Nota di lettura di Maristella
Diotaiuti (sintesi) per il volume Sette opere di misericordia, di Piera
Ventre, Neri Pozza Editrice, 2022 (ebook: 2020), scritta per la
presentazione alle Cicale Operose.
Piera riprende l’idea, le strutture del romanzo novecentesco, ma con lo sguardo rivolto anche a Manzoni, e il richiamo a Manzoni non è un azzardo, ma appropriato per il rigore linguistico, sintattico di Piera, la pulitura che ha operato sulla sua lingua, il lavoro di limatura delle parole, la scelta e la collocazione di ogni singola parola, la costante ricerca del ritmo, come se la pagina fosse una partitura musicale, e in questo l’aiutano anche i continui ricorsi alla lingua napoletana, non solo nell’assunzione, nell’utilizzo dei singoli termini, ma anche nel costrutto della frase, nel periodare stesso, nel giro della frase. Per cui alla fine Piera realizza una sorta di pastiche linguistico interessante e piacevolissimo e originale, accattivante, fluido, anche elegante. Soprattutto, Piera è dentro una ben precisa genealogia letteraria femminile, una discendenza matrilineare, e aggiungo finalmente! Finalmente si fa riferimento, esibendolo poi questo riferimento, alle madri, alle maestre: non più solo come modelli i maestri maschi che hanno, per così dire, monopolizzato il mondo della scrittura per secoli, dettando i propri canoni, i propri gusti i propri temi, ed escludendo tutto l’altro universo scritturale, quello femminile, considerato sottobosco culturale, di sola imitazione di quello maschile. Qui nel romanzo di Piera si sentono circolare Ortese, Elsa Morante e altre ma, come tutti i migliori figli, non ripete in maniera pedissequa, imitativa i genitori, le genitrici in questo caso, ma le fa proprie, rielabora e va avanti, superando il rischio di una scrittura troppo derivativa. Il suo stile è immediatamente riconoscibile è inconfondibile, pur con dentro tutte queste assonanze, queste risonanze.
I piani di scrittura, e quindi di lettura, scorrono uno sull’altro e con continui rimandi, a formare una trama fitta e molto strutturata. Il piano della storia, della fabula, del racconto vero e proprio, ed uno più sotterraneo, nascosto, che costituisce la materia nutritiva, il lievito di tutto il narrato stesso. C’è la storia di una famiglia nella sua dimensione di nucleo, ma c’è la storia, il racconto personale di ogni singolo componente di questo nucleo, che si afferma come personaggio individuale con il suo vissuto, i suoi pensieri, le sue verità, i suoi sogni. E dentro questo nucleo, e nella vita dei personaggi, irrompono fatti, persone, avvenimenti esterni che turbano l’apparente compostezza e serenità di questo organismo. Il tutto dentro la tragicità emblematica e simbolica di due accadimenti storici: il terremoto del 1980 e l’episodio di Alfredino Manzi. In particolare l’episodio di Alfredino caduto nel pozzo artesiano a Vermicino, acquista una rilevanza simbolica ma è anche asse portante dell’architettura narrativa, fungendo da cornice al racconto, (il fatto tragico della morte del piccolo Alfredo è una delle pagine più sconvolgenti della nostra storia, anche perché inaugurò la televisione che fa del dolore una forma di spettacolo e di deviazione dell’attenzione trasmette il dolore sotto forma di spettacolo. Il riferimento al pozzo poi è ricco, anzi ridondante di significati (poi ne vedremo alcuni).
E poi questo racconto si snoda come fosse teatro (una pièce teatrale), e i personaggi compaiono sulla scena della pagina uno per volta, alternandosi, come se fossero su un palcoscenico raccontando e raccontandosi, realizzando così alla fine una narrazione corale. Verso la fine del libro c’è una scena che ricorda moltissimo la scena finale di una commedia di Eduardo De Filippo (Napoli milionaria). E poi c’è il titolo: Sette opere di misericordia, quelle azioni di carità che un cristiano deve compiere verso i bisognosi per ottenere il perdono dai peccati. Sono sia corporali che spirituali, e Piera, non a caso, prende in considerazione solo quelli corporali. e sicuramente ha avuto presente l’opera pittorica di Caravaggio (1602) che si trova a Napoli, al Pio Monte di Misericordia. Misericordia è una parola che usiamo comunemente, ma che è una parola che ha una lunga storia, viene da lontano, è anche una parola biblica. In greco si dice “elèos”: indica il sentimento di intima commozione, la pietà, per il prossimo. Ed “elèos” traduce a sua volta la parola ebraica “hesèd” parola presente nella Bibbia, spesso viene tradotta semplicemente con “amore”, però designa un particolare tipo di amore, un amore incrollabile, che resiste di fronte a qualsiasi scossone, avversità, qualsiasi cosa accada, infatti fa parte del vocabolario dell’alleanza tra Dio e il popolo ebraico, un rapporto segnato da, fatto anche di tradimenti e che quindi richiede un amore incondizionato, senza riserve. “Eleos” traduce anche un altro termine ebraico, quello di “rahamim”: una parola più carica di emozioni rispetto a “hesed”, perché “rahamim” significa letteralmente “viscere”, che ne risentono quando si prova tenerezza, compassione o pietà, ed è una forma plurale di “rehem” (il seno materno) e questo ci porta direttamente al dipinto di Caravaggio dove c’è la figlia di Cimone pero che nutre il padre con il proprio latte, ma ci porta anche a un episodio che si legge nel libro di Piera, ma che non voglio anticiparvi. Per arrivare all’area linguistica più vicina a noi, in latino poi misericordia è composto da “miserere”, cioè aver pietà e “cor-cordis” cioè ‘cuore’, quindi provare pietà nel cuore, e quindi non un’azione cerebrale ma che viene dal cuore, che richiede una partecipazione emotiva. Vedete come il libro di Piera ci porta lontano, perché Piera mette in campo molte cose, ma poi Piera è anche molto brava a contenere tutta questa materia, sa gestire perfettamente la propria penna. Pensate che poi la parola ‘misericordia’ ha designato anche un tipo di coltello, di pugnale che veniva usato alla fine delle battaglie per dare la morte ai soldati agonizzanti, a dare il c.d. colpo di grazia, Aveva una forma che lo faceva penetrare negli interstizi dell’armatura fino a toccare il cuore. Una misericordia terribile, estrema, ma a volte necessaria (come quella dell’accabadora della cultura sarda).
La misericordia, con questa particolare accezione permea tutto il romanzo di Piera, ed è in stretta correlazione con i personaggi e in particolare con la loro fragilità. Tutti i personaggi di questo romanzo, da quelli principali a quelli secondari (che poi sono solo apparentemente secondari), comprese le bestiole che animano fortemente il racconto, tutti, dicevo, hanno una imperfezione, una smarginatura, una ‘stramatura’ (come la chiama la Lo Iacono con una espressione estremamente efficace) nel corpo e/o nell’animo. solo che i personaggi vivono queste imperfezioni come ‘colpe’, come peccati, da espiare - e questo rimanda all’immagine del pozzo - per liberarsi da questo deviante senso di colpa devono perciò compiere un percorso, doloroso, faticoso, anche lacerante, scendere cioè nel pozzo, nel buco nero di se stessi, e prendere coscienza che quelle ombre, quelle imperfezioni, o manchevolezze, come le vogliamo chiamare, sono comuni a tutti noi esseri viventi, umani e non umani, e che sono proprio queste stonature a renderci interessanti, a connotarci come individui. Solo l’accettazione della nostra imperfezione, e il coraggio e la capacità di esibirle, può muovere a misericordia, non ci può essere misericordia senza accettazione dei propri limiti, altrimenti é solo commiserazione, che è un’altra cosa).
Anche Napoli ha bisogno di redenzione, di misericordia, perché Napoli scende ogni giorno nel pozzo, ogni giorno fa i conti con le sue crepe, le sue contraddizioni, tu la chiami animale piena di piaghe. Napoli ha molto a che fare con il pozzo, perché Napoli è un pozzo, è due città speculari: una in superficie e una sotterranea, una città che da sempre vive una precarietà senza scampo, ma una precarietà che si fa sostanza vitale. E Piera coglie Napoli in un momento di precarietà estrema, nel dopo-terremoto dell’80, che l’ha scossa fortemente e l’ha corazzata di tubi Innocenti, puntelli e intelaiature di contenimento per far restare in piedi muri e palazzi. Un corpo fragile ma forte, passatemi l’ossimoro (descrizione pag. 31). È tutto un mondo precario, traballante, che chiede redenzione, ma si nota, già in Palazzo Kimbo e ulteriormente qui, un rapporto conflittuale di Piera con la città di Napoli, un rapporto ambivalente, ne coglie la bellezza ma nello stesso tempo le storture, la decadenza, è soprattutto nei confronti dei napoletani che Piera sembra avere delle riserve, come accade anche a uno dei suoi personaggi, alla giovane Rita, che ha paura dei vicoli e delle persone “guaste” ma li cerca e vi si immerge.
C’è un punto nel romanzo che mi ha colpito particolarmente, dove Piera fa fare a due personaggi delle importanti riflessioni sul reale e sulla finzione, che secondo me costituiscono il nodo della narrazione, il punto cruciale. Mi hanno fatto venire in mente, (oltre al rimando all’immaginativa del pensiero medievale di cui parlavamo prima, anche) quanto andavano affermando i teorici della letteratura, del romanzo, in particolare Lukàsc in “L’anima e le forme” dice qualcosa che si avvicina a quello che Piera dice. Lukàsc sostiene che l’anima tende (verso l’) all’assoluto ma senza mai poterlo cogliere completamente, quindi l’anima si trova di fronte a due possibilità: accettare la vita quotidiana, che è sempre inautentica (in quanto l’essenza sempre la trascende), o rifiutarla: è solo nel suo rifiuto infatti che l’anima (sempre secondo Lukàsc) può vivere autenticamente. Lukàsc dice precisamente: esistono due tipi di realtà dell’anima: l’uno è la vita e l’altro è il vivere; ambedue sono ugualmente reali, ma non possono esserlo contemporaneamente. I personaggi di Piera si muovono proprio in questa frattura, in questa lacerazione (che è propria del personaggio del romanzo borghese novecentesco).
Letture
- a pag. 274 è Rita a riflettere: L’unica redenzione era la menzogna. le bugie e gli inganni aiutavano a scongiurare la rovina delle famiglie. bisognava fingere che andasse tutto bene. “s’appara tutto”, aveva detto sua madre. S’aggiusta tutto.
– a pag. 276, sempre Rita: dice << ma cos’era poi il reale se non tutto quello che stonava. Il reale era qualcosa lontano dalla perfezione, il dettaglio fuori posto, l’alterazione … la realtà non coincideva con il reale poiché è reale solo ciò che la scompagina. resiste al potere dell’interpretazione.
[…]
M. D.