Nota di lettura di Maristella Diotaiuti per il volume
Diario di un ritrattista, di Mario
Ferrante, Albatros Il Filo Edizioni, 2021, scritta in occasione della
presentazione alle Cicale Operose.
La presenza di Mario Ferrante e il suo essere nello stesso tempo pittore e scrittore mi permette
di parlare di un argomento tra i più dibattuti, i più ricorrenti nella cultura occidentale, e
che a me personalmente interessa moltissimo, il rapporto tra parola e immagine, un dibattito che ha tracciato (tra
arte e poesia, in particolare) una linea controversa, a volte di parentela e a
volte di separazione. Il dibattito è
antico, a cominciare dal poeta
greco Simonide (556-468 a.c.) che diceva la pittura è
poesia silenziosa, la poesia è pittura che parla; Orazio, nel I sec. a. c.,
nell’ars poetica scriveva la
famosissima frase ut pictura poesis (la poesia è come la pittura); Leonardo Da Vinci diceva qualcosa di
simile: la pittura è una poesia muta, e la poesia è una pittura cieca; e ancora nel ‘900, uno su tutti, Apollinaire, che creerà i calligrammi, trasformando le parole in immagini, in modo da dare all’occhio la
visione complessiva del messaggio poetico. Il futurismo poi porterà alle estreme
conseguenze questo processo di contaminazione tra testo poetico e
immagine e, in tempi più vicini a noi, il poeta Nanni Balestrini (all’interno di una avanguardia poetica) che ha affermato: la scrittura nasce come atto visivo, è il linguaggio che si imprime nella pietra, nell’argilla, nel marmo,
io aggiungerei nella tela. E anche la poeta Antonella Anedda con il libro La vita dei dettagli e il
sottotitolo significativo scomporre quadri, immaginare mondi
dove realizza proprio un ekphrasis
(una descrizione verbale di un’opera
d’arte visiva, come ad esempio un quadro, una scultura o un'opera
architettonica). Uno dei primi esempi
di ekphrasis, fra i più discussi nella letteratura, è la descrizione omerica dello scudo di Achille
nell’Iliade. L’ekphrasis ha ossessionato
i filosofi e i critici d’arte per secoli: si può descrivere con le parole, verbalmente, in maniera efficace,
sostitutiva, una immagine?
Questo è un argomento che ci avvicina al libro di Mario, ci serve per
descrivere il libro di Mario, perché è
come se fosse l’ekphrasis dei suoi dipinti. Gli esempi del rapporto tra
parola e immagine, sono tantissimi, voglio citarvene solo un altro sublime:
un particolare accostamento tra alcune
terzine (vv. 34-45 ) del X Canto del Purgatorio di Dante Alighieri e l’Annunciazione di Simone Martini. Infatti,
nel X Canto troviamo descritti,
come esempi di virtù, alcuni episodi della vita della Madonna, e sono scolpiti, come se fossero delle sculture,
dei bassorilievi o altorilievi, a terra o sulle pareti
della montagna del Purgatorio, e Dante li
descrive attraverso la poesia, la parola poetica, scrivendo dei versi che sembrano proprio la
lettura (l’ekphrasis) dell’Annunciazione di Simone Martini. È evidente
che Dante non conoscesse l’opera di Simone Martini,
Dante muore nel 1321, mentre l’opera pittorica è datata 1333. È uno
dei casi in cui gli artisti seguono strade autonome che
solo successivamente saranno accostate
da altri.
Questo per dire come arte verbale e
arte iconica, con i loro diversi linguaggi e con le loro diverse tecniche, possono essere splendide vie per esprimere
la stessa percezione del mondo e dell’esistenza,
gli stessi stati d’animo e gli
stessi labirinti interiori.
e quindi realizzare un altrove sinestetico, dove tutte le percezioni si innervano in un gioco di relazioni, un altrove
in cui le percezioni non solo si
richiamano, ma si necessitano,
si ‘significano’, e si esprimono.
Anche Mario, con questo libro, ha sentito l’esigenza, ad un certo punto,
di far seguire, accostare, alle sue opere pittoriche un testo
scritto, di creare cioè una connessione tra i due linguaggi. Quindi possiamo dire che questo libro è speculare alla sua pittura, la scrittura cioè
funziona come lo specchio di Alice,
capovolge l’immagine per permettere di vedere altro, lo possiamo leggere anche come una sorta di mise en abime, la scrittura comincia laddove finisce la
pittura riprendendone e
proseguendone la narrazione, ma può
accadere anche l’opposto, ovviamente. E insieme, pittura e scrittura diventano una riscrittura, la prova di
un avvenuto incontro che però non è dato una volta per tutte.
A pagina 39
del libro di Mario, che
è una interessante pagina
metaletteraria, Mario scrive:
le arti sono sorelle essendo generate dallo stesso palpito che mette in armonia
cuore, spirito e capacità elettive. Poi però ne elenca le differenze eleggendo come elemento differenziante il
senso del pudore, finendo la pagina con una chiusa estremamente significativa, dove Mario scrive: vivo spesso il dilemma se dipingere quello che
scrivo oppure liberare nella parola trascritta le mie creazioni a colori. Mario,
da vero artista, si pone questo problema, e sente l’esigenza di sciogliere
questo nodo problematico!
Veniamo al libro. Un libro
piccolo nella forma, diciamo così, di una settantina di pagine, e poco
più, ma è un libro denso,
densissimo, ricco di riflessioni
sue personali ma ricco di spunti
di riflessioni per noi lettori. È un libro forte, intenso e nello stesso tempo fragile
e prezioso, e come tutte le cose
preziose è da maneggiare con cura,
qui l’autore, nella pittura si può anche nascondere,
camuffare, qui nella scrittura
si mette a nudo, si dà senza
pelle, quindi diventa una creatura
molto vulnerabile, e noi dobbiamo averne cura, perché Mario
con questo libro ci fa entrare nel suo
laboratorio, il laboratorio
dell’animo che però è anche
quello della sua arte, perché la
sua arte, le sue opere, tutto è passato prima attraverso l’esperienza,
il vissuto, interiore ed esteriore.
Il titolo diario di un ritrattista, ci
dà delle coordinate, e ci
restituisce la natura genetica del libro, nella sua ambivalenza quasi ossimorica, da una parte, infatti, è
un diario, del diario condivide il taglio della cronaca,
è una sorta di racconto di fatti, eventi, incontri, visti o
vissuti, ma soprattutto è un diario
dello spirito, di esperienze
interiori, una intima e sincera
confessione, uno scandaglio di sé
come uomo e come artista. C’è un interrogarsi
continuo sull’arte e sulla vita, e allora il diario si trasforma in una catabasi, potremmo dire, una immersione nelle profondità dell’essere. Caproni diceva
il poeta è un minatore (l’artista, il
poeta scende nei pozzi, nelle ombre, nei cunicoli interiori, e quando ne esce
porta con sé questa esperienza e ce la comunica, attraverso la creazione
artistica). E poi però, ancora nel
titolo, c’è la parola ritrattista che ci porta viceversa a una relazione con un
altro da sé, e qui il libro
diventa, si pone come una sorta di epistolario, lo dice Mario stesso ad un certo punto, ha i toni di un rapporto epistolare: c’è un interlocutore, un tu non ben precisato, indefinito e
indefinibile, che a volte è lo stesso autore e a volte si incarna nell’altro, in un soggetto reale, un allievo,
un amico, una persona che
incontra per strada e che poi entrerà nelle sue opere come soggetto, come
protagonista.
È insomma un libro-viaggio, un itinerario
raccontato da un io-narrante,
quello dello stesso autore, che ripercorre, attraverso il tempo della
memoria, gli spazi reali e interiori
della sua vita e della sua arte.
e ci porta con sé in questo viaggio.
Ci fa entrare nelle misteriose e metamorfiche stanze del suo studio come le descrive Mario, dove
accadono cose straordinarie, magiche, alchemiche; incontriamo i giovani artisti suoi allievi, con i
quali Mario intreccia dialoghi e
sguardi intensissimi; e ancora le
vite e le personalità di coloro
che poi diventeranno i soggetti dei
suoi dipinti: con i quali Mario riesce a creare delle empatie profonde. Qui Mario ci regala delle pagine
bellissime dove è messo a nudo
il processo profondo e intenso di avvicinamento all’altro, di conoscenza dell’altro, del fare spazio dentro di sé per accogliere lo
spazio dell’altro, come scrive Mario, processo di conoscenza a partire da quella prima curiosità accesa da un dettaglio anche minimo, una particolare luce nell’occhio
dell’altro, una ruga ai lati
della bocca, una postura insolita del
corpo. Mario ci fa incontrare dei personaggi davvero straordinari, potenti, poetici direi:
il giovane Miguel con i suoi metafisici palloncini colorati, (che
occupa diverse pagine del libro, e direi un posto importante nella memoria e
nel vissuto di Mario), e poi bellissime
figure di donna: la Mae de Santo
(pag,26), Irina, una
senzatetto-regina (pag. 50), e poi le
modelle come Annalaura, e
ancora Giuliana che cerca l’amore eterno, totalizzante. Mario
ce li descrive con una tale maestria e intensità che sembra davvero di averli incontrati di persona, o che vorresti incontrare. E poi c’è il dialogo intenso, drammatico tra il
personaggio e il suo autore: e Mario ci racconta di un rapporto nient’affatto pacifico, ma
conflittuale perché il personaggio si attesta vivo sulla tela, dialogante ma
anche in sfida, che reclama una
propria autonomia, una sua
identità che magari non e’
quella che gli attribuisce il suo creatore. La forza identitaria di
questi personaggi è resa sulla tela
dalla densità materica dei colori e dalla tensione dei corpi ad uscire dal quadro, sono personaggi che
ti guardano negli occhi, che mettono a disagio. Poi c’è l’ossessione della luce, che è la stessa ossessione del poeta nei confronti
della parola. Scrive Mario (a pag. 12): la luce era la sua ossessione… la sfida quotidiana … riuscire ad
intrappolare nelle mescolanze oleose l’iridescenza della materia raffigurata
sulla tela … la sconfitta era in agguato; un serpente nero pronto ad ingoiare
ogni bagliore, anche il più tenue. La luce che ritrova nelle
pietre che lui sente vive,
mostrando un’attenzione e un rispetto
per le cose, gli oggetti,
anche quelli più apparentemente inferiori,
umili, come può essere un sasso
che crediamo inanimato.
Invece Mario scrive: i minerali dai quali nascono i pigmenti sono
materia viva: in essa è racchiusa la luce, il movimento e le emozioni che
animano i miei quadri. lei crede che il sasso adagiato, da secoli, sul greto di
un fiume non abbia la capacità di custodire i messaggi e le informazioni
dell’acqua che ha levigato la sua superficie con infinite carezze?
Questo è decisamente lo sguardo obliquo del pittore che si
posa sulle cose, ma io direi anche del
poeta!
Poi c’è il sogno: nel libro si fa spesso
riferimento al sogno come ad una
dimensione-serbatoio a cui attingere, a cui attinge in particolare
l’artista, e quindi è una dimensione in
stretta relazione con la creazione artistica, + significativa la frase
di Mario, nei sogni, talvolta, il pensiero diventa la cosa pensata!, mi
fa venire in mente la “immaginativa”
medievale che tanta parte ha avuto nella ideazione e scrittura della Commedia
di Dante.
I temi sono, come si comprende, quelli importanti, e complessi,
perché toccano da molto vicino i punti nevralgici della creazione artistica,
in tutti i linguaggi in cui si declina, nel libro di Mario c’è una ricerca incessante, anche drammatica, delle ragioni dell’arte,
di quel momento, quell’attimo in cui l’opera d’arte si origina, trova la
sua origine , la scintilla
primigenia. E non è un caso che anzi il libro
di Mario si apra proprio, significativamente, su una interrogazione direi di fondo,
fondativa che è l’ossessione dell’artista, (o affermazione, a seconda di
come la vogliamo leggere,) e cioè
l’attestazione della incapacità,
l’insufficienza, dell’opera d’arte di restituire l’intuizione, la visione da cui è partita, l’immagine interiore originaria, la
scintilla che genera la creazione che è il
momento alchemico, misterioso,
imperscrutabile che precedere la realizzazione concreta dell’opera.
Mario
scrive: la sua
essenza (dell’opera d’arte) era fatta di emozioni, di sentimenti, di tremori,
di scatti d’ira e di sussulti d’amore. tutte cose assolutamente vere ma
impossibili da trasformare in materia viva, da rendere visibili sulla
superficie di una tela.
È un argomento molto dibattuto, tocca anche proprio la capacità dell’arte di dire l’indicibile,
come diceva il pittore Paul Klee, rendere visibile l’invisibile. Cioè
la fatica dell’artista consiste
proprio in questo dovere e volere
rendere visibile ciò che non si vede , ma conservandogli la sua aura misteriosa.
Anche Dante
ha questo problema, soprattutto
col Paradiso, di dover dire, descrivere l’ineffabile, la visione di
ciò che non ricade sotto i sensi umani,
di cui non abbiamo esperienza da vivi, come la materia impalpabile della
beatitudine, la visione di Dio, e di doverlo fare con il mezzo insufficiente
della parola, e lui poi lo risolve in un maniera sublime, utilizzando la parola
umana ma rinnovandola, reinventandosela, e anche attraverso la preterizione, la
reticenza, il dire continuamente di non poter dire, di non essere in grado.
Anche Mario affronta questo nodo teorico,
credo che proprio questo difetto strutturale di
comunicazione è ciò che permette all’arte di esistere, l’artista si nutre di tale mancanza/difetto, perché permette la creazione di altri significanti, di sensi altri, apre anche
a nuove sperimentazioni, a nuovi
linguaggi, nuovi strumenti di significazione (appunto come ha fatto Dante).
Cioè l’opera d’arte sta in questa
possibilità sempre aperta, sempre possibile (per usare un gioco di
parole), in questa libertà di
significare sempre altro, direi anche in questa “allusione”, come fa la parola poetica. La portata rivoluzionaria dell’arte, la
sua funzione principale, sta proprio in questo: nel non essere dentro una significazione
definitiva, non essere dentro la
normazione, di non attestarsi in
una asserzione definitiva. Ungaretti la chiamava delirante
fermento (in Commiato)
dove ‘delirare’ significa
proprio, etimologicamente, ‘uscire dal
solco stabilito’. E non è un
caso che molti dipinti di Mario
sono sbilenchi, sono obliqui,
perché obliquo è lo sguardo
dell’artista, è divergente.
Quelli sulla tela di Mario sono soggetti instabili, deliranti appunto (nel senso ungarettiano), sono in una approssimazione, una tensione verso qualcosa, con una identità fluttuante, in una frattura, una faglia, e, considerando i colori che Mario usa,
direi in una faglia di fuoco
(riprendendo il titolo di un libro di Floriana Coppola), cioè dolorosa, in una ferita sempre aperta che non va rimarginata, perché, come ho
detto più volte, l’arte non deve
guarire, né essere accomodante,
l’arte deve creare il caos,
scompigliare le carte, disequilibrare, renderci
appunto deliranti. Perché l’arte,
come dice anche Mario, è pharmakon, medicina e veleno nello stesso
tempo, lo dice anche Mario (pag. 21):
mi ero ammalato d’arte, con
effetti devastanti. Continua scrivendo: gli effetti della malattia di
cui soffrivo avevano appetiti continui che si manifestavano con una voracità
devastante. L’arte è una fame insaziabile, ma che non va saziata, è un trauma, e secondo l’etimo classico, (la parola deriva dal greco trayma) e trauma significa
proprio lesione, frattura,
ferita, solo che l’artista trasforma questo trauma e ne fa
l’origine stessa della sua creazione. Ecco, io non so se questo dà una qualche risposta alle domande, alle riflessioni
di Mario su questo punto, sulla corrispondenza tra intuizione e opera, ma mi sembra una possibile strada da
percorrere.
Infine l’amore, (e con questo finisco dando la parola a Mario) tra tutte queste riflessioni di cui,
come ho detto, il libro è ricco, tra
tutti questi interrogativi, c’è posto
anche per l’amore, anzi, credo che l’amore sia proprio il collante di tutto questo materiale
disperso, il filo rosso che
percorre più o meno in maniera sotterranea tutto il libro.
[…]