martedì 21 gennaio 2025

Piera Ventre. Nota di lettura di Maristella Diotaiuti.

 



Nota di lettura di Maristella Diotaiuti per il volume Gli spettri della sera, di Piera Ventre, Neri Pozza Editrice, 2023, scritta in occasione della presentazione alle Cicale Operose.

È un libro che in qualche modo ha a che fare con gli altri di Piera che lo hanno preceduto, ma è anche diverso dagli altri, per la struttura soprattutto. È geneticamente della stessa sostanza ma ha subito un’evoluzione, uno scarto. È dentro una narrazione unica, per tematiche, personaggi, luoghi, ed eventi, ma poi va oltre. Dal punto di vista del genere letterario qualcuno ha parlato di saga familiare, nei modi delle saghe nordiche, anche nordamericane, qualcun altro ha parlato di trilogia mettendo insieme Palazzo Kimbo, Le Stanze del tempo e Gli spettri della sera (forse resta fuori solo Sette opere di misericordia), rintracciando in questi un filo rosso che li percorre, una sorta di inter-dipendenza, che sicuramente c’è ma che, secondo me non ne fa un “sequel”, ma piuttosto sono segnali che rivelano di un universo tematico, poetico, un èpos nel senso di narrazione di un’epica personale, a anche un ethos scritturale, nel senso di temperamento culturale e di visione del mondo e della letteratura propria di Piera.

Qual è questo filo rosso? Sicuramente dentro questo libro rintracciamo, ritroviamo alcuni personaggi protagonisti di Palazzo Kimbo, a cominciare da Stella d’amore che avevamo lasciata bambina e qui è ormai cresciuta, ma anche Angela (la sorella), Marina (la zia), e altri ancora che non sto ad elencare. Di alcuni di questi personaggi si riprende la storia interrotta in Palazzo Kimbo e qui sviluppata ulteriormente, e si rivelano anche retroscena particolari, dettagli che lì erano rimasti in ombra e che qui invece vengono illuminati diventano oggetto di narrazione.

Ritroviamo alcuni luoghi, Napoli sicuramente, ma questa volta in rapporto dialettico con il Piemonte appunto, il Monferrato, perché i personaggi si muovono tra questi due poli, e la storia stessa si snoda tra Napoli e Piemonte, con interessanti cambi di prospettiva (identitaria) ma anche di individuazione linguistica (infatti qui al dialetto napoletano si affianca quello piemontese) e altro ancora.

La città di Napoli e le campagne piemontesi: la vicenda infatti si svolge in un paesino del Monferrato, quindi in un ambiente rurale, agreste, in una terra fortemente legata alle proprie tradizioni. Piera ha così anche ribaltato, fino a farlo scomparire, lo stereotipo per cui al sud ci sono terroni incolti e rozzi e al nord persone emancipate, acculturate, un nord fatto solo di città, perché come al sud, ci sono città metropoli, anche al nord ci sono comunità contadinearretratema non per questo prive di cultura, anzi portatrici di una cultura straordinaria, ricca di umanità, di saperi, una cultura popolare fatta anche di leggende, di magia, di credenze e anche superstizioni, perché no, ma Piera ce lo presenta come un mondo da scoprire e rivalutare e custodire sicuramente, che sia del sud, del nord o di qualsiasi altra coordinata geografica  non ha molta importanza, e questo Piera lo fa emergere con forza. Una cultura che Piera sembra apprezzare e considerare come valori fondamentali, senza però indulgere in atteggiamenti nostalgici, anzi Piera mette sempre a confronto e in frizione le due culture, quella rurale e quella cittadina, con il loro rispettivo corredo valoriale, rilevando i limiti e le positività dell’una e dell’altra.

Certamente questa di Piera è scrittura della memoria, scrittura d’esperienza, è partire da sé, dal proprio vissuto, è attingere anche alla memoria del corpo (ho avuto spesso l’impressione che la tua fosse una memoria sensoriale, percettiva, come Proust insegna). La memoria procede per lacerti, per frammenti, è selettiva, e scompone i piani temporali, e anche quelli spaziali, li confonde, li sovrappone, ed anche la scrittura di Piera fa lo stesso: procede per scarti temporali, (per passaggi anche rapidi da un tempo presente a un passato prossimo a un passato remoto e ritorno), procede per flashback, analessi, prolessi, non ha un racconto lineare, quindi la narrazione è fatta proprio di questi lacerti che vanno tutti, alla fine, a formare una sorta di patchwork o, se preferite, di caleidoscopio policromo.

Il testo risulta così molto dinamico, ma nello stesso tempo disorientante, per cui il lettore è chiamato in causa, è sollecitato, deve farsi attento; è una narrazione quasi dialogica, prevede un interlocutore, un “tu”. Piera, e i suoi personaggi per lei, racconta, scrive, non solo per se stessa, ma anche per gli altri, per chi leggerà. Ed è dinamico il testo anche riguardo ai personaggi. Infatti in questo libro c’è una coralità di voci, una coralità di storie, una polifonia di personaggi: non c’è un personaggio principale, tutti sono sullo stesso piano e, di volta in volta i diversi personaggi si presentano, a turno, su questa sorta di palcoscenico che è la pagina, e raccontano, si raccontano.  

Come dicevamo Piera ha un talento speciale per la ricostruzione degli avvenimenti, lasciando però margini di indeterminatezza in cui si può inserire il mistero, il magico, il perturbante. Il testo infatti si muove su livelli, piani diversi che si stratificano e a volte anche si intersecano. Piera è molto abile nel far intravedere questo sommerso, il sottotesto, aprendo soglie e disseminando indizi, segni, c’è un sottotesto di segni:

il treno, che non a caso apre la narrazione. È il treno che prende Stella, insieme al cugino Michele, giovani adolescenti, per andare da Napoli, al Piemonte, dove abita la zia marina con il marito e la suocera, per trascorrere dei giorni di vacanza. Il treno è un luogo non-luogo, è una eterotopia. Eterotopi sono, secondo una definizione di Michel Foucault (il primo a cristallizzarli in una definizione, a parlarne, a nominarli, nel 1966), quei luoghi reali fuori da tutti i luoghi, ma che con gli altri spazi sono in relazione sospesa, neutralizzata o invertita (se posizionati all’interno siamo fermi, quindi abbiamo una percezione di stasi rispetto allo spazio e al tempo, invece se ci posizioniamo, ci pensiamo all’esterno siamo in una situazione di movimento quindi in un’altra relazione con il tempo e con lo spazio, anzi gli spazi).  Quindi, in quanto tale il treno è perturbante, introduce il perturbante, perché sovverte l’ordine di tempo e di spazio, e fa entrare in una dimensione ‘altra’ (mi viene in mente il treno di un racconto di Buzzati, un treno lanciato nella notte che non prevede fermate, e che porta a una meta sconosciuta, misteriosa; c’è l’idea della vita e della morte, molto presente anche nel libro di Piera) .

- Ma prima ancora, altro segno, c’è la primissima frase che rimanda a Calvino delle Città invisibili, l’attacco, e il seguito della descrizione, è calviniano (dei testi aperti), che l’incipit introduce immediatamente in un luogo reale ma nello stesso tempo immaginario, segue, infatti, una descrizione di un luogo reale ma che poi da reale via via sfuma fino a perdere i contorni, il paesaggio si incurva, diventa obliquo, scivola in una dimensione altra, fino a diventare altro, simbolico.

– e poi c’è la neve (la fioca) che fa da soglia, da porta tra due mondi, due dimensioni, è la porta d’accesso per un altrove l’aldilà. Ricorda la nebbia di Caproni, ha la stessa funzione (fare da cortina tra un mondo e l’altro), e prelude sempre qui nel libro a un evento tragico, è premonitrice di sventura, quindi è misteriosa, magica, perturbante.

Tutti questi segni ci mettono in comunicazione con il mondo dei morti, ci permettono di percepire la presenza degli spettri che si aggirano per le nostre case, che ci stanno accanto senza che però noi ne abbiamo coscienza

Nel  romanzo di Piera sono due i personaggi capaci di entrare in relazione con i morti, gli spettri: Lodovina e Angela, la vecchia e l’adolescente, non a caso agli antipodi, l’inizio e la fine (e prima ancora la madre di Lodovina, Lisabetta, ma che compare per poco, attestando quindi una facoltà tutta delle donne).

Lodovina, in particolare, è una figura un po’ controversa, comunque straordinaria: questa vecchia signora testarda, orgogliosa, concreta eppure volatile, volitiva, con quella sua risata che le ridà una leggiadria e una giovinezza mai perdute, tutto sommato, anzi sembra eterna, è il punto fermo, lei è sempre lì, con le sue certezze, le sue verità, i suoi misteri, intorno a lei ruotano tutti gli altri, come in una girandola, mentre tutti gli altri sono inquieti, incerti, insicuri, in cerca di una forma. Lei è la matriarca, la circonda un’aura quasi sacrale, ricorda una figura femminile ancestrale, custode di un mondo insidiato dalla modernità, è depositaria di antichi saperi, una figura anche un po’ perturbante. Con la sua contiguità con il mistero, la morte, fa un po’ da ponte tra due mondi, il mondo dei vivi e il mondo dei morti. È lei a raccontare ai nipoti storie di fantasmi, a indicare presenze negli angoli bui della cascina. I vecchi di una volta provavano un piacere malsano nel raccontare storie terrificanti, e sempre di notte, magari con un temporale furioso che faceva andare via anche la luce elettrica. A me è capitato, e Piera qui lo racconta. Infatti Lodovina mi ha ricordato una mia zia che viveva con noi, padrona assoluta della cucina, che toglieva il malocchio, tagliava le trombe marine con le forbici, faceva riti quasi pagani. A Lodovina corrisponde un po’ Angela con le sue visioni, la sua capacità di vedere gli spettri.

Trovo molto interessante che questo di Piera sia un perturbante tutto al femminile, sono le donne ad avere questa capacità di sconfinare. E quello femminile, come i recenti studi della critica femminista hanno rilevato, è un perturbante diverso, dove la paura per il mostro, per lo spettro, si trasforma in occasione di crescita, di conoscenza, c’è sempre un sentimento di accettazione del mostro, spesso di tenerezza, di cura, di amicizia, quasi di identificazione.

La sua geografia dei luoghi è una geografia reale ma anche personale, c’è una concezione affettiva e quasi antropomorfizzata dello spazio. La scrittura di memoria di cui parlavamo prima, la scrittura d’esperienza, inerisce profondamente ai luoghi, agli spazi, ai contesti dell’esperienza stessa, come forme che il tempo ha riempito di memorie. Anche gli oggetti si caricano di sensi, di simboli e diventano ‘cose’. Su tutti la casa, la cascina, la scena essenziale del libro, dove nascono ed evolvono, si sviluppano le storie, il luogo che ospita le relazioni affettive primarie, il luogo, materico ma anche metafisico, della cura, dell’accoglienza, quello da cui bisogna partire ma a cui sempre si ritorna, o quello da cui non si può partire mai. Qui nel nuovo libro la casa diventa anche un luogo di incontro di culture e di generazioni che riescono mirabilmente a convivere serenamente, senza particolari conflitti, anzi, come dire, dialogando, scambiandosi informazioni.

Un tema per Piera fondamentale se alle case ha dedicato un libro intero Le stanze del tempo.

Il romanzo è anche percorso da una vena ironica, canzonatoria, divertente, soprattutto laddove viene fuori l’indole bonaria e canzonatoria dei paesani, la loro allegria e la solidarietà, il piacere di stare insieme e condividere il cibo (che è tipica della civiltà contadina, anche come strategia per azzerare le possibili disparità economiche) nelle feste, in occasioni particolari, come la vendemmia, le riunioni al circolo, e anche dei momenti più intimi, privati della famiglia in cui si ritrovano periodicamente tutti i componenti nella cascina ‘la casa’ per eccellenza.

 Poi c’è l’episodio dei funerali, dove Piera fa emergere la vicinanza tra riso e morte, il riso, la risata con il suo potere apotropaico, di allontanamento della morte. Ma nello stesso tempo ci dice della capacità, anche questa tipica della civiltà contadina, di tenere insieme i due aspetti dell’esistenza: vitalismo e senso della fine.

 Poi c’è il bestiario che, analogamente, si muove tra il reale e il simbolico: animali da allevamento, da cortile (tacchini, conigli), animali domestici  (cani gatti) e animali fortemente simbolici (barbagianni, il pavone soprattutto, di cui si perdono le tracce, scompare, non ci dai più notizie di lui).

[…]

 

M. D.