domenica 19 gennaio 2025

Titti Marrone. Nota di lettura di Maristella Diotaiuti.

 



Nota di lettura di Maristella Diotaiuti per il volume La donna capovolta, di Titti Marrone, Iacobelli Editore, 2019, scritta per la presentazione dell’autrice (co-fondatrice della Libreria Iocisto, Napoli) alle Cicale Operose.

In questo suo lavoro Titti ci racconta una storia, o meglio delle storie in cui ognuno di noi può ritrovarsi, riconoscersi, inevitabilmente si sente chiamato in causa. Perché affronta, coraggiosamente, argomenti che toccano sia la nostra sfera privata, intima, sia la sfera civile, sociale, collettiva.

È una narrazione che non dà risposte, ma piuttosto pone molti interrogativi. L’autrice non si pone mai in una posizione giudicante, assertiva, ma osserva e racconta, perché si aggira nella sua scrittura, nel suo narrato, ne fa parte.

È un libro anche molto coraggioso perché affronta temi delicati, che vanno a toccare questioni molto dibattute, che sono anche poste a fondamento della nostra storia, della nostra identità culturale, ma facendo emergere tutte le contraddizioni e le ipocrisie di certi atteggiamenti, di certe posizioni. Titti fa il ritratto di una generazione che vive un presente assolutamente differente da quello che immaginava da giovane, una generazione che si proponeva di rovesciare, modificare il mondo si ritrova ad essere portatrice di pregiudizi, di chiusure, di incapacità ad andare verso gli altri. Cioè il ritratto della borghesia illuminata, che non voleva essere borghesia ma lo è diventata. Poi c’è, in questo libro, lo sguardo ottuso e deformato del nostro occidente sul disastro dei paesi dell’est, sul postcomunismo, e i rapporti tra le diverse culture. Affronta poi temi che attengono alla sfera intima, privata, individuale, il rapporto con se stessi, e i mutamenti inflitti dal tempo per la generazione a cavallo tra la perduta giovinezza e una vecchiaia cui non si sente di appartenere e, soprattutto, di volersi consegnare. Titti poi affronta anche i temi centrali della contemporaneità: i mutati assetti familiari dovuti al prolungarsi di esistenze grazie alla medicina e ai farmaci, e tutti i problemi che questo comporta, sulla collettività, ma soprattutto sulla vita dei figli che devono occuparsi degli anziani genitori, figli che, come dicevo prima, non sono più giovani, ma non ancora così vecchi da potersi sacrificare completamente. Ci sono poi i temi del femminismo, sicuramente derivati dalla pratica femminista di Titti, e cioè il rapporto uomo-donna, il rapporto madre-figlia-figlio, il rapporto tra tre generazioni di donne, la c.d. genealogia femminile, altri temi come la sorellanza, l’attitudine alla cura, i principi di uguaglianza e solidarietà. Sono temi importanti e riveduti alla luce del presente, dei suoi cambiamenti storici, sociali e culturali.

Ma Titti ha saputo rendere la lettura piacevolissima e a tratti anche divertente, anche comica a volte, creando situazioni grottesche e avvolgendo la scrittura di una bella coloritura ironica, Una ironia molto femminile e che serve anche a distanziare una materia forte e problematica, e ad alleggerire un peso, a deviare il dolore, ad alleggerire un vivere faticoso.

L’ossatura del racconto è semplice: per cause contingenti due donne, molto diverse tra loro, provengono da due mondi opposti, che molto probabilmente mai si sarebbero conosciute, quindi queste due donne entrano in contatto: e sarà un rapporto molto conflittuale, con un crescendo di sospetti e di cattiverie, anche di aggressività, un rapporto che metterà in crisi soprattutto una delle due protagoniste. Ed è un racconto polifonico, le voci delle due donne si alternano in una inquietante specularità, e sotto lo sguardo dell’altra ciascuna mostra il peggio di sé. E devo dire che entrambe sono personagge con una buona dose di sgradevolezza, per cui noi lettori non riusciamo a simpatizzare né per l’una né per l’altra, e devo dire anche l’autrice si mantiene neutrale, neanche la loro creatrice prende le parti di una di esse. Anche se poi comunque si prova un sentimento di com-passione per la loro condizione esistenziale.

Eleonora.

Signora borghese, colta, e di sinistra, l’autrice ce la presenta in un momento molto difficile della sua vita in cui, dopo aver raggiunto i più alti traguardi nella costruzione della sua vita, di fronte a una vecchiaia incombente, vede sgretolarsi tutto il suo mondo, tutte le sue certezze e anche l’immagine di sé che si era costruita negli anni, e che credeva solida e inoppugnabile, di donna illuminata, ex rivoluzionaria, priva di pregiudizi, accogliente e includente, e che invece si scopre come non credeva di essere, e si ritrova anche a combattere una guerra che non si aspettava. Titti evidenzia una sorta di scollamento profondo di Eleonora nei confronti del femminile, e del nuovo femminile: c’è un passo del libro molto illuminante interessante in proposito (pag. 56-57). In queste pagine l’autrice dice molte cose, fa emergere una incapacità di riconoscersi tra donne, di guardarsi negli occhi e di condividere. Proseguendo la lettura emerge il problematico rapporto tra madre e figlia innescato dalla malattia degenerativa della madre di Eleonora. È interessante come una madre che pur assente acquista o conserva una centralità nella vita di Eleonora ma anche nel narrato, perché funge da innesco della narrazione, e dà il via a tutta una serie di accadimenti, facendo saltare molti mascheramenti e molte ipocrisie. Eleonora si lascia andare a una lunga riflessione molto sofferta, nella quale non nasconde la propria difficoltà a stare accanto a una madre che si capovolge in figlia. Molto bello il brano a pag. 86, dove, dopo una descrizione anche straziante, feroce del decadimento fisico della madre, l’autrice scrive: Me la guardo adesso, questa madre diventatami figlia, me la guardo e non vedo l’ora di andar via. Perché non so assistere a questo sfascio silenzioso e inesorabile, non so vegliarle questa vecchiaia accanita a fare di lei il simulacro muto e ostile della donna importante che fu. È la confessione di chi ha rotto, ha tradito il patto di accudimento, di cura, che i nostri genitori hanno stretto naturalmente con noi figli.

Alina

Alina entra nella vita di Eleonora proprio attraverso questa sua incapacità ad accettare la malattia della madre, è a lei che Eleonora delega il compito di accudirla. Alina è la badante moldava. Questa figura apre tutta una serie di riflessioni: innanzitutto, questo del rapporto con la propria collaboratrice domestica è stato uno tema ampiamente dibattuto dal femminismo, soprattutto dal primo femminismo, perché infrange in partenza i principi di uguaglianza, di sorellanza e di solidarietà. Ma anche il femminismo della differenza non è stato immune dal sottolineare la contraddizione insita in questo tipo di rapporto. Un’altra riflessione è sulla condizione delle c.d. badanti nel nostro contesto culturale e sociale, alle quali affidiamo i nostri vecchi, queste persone vengono assunte per essere presenti là dove noi non riusciamo ad essere. Ed è anche il prodotto della progressiva familiarizzazione del welfare (domestico) italiano. Questa marginalizzazione del lavoro di cura genera poi condizioni di lavoro precarie, una precarietà anche quotidiana, si è parlato anche di “sindrome della badante”: cioè la percezione costante di poter essere sostituite in qualsiasi momento, anche se sei efficiente al massimo, tanto ci sono altre 100 persone in attesa per lo stesso lavoro. Noi crediamo che questa tipologia di migranti sia tra quelle meglio inserite nei nostri contesti familiari, ma non è così, ed è questa la condizione che vive Alina: perché in realtà queste donne sono soffocate da condizioni che le obbligano a negare radici e identità, e indossano maschere per incarnare il più possibile l’immagine, lo stereotipo che noi occidentali abbiamo costruito per loro. Infatti Alina si preoccupa di creare un’immagine di sé lontana dal vero, più rassicurante e rispondente alle richieste. Ed emerge un problema non esplorato a sufficienza: la difficoltà di praticare una vera accoglienza nei confronti di chi si lascia alle spalle gli affetti per farsi carico di assistenze pesantissime, la difficoltà di adeguarsi a ruoli e modi di vivere così diversi da quelli del proprio paese di provenienza. Infatti lo scontro tra le due donne è anche uno scontro di civiltà.

L’autrice ci  racconta un mondo prevalentemente al femminile, mettendo in scena due donne che sono quasi due protagoniste assolute. Eppure gli uomini ci sono e pesano nella vita di queste due donne: mariti lontani o indifferenti, fratelli o amici furbi, figli da sostenere, vecchi genitori da proteggere, tutti mossi da qualche confuso o feroce progetto, e il conto di tutto questo tocca proprio ad Eleonora e ad Alina. Sono figure di maschio un poco scialbe ma psicologicamente vere, ben delineate nei loro tratti essenziali. Sono maschi concentrati su se stessi, incapaci di attenzione per nessun altro (al contrario delle protagoniste), tutti ben saldi nei propri desideri, e soprattutto sembrano saper elaborare un futuro per se stessi inedito, indipendentemente dalle proprie donne, prescindendole ma caricando comunque su di loro responsabilità pesantissime.

M. D.