Appunti di Maristella Diotaiuti per la presentazione del volume Almarina, di Valeria Parrella, Giulio Einaudi Editore, 2019, alle Cicale
Operose.
Con i suoi libri, Valeria ha creato una galleria di figure
femminili straordinarie, cercando
di scardinare gli stereotipi della società attuale così fortemente e
dichiaratamente misogina e maschilista, con le sue storture, le sue contraddizioni,
le sue violenze, che spesso,
molto spesso si esercitano soprattutto nei confronti delle donne. Le donne di
Valeria difficilmente si dimenticano,
anche perché parlano di noi e per noi, ci rappresentano. Penso a Clelia (in Lettera di dimissioni), Maria
(ne Lo spazio bianco), Euridice (in Euridice e Orfeo),
Antigone (in Antigone), Amanda (in Revisione dell’enciclopedia della donna). Ed oggi Almarina ed Elisabetta.
I personaggi femminili, le
personagge, di Valeria Parrella hanno un fascino spigoloso, ruvide
ma piene di umanità, ironiche, capaci di fronteggiare il dolore e di
arrivare al cuore delle questioni. Sono sempre affascinanti e luminose anche quando soffrono, anzi
sembra che il dolore le renda più
belle. Sono spesso solitarie, ma
testarde, combattive, scelgono, sono libere o alla ricerca della propria libertà. Sono uniche ma anche
universali, perché si affermano come moderni paradigmi dell’umanità.
Almarina è un romanzo denso, che non molla la presa,
si fa strada senza permesso tra i nostri sentimenti di persone e
di lettori, e lì si annida,
emozionandoci e facendoci riflettere, anche a distanza di tempo. È
come quando butti un sassolino
nell’acqua e si formano tanti
cerchi concentrici, le
riflessioni si generano una dentro l’altra, una dopo l’altra (come ci
suggerisce anche la copertina). Non ci
dà tregua, ci chiede un’attenzione costante, uno sguardo vigile, perché
è una storia che ci chiama in causa
continuamente, che ci appartiene. Per usare una metafora di Valeria, è una storia che è dentro il cerchio segnato dal nostro compasso, sta a noi
decidere quanto ampio vogliamo sia il cerchio per dare spazio a affetti,
legami, umanità.
È la storia di un incontro, di un incontro di due solitudini compiute,
che si incontrano dove è più
impensabile che accada: in un
carcere, il carcere minorile di Nisida, che Valeria ci presenta come una
staratura (pagina 25), un mondo alla rovescia, che apre e chiude le
possibilità, è paradossalmente
un luogo dove ci si può sentire liberi, è un limes, un limite, che segna un dentro e un fuori, c’è
sempre questa dicotomia, questa dualità,
che è anche interiore.
È una scrittura che va attraversata tutta, assaporata, vissuta fino
alla fine; è una scrittura originalissima: forte e lirica nello stesso tempo, asciutta e onirica, precisa e puntuale
ma anche evocativa: una sorta di flusso
di coscienza che si espande
pagina dopo pagina in maniera apparentemente disordinata che dilaga, ma che
Valeria, da grande scrittrice, sa governare e alla fine riportare all’ordine. È
una scrittura che procede per cerchi
concentrici, con continui flashback,
periodi franti che procedono per
accostamenti e si ribellano alla
sintassi tradizionale, perché quella di Valeria e dei suoi personaggi è
una grammatica interiore: le
frasi come i personaggi che le pronunciano cercano un loro modo e tempo di
procedere, che a volte è veloce e narrativo, a volte è meditativo e
immaginativo. La scrittura di Valeria ha sempre una misura politica, nel senso
più classico del termine, cioè che riguarda
la polis, la società e la comunità che la abita. È quindi un romanzo collettivo. Ma è anche un romanzo intimo, introspettivo perché ci
parla di sofferenze profonde, di
perdite, e di come sia difficile risollevarsi. Ci parla anche di ingiustizie sociali, di pregiudizi, ci costringe a fare un passo
indietro e a non giudicare vissuti che non conosciamo. Ci fa entrare nei
tribunali, nelle carceri, nei luoghi della legge, nei questionari
burocratici che schiacciano l’individuo e l’azzerano, ingabbiano la vita reale
in schemi predefiniti.
[…]
Ma voglio che sia Valeria a parlarci del suo
libro.
(domande)
M. D.