietà sentimentale e tecnica, che ci restituisce la bellezza e la
complessità del mondo e dell’esistere.
Biancamaria Monticelli sa come
esteriorizzare il segreto delle cose, accettando il rischio di far emergere dal
fondo ciò che nutre e dilania insieme. Perché dinanzi allo strazio della fine e
al corrompersi delle cose, non manca di far riverberare un lucore quasi
tattile, quasi olfattivo, che salva e fa poesia.