Nota di
lettura di Maristella Diotaiuti per il volume Gli spettri della sera, di Piera Ventre, Neri Pozza
Editrice, 2023, scritta in occasione della presentazione alle Cicale Operose.
È un libro che in qualche modo ha a che fare con gli altri di Piera che lo hanno preceduto, ma è anche diverso dagli altri, per la
struttura soprattutto. È geneticamente
della stessa sostanza ma ha
subito un’evoluzione, uno scarto. È dentro una narrazione unica, per tematiche,
personaggi, luoghi, ed eventi, ma poi va oltre. Dal punto di vista del genere letterario qualcuno ha
parlato di saga familiare, nei modi delle saghe nordiche, anche
nordamericane, qualcun altro ha parlato di trilogia mettendo insieme Palazzo Kimbo, Le Stanze del tempo e Gli spettri della sera (forse
resta fuori solo Sette opere di
misericordia), rintracciando in
questi un filo rosso che li
percorre, una sorta di inter-dipendenza,
che sicuramente c’è ma che, secondo
me non ne fa un “sequel”, ma piuttosto sono segnali che rivelano di un universo tematico, poetico,
un èpos nel senso di narrazione di un’epica personale, a
anche un ethos scritturale, nel
senso di temperamento culturale
e di visione del mondo e della
letteratura propria di Piera.
Qual è
questo filo rosso? Sicuramente dentro questo libro rintracciamo,
ritroviamo alcuni personaggi protagonisti di Palazzo
Kimbo, a cominciare da Stella
d’amore che avevamo lasciata
bambina e qui è ormai cresciuta,
ma anche Angela (la sorella), Marina (la zia), e altri ancora che non sto ad elencare. Di alcuni di questi personaggi si riprende la storia interrotta in Palazzo Kimbo e qui sviluppata ulteriormente, e si rivelano anche
retroscena particolari, dettagli
che lì erano rimasti in ombra e che
qui invece vengono illuminati diventano
oggetto di narrazione.
Ritroviamo alcuni luoghi, Napoli
sicuramente, ma questa volta in
rapporto dialettico con il Piemonte
appunto, il Monferrato, perché i personaggi si muovono tra questi due poli,
e la storia stessa si snoda tra Napoli e Piemonte, con
interessanti cambi di prospettiva
(identitaria) ma anche di
individuazione linguistica (infatti qui al dialetto napoletano si affianca quello piemontese) e altro ancora.
La città di Napoli e le campagne
piemontesi: la vicenda infatti
si svolge in un paesino del Monferrato,
quindi in un ambiente rurale,
agreste, in una terra fortemente
legata alle proprie tradizioni. Piera ha così anche ribaltato,
fino a farlo scomparire, lo stereotipo per cui al sud ci sono terroni
incolti e rozzi e al nord
persone emancipate, acculturate, un nord fatto solo di città, perché
come al sud, ci sono città metropoli, anche
al nord ci sono comunità contadine “arretrate” ma non per
questo prive di cultura, anzi portatrici
di una cultura straordinaria, ricca
di umanità, di saperi, una cultura
popolare fatta anche di leggende,
di magia, di credenze e anche superstizioni, perché no, ma Piera ce lo presenta come un mondo da scoprire e rivalutare e custodire sicuramente, che sia del sud, del nord o di qualsiasi
altra coordinata geografica non ha molta importanza, e questo Piera lo fa emergere con forza.
Una cultura che Piera sembra apprezzare e considerare come valori fondamentali, senza però indulgere in atteggiamenti nostalgici, anzi Piera mette sempre a confronto e in frizione le due
culture, quella rurale e quella cittadina, con il loro rispettivo corredo valoriale, rilevando i limiti e le positività dell’una e dell’altra.
Certamente questa di Piera è scrittura della memoria, scrittura d’esperienza, è partire da sé, dal proprio vissuto,
è attingere anche alla memoria del
corpo (ho avuto spesso l’impressione che la tua fosse una memoria
sensoriale, percettiva, come Proust insegna). La memoria procede per lacerti, per frammenti, è selettiva,
e scompone i piani temporali, e anche quelli spaziali, li
confonde, li sovrappone,
ed anche la scrittura di Piera fa lo
stesso: procede per scarti
temporali, (per passaggi
anche rapidi da un tempo presente
a un passato prossimo a un passato remoto e ritorno), procede per flashback, analessi, prolessi, non ha un racconto lineare, quindi la narrazione è fatta proprio di questi
lacerti che vanno tutti, alla fine, a formare una sorta di patchwork o,
se preferite, di caleidoscopio policromo.
Il testo risulta
così molto dinamico, ma nello stesso tempo disorientante, per
cui il lettore è chiamato in causa,
è sollecitato, deve farsi attento;
è una narrazione quasi dialogica,
prevede un interlocutore, un “tu”.
Piera, e i suoi personaggi per
lei, racconta, scrive, non solo per se
stessa, ma anche per gli altri,
per chi leggerà. Ed è dinamico
il testo anche riguardo ai personaggi.
Infatti in questo libro c’è una
coralità di voci, una coralità di
storie, una polifonia di
personaggi: non c’è un
personaggio principale, tutti
sono sullo stesso piano e, di volta in volta i diversi personaggi si
presentano, a turno, su questa sorta di palcoscenico che è la pagina, e
raccontano, si raccontano.
Come dicevamo Piera ha un talento
speciale per la ricostruzione degli avvenimenti, lasciando però margini di indeterminatezza in cui si può inserire il mistero, il magico, il perturbante. Il testo infatti si muove su livelli, piani
diversi che si stratificano
e a volte anche si intersecano. Piera è molto abile nel far intravedere questo sommerso, il sottotesto, aprendo
soglie e disseminando
indizi, segni, c’è un sottotesto
di segni:
– il treno, che non a caso
apre la narrazione. È il treno
che prende Stella, insieme al cugino Michele, giovani adolescenti, per andare da Napoli, al Piemonte, dove
abita la zia marina con il
marito e la suocera, per trascorrere
dei giorni di vacanza. Il treno
è un luogo non-luogo, è una eterotopia.
Eterotopi sono, secondo una definizione di Michel Foucault (il primo a
cristallizzarli in una definizione, a parlarne, a nominarli, nel 1966), quei luoghi
reali fuori da tutti i luoghi, ma che con gli altri spazi sono in relazione sospesa, neutralizzata o invertita (se posizionati all’interno siamo fermi, quindi
abbiamo una percezione di stasi rispetto allo spazio e al tempo, invece se ci
posizioniamo, ci pensiamo all’esterno siamo in una situazione di movimento
quindi in un’altra relazione con il tempo e con lo spazio, anzi gli spazi). Quindi, in quanto tale il treno è perturbante, introduce
il perturbante, perché sovverte
l’ordine di tempo e di spazio, e fa entrare in una dimensione ‘altra’ (mi viene in mente il treno di un racconto di Buzzati, un
treno lanciato nella notte che non prevede fermate, e che porta a una meta
sconosciuta, misteriosa; c’è l’idea della vita e della morte, molto presente
anche nel libro di Piera) .
- Ma prima ancora, altro segno, c’è la primissima frase che rimanda
a Calvino delle Città invisibili, l’attacco, e il seguito della
descrizione, è calviniano (dei testi aperti), che l’incipit introduce immediatamente in un luogo reale ma nello stesso tempo immaginario,
segue, infatti, una descrizione di un luogo reale ma che poi da reale via via sfuma fino a perdere i contorni,
il paesaggio si incurva, diventa obliquo, scivola in una dimensione altra, fino
a diventare altro, simbolico.
– e poi c’è la neve (la fioca) che fa da soglia, da porta tra due mondi, due dimensioni, è la
porta d’accesso per un altrove l’aldilà. Ricorda la nebbia di Caproni, ha
la stessa funzione (fare da cortina tra un mondo e l’altro), e prelude sempre qui nel libro a un evento tragico, è premonitrice di sventura, quindi è misteriosa, magica, perturbante.
Tutti questi segni ci mettono in
comunicazione con il mondo dei morti, ci permettono di percepire la presenza degli spettri che si aggirano per le nostre case, che ci stanno accanto senza che però noi ne abbiamo coscienza
Nel romanzo
di Piera sono due i personaggi
capaci di entrare in relazione con i morti, gli spettri: Lodovina e Angela, la vecchia e l’adolescente,
non a caso agli antipodi, l’inizio e la fine (e prima ancora la madre di
Lodovina, Lisabetta, ma che
compare per poco, attestando quindi una facoltà tutta delle donne).
Lodovina, in particolare, è
una figura un po’ controversa, comunque straordinaria: questa vecchia signora testarda, orgogliosa, concreta eppure volatile,
volitiva, con quella sua risata
che le ridà una leggiadria e una
giovinezza mai perdute,
tutto sommato, anzi sembra eterna,
è il punto fermo, lei è sempre
lì, con le sue certezze, le sue verità, i suoi misteri, intorno a lei ruotano tutti gli altri, come in una girandola, mentre tutti gli
altri sono inquieti, incerti, insicuri, in cerca di una forma. Lei è la matriarca, la circonda un’aura quasi sacrale, ricorda una figura femminile ancestrale, custode di un mondo insidiato dalla
modernità, è depositaria di
antichi saperi, una figura anche
un po’ perturbante. Con la sua
contiguità con il mistero, la morte, fa un po’ da ponte tra due mondi, il
mondo dei vivi e il mondo dei morti. È
lei a raccontare ai nipoti storie di fantasmi, a indicare presenze negli angoli bui della
cascina. I vecchi di una volta provavano un piacere malsano nel
raccontare storie terrificanti, e sempre di notte, magari con un temporale
furioso che faceva andare via anche la luce elettrica. A me è capitato, e Piera
qui lo racconta. Infatti Lodovina
mi ha ricordato una mia zia che viveva con noi, padrona assoluta della cucina, che toglieva il malocchio, tagliava le trombe marine con le forbici,
faceva riti quasi pagani. A Lodovina corrisponde un po’ Angela con le sue visioni, la sua capacità di
vedere gli spettri.
Trovo molto interessante che questo di Piera sia un perturbante tutto al femminile, sono le donne ad avere questa capacità di
sconfinare. E quello femminile,
come i recenti studi della critica
femminista hanno rilevato,
è un perturbante diverso, dove
la paura per il mostro, per lo spettro, si trasforma in occasione di crescita, di conoscenza, c’è sempre un
sentimento di accettazione del mostro, spesso di tenerezza, di cura, di amicizia,
quasi di identificazione.
La sua geografia dei luoghi è una geografia reale ma anche personale,
c’è una concezione affettiva e quasi
antropomorfizzata dello spazio. La scrittura di memoria di cui parlavamo prima, la scrittura d’esperienza, inerisce profondamente ai luoghi, agli spazi,
ai contesti dell’esperienza stessa, come forme che il tempo ha riempito di memorie. Anche gli oggetti si caricano di sensi, di simboli e
diventano ‘cose’. Su tutti la
casa, la cascina, la scena essenziale del libro, dove nascono ed
evolvono, si sviluppano le storie, il
luogo che ospita le relazioni
affettive primarie, il luogo, materico ma anche metafisico, della cura, dell’accoglienza, quello da cui bisogna partire ma a cui sempre si
ritorna, o quello da cui non si
può partire mai. Qui nel nuovo
libro la casa diventa anche
un luogo di incontro di culture e di
generazioni che riescono
mirabilmente a convivere serenamente,
senza particolari conflitti,
anzi, come dire, dialogando, scambiandosi informazioni.
Un tema per
Piera fondamentale se alle case ha dedicato un libro intero Le stanze del tempo.
Il romanzo è anche percorso da una vena ironica, canzonatoria, divertente, soprattutto laddove viene fuori l’indole bonaria e canzonatoria dei paesani, la loro allegria e la solidarietà, il piacere
di stare insieme e condividere
il cibo (che è tipica della
civiltà contadina, anche come strategia per azzerare le possibili
disparità economiche) nelle feste,
in occasioni particolari, come
la vendemmia, le riunioni al circolo, e anche dei momenti più intimi, privati della famiglia in cui si ritrovano periodicamente tutti i componenti nella cascina ‘la casa’
per eccellenza.
Poi c’è l’episodio dei funerali, dove Piera fa emergere la vicinanza tra riso e morte, il
riso, la risata con il suo potere apotropaico, di allontanamento della morte. Ma nello
stesso tempo ci dice della capacità, anche questa tipica della civiltà contadina, di tenere insieme i due aspetti dell’esistenza:
vitalismo e senso della fine.
Poi c’è il bestiario che, analogamente, si muove tra il reale e il simbolico: animali da allevamento, da cortile (tacchini, conigli), animali domestici (cani gatti) e animali fortemente simbolici (barbagianni, il pavone
soprattutto, di cui si perdono le
tracce, scompare, non ci dai più
notizie di lui).
[…]
M. D.