Nota di
lettura di Maristella Diotaiuti per il volume La bambina, il carro e la stella, di Floriana Coppola, Terra d’ulivi Editore, 2022, scritta in
occasione della presentazione alle Cicale Operose. Intervento musicale: Alessandro
Ottaviani (fisarmonica), su invito e a cura de Le Cicale Operose.
È un romanzo dal titolo
e dalla copertina fortemente suggestive ed evocative, la foto è del fratello di Floriana, Luigi
Coppola, che se non ci dicono
molto sul contenuto del libro, ci rimandano sicuramente a un contesto magico, simbolico, un po’ arcano e anche un po’ perturbante. Ma è la poesia di Mariella Mehr
posta in esergo ad apertura di testo, anzi prima ancora del testo, proprio ad apertura di libro, a
dirci molto del contenuto del libro. Mariella
Mehr è stata una scrittrice e poetessa
svizzera di lingua tedesca, nata
a Zurigo nel 1947, morta
il 5 settembre del 2022, la cui unica colpa era essere di etnia Jenisch,
nata in un mondo che non era disposto ad accoglierla, in un paese che considerava il nomadismo come una “malattia degenerativa geneticamente trasmissibile” e quindi andava debellata, cancellando alle radici
tutta la cultura, l’etnia Rom. E Mariella Mehr non è messa qui a caso, perché ha molto in comune con la protagonista del libro di Floriana,
sono entrambe Rom, entrambe hanno dovuto lottare per rivendicare il proprio diritto a esserci, a esistere. E
per entrambe la scrittura ha
rappresentato un mondo altro,
un’alternativa all’incubo della vita
reale, una specie di eden in terra, un luogo in cui poter essere libere. nella parola si compie la loro rinascita, il riscatto. Mariella Mehr infatti è stata una delle vittime di un famigerato programma di pulizia razziale, simile a
quello nazista «kinder der landstrasse» («figli della strada»), organizzato dalla pro juventute svizzera, programma attivo dal 1927 al 1972, quindi anche oltre il nazismo stesso, e che si avvaleva dei fondi stanziati dalla
confederazione elvetica. Era un programma
eugenetico a tutti gli effetti, il cui scopo finale era di eliminare
la cultura jenish (una sorta di genocidio) per favorire il miglioramento
della specie umana, ma che
ufficialmente si presentava come una
missione umanitaria: proteggere
i bambini di etnia Jenisch salvandoli dalla strada e dal vagabondaggio,
in realtà si trattava di una vera e
propria riprogrammazione di esistenze per omologarle ad altre migliaia
di vite. Per cui migliaia di bambini
furono tolti alle loro famiglie
d’origine per essere portati in orfanotrofi o addirittura in ospedali psichiatrici, o nel migliore dei casi affidati a famiglie considerate “normali”,
ribattezzati con altri nomi e costretti a subire una totale rieducazione linguistica.
dovevano dimenticare ogni cosa della loro famiglia d’origine, rinnegare le loro
radici, rinascere sotto una nuova
identità, e spesso subendo anche
violenze, stupri, elettroshock, e quant’altro, e le donne venivano sterilizzate. Anche Mariella Mehr subì la stessa sorte: fu sottratta – piccolissima –
alla madre, alla famiglia, subendo violenze di ogni tipo (stupri, elettroshock e,) all’età di 18 anni, dopo avere avuto un figlio che le venne tolto, le fu praticata la sterilizzazione forzata. La rabbia
contro le istituzioni sviluppò in lei uno spirito ribelle che la condusse a
subire quattro ricoveri in ospedali
psichiatrici e quasi due anni di
carcere femminile.
Mariella Mehr è stata anche tra le prime, con i suoi articoli e i suoi libri, a denunciare al mondo cosa succedeva con
questo progetto scellerato nella
democratica e ridente svizzera,
Il metodo per educarli a questa rinascita era lo sradicamento,
l’isolamento, la separazione.
Quindi, visto il tema trattato, è un libro particolare, perché è vero che sui Rom si è parlato e scritto molto, ma di solito lo si è fatto in
un’ottica giornalistica, sociologica, storica, invece Floriana lo fa in modo diverso, da scrittrice, da poeta, e sceglie una strada, un registro che non implica il distanziamento del sociologo, la freddezza dei diagrammi,
delle ricerche di mercato, ma anzi una partecipazione alle vicende e ai
personaggi.
Sul popolo rom si sono stratificati pregiudizi, cliché, immagini deformanti, e si sono generate diffidenze, paure,
perché si ha paura del diverso,
di quello che consideriamo altro da noi, che non ci corrisponde, ma soprattutto si ha paura di ciò che non si conosce, ma con il quale dobbiamo fare i conti, perché
sono tra noi, anche se li respingiamo sempre più ai margini delle nostre città.
Cerchiamo di non vederli, i ‘diversi da noi’, gli
zingari, fino a quando non siamo costretti, per un furto, un rapimento di bambini o presunto
tale, una rissa, una violenza, un accoltellamento, e quindi
prendiamo provvedimenti altrettanto
violenti. Il popolo Rom poi è
l’invisibile per eccellenza, invisibile
tra gli invisibili, l’emarginato
tra gli emarginati, non c’è
neppure memoria del loro olocausto
che pure c’è stato, gli è
negato, non se ne parla o se ne parla poco.
Floriana sviluppa il progetto di farli
conoscere, di far emergere
l’individualità dei singoli, perché un popolo è costituito da individui, anche diversi tra loro, e soprattutto di mettere in luce,
puntare l’attenzione sulla loro cultura,
i loro riti, la loro lingua, le tradizioni, anche per ridare dignità a un popolo, a un’etnia che solitamente
viene denigrata e demonizzata, i rom
non sono solo ‘brutti sporchi e cattivi’, c’è qualcos’altro, ci deve essere altro, ed è questo qualcos’altro che Floriana vuol far
vedere.
Pur essendo un libro diverso dai precedenti, Floriana non è nuova a
questo tipo di scrittura, ha sempre
avuto uno sguardo vigile e allarmato e partecipe sul mondo, sui fenomeni
sociali, culturali, e soprattutto una
particolare attenzione verso gli ‘invisibili’ della società, gli ‘ultimi’ gli ‘emarginati’, lo ha dimostrato già con i precedenti suoi lavori, i suoi
libri: (ad esempio Donna Creola e Gli angeli del cortile).
Questo di Floriana è libro ibrido, composito, possiamo dire a metà strada tra il romanzo e il saggio e il
documento. Qui infatti Floriana
mescola dati reali, cioè storici,
di cronaca, fatti realmente accaduti, fatti di cui lei ha conoscenza diretta perché
sono accaduti nella sua città (ad esempio,
il rogo di un campo Rom a Ponticelli, un quartiere di Napoli, i bambini
morti in quegli incendi, i vari e periodici sgomberi dei campi Rom), a invenzioni narrative, sia di situazioni che di personaggi, funzionali alla fabula e alla trama, alla narrazione stessa, allo sviluppo del racconto (poi vedremo fino a
che punto anche questi sono inventati o meno). Si alternano, anche dentro
un singolo capitolo, parti,
sezioni legate alla cronaca,
alla riflessione a parti più
strettamente narrative, attraverso cui storia e personaggi avanzano, evolvono.
Ma queste due parti non si
contrappongono, giustappongono,
non c’è stridore tra le parti,
ma è come se scivolassero una dentro
l’altro, una conseguente
all’altra, si sviluppassero per
analogia, per conseguenza logica,
ne viene fuori una sorta di flusso di
narrazione molto interessante e originale. Questa modalità narrativa produce un l’effetto finale, una resa finale: rendere, per contaminazione, realistiche, vere, le parti romanzate e romanzate le parti realistiche, quasi per osmosi. Ne viene fuori un pastiche molto interessante e originale direi, che non è nemmeno il flusso di coscienza,
lo è in parte ma non del tutto
perché poi a parlare non è un solo
personaggio.
Un’altra caratteristica del testo, che trovo interessante, è la presenza di Floriana autrice nel testo,
un po’ sottotraccia,
quasi in incognita, che non è mai presenza autoritaria, onnisciente,
non c’è un io autoriale demiurgo,
che muove i fili, Floriana sta accanto ai fatti che racconta,
li osserva, li registra e li rende noti, come dire, senza determinarli. Ma soprattutto sta accanto ai suoi personaggi, li accompagna, per alcuni in particolare ha
uno sguardo quasi amorevole, fino
a comprendere, a condividerne i pensieri, le riflessioni, gli stati d’animo, ma sempre con discrezione, delicatezza,
grazia, sempre senza far pesare la sua
presenza. Questo suo esserci
si vede, è evidente. In particolare, in alcuni brani del testo, è reso anche graficamente con il
ricorso al corsivo, con l’innesto
cioè di brani lirici a chiusura dei
capitoli, che tradiscono la
natura poetica di Floriana, la sua
frequentazione della poesia, e che vanno a riscaldare, ad accendere la scrittura, a dare pathos, potenza drammatica, tensione passionale al testo. È come se la tensione emotiva contenuta, tenuta a bada, nel corso
del capitolo, esplodesse ora, trovasse qui la giusta espressione.
Floriana si è concessa un angolo nel
testo dove potersi esprimere liberamente. Quindi, Floriana come autrice non vuole scomparire, vuole mescolarsi ai suoi personaggi e alla materia trattata, dire cosa ne pensa, prendere posizione, ma vuole esprimere
anche la sua partecipazione emotiva.
In questo romanzo c’è una coralità di voci, un incrocio di storie e di vite, non c’è un personaggio principale, tutti partecipano più o meno sullo stesso
piano alla costruzione della storia. E sono soprattutto voci di donne, gli uomini sono raccontati dalle donne, attraverso le donne, e anche questo mi sembra un bel capovolgimento di
prospettiva, perché, nei
millenni, nella storia della
letteratura, ma non solo, di
solito sono stati gli uomini a raccontare le donne, secondo le loro
visioni, il loro immaginario, le loro aspettative o richieste. Invece qui ad essere esplorato è il
femminile, il maschile fa un po’
da corollario anche se entra
pesantemente nelle vite di queste donne. Una coralità di voci, quindi, anche se la conduzione della storia è affidata
a un personaggio, a una ragazza Rom, la bambina del titolo, Marika , anzi la narrazione si apre proprio con lei, le sue riflessioni sulla propria vita. Dopo questo incipit, però, la narrazione va indietro nel tempo, c’è
un flashback, una prolessi, c’è il racconto di quanto è avvenuto in precedenza, fino poi al cortocircuito finale, in
cui inizio e fine coincidono,
c’è la chiusura del cerchio.
E quindi Floriana con questo
procedimento, questo espediente
narratologico, accompagnerà Marika
lungo tutti i suoi passaggi, nodi
e snodi esistenziali, dalla
nascita fino a un momento
drammatico di scelta e di cesura
tra la fanciullezza e l’età della consapevolezza (un momento di perdita
di innocenza).
Quindi per questo romanzo potremmo anche usare la definizione di romanzo
di formazione al femminile, con tutte
le problematiche che solleva e di cui si sono occupate le critiche, le storiche, le letterate femministe. Si può parlare di romanzo di formazione
per le donne così come è stato formulato, teorizzato in ambiente critico,
narratologico, nel secolo scorso (Goldmann, Lukàcs), dove si parla di un eroe problematico in un mondo degradato alla
ricerca di valori autentici. Cioè si parla di ‘eroe’ al maschile, l’eroina,
la donna non è prevista; si parla di ‘mondo degradato’, ma quale mondo è
previsto per le donne? Certo non quello qui indicato, cioè il mondo al di fuori
della sfera domestica (quello assegnato alle donne, l’unico), il mondo del
lavoro, delle professioni, della politica, dell’ azione, proprio quel mondo
precluso alle donne; e poi di quali ‘valori’ si tratta, se i valori sono
esclusivamente quelli declinati al maschile: la potenza, la forza,
l’affermazione di sé, il dominio, la creazione di un certo tipo di mondo,
valori che fanno parte solo dell’immaginario, del simbolico maschile.
Questo rilievo è ancora più valido se
applicato al romanzo di Floriana, dove la ragazza in questione è una Rom, che
quindi deve tener conto di due mondi problematici e deve cercare ‘valori
autentici’ diversi sia da quelli del mondo di appartenenza e sia da quelli del
mondo dei gagé.
Marika è una personaggia straordinaria, potente verso la quale non puoi che provare sentimenti di vicinanza, di simpatia, di affetto, di tenerezza. ma è anche un esempio di forza, di
determinazione, di coraggio. È una ragazza problematica, nel senso che si pone problemi, apre conflitti, deve fare i conti con le consuete difficoltà adolescenziali, esistenziali, ma ulteriormente complicate dal fatto di
appartenere all’etnia Rom, per cui deve fare i conti con un mondo per certi versi anche spietato,
con delle sue regole precise, ma
soprattutto sente di essere sul crinale
di due mondi: quello suo di
appartenenza e quello ‘altro’,
quello fuori dal campo dei gagé,
il nostro, diciamo, con il quale inevitabilmente viene a
contatto.
In realtà è lei stessa, volontariamente, a posizionarsi sul confine. anzi entra ed esce da queste due realtà, (perché poi è anche un po’ trasgressiva, è rivoluzionaria, in un certo senso), e quindi si muove tra due modi di vita quasi contrapposti, e quindi deve crearsi, è alla ricerca di una propria identità, un proprio spazio nel mondo, deve crearsi un proprio sistema valoriale, propri valori che potrebbero non corrispondere a nessuna delle richieste di entrambi questi mondi. Perché in fondo Marika si sente estranea, obliqua nei confronti di entrambi. Per acquisire una propria libertà in qualche modo deve tradire la propria origine, la propria appartenenza. ma Marika, e Floriana con lei, troverà una strategia, una modalità , una soluzione veramente straordinaria, e fortemente significativa, che le permetterà di rimanere aderente alle sue radici ma andare oltre nello stesso tempo, e anche con un esito finale sorprendente, inaspettato. Marika è una ragazza pensante, interrogante, si chiede molte cose, è una grande osservatrice del mondo e delle persone, ma soprattutto è una ragazza desiderante. Il desiderio la muove e la motiva, e soprattutto fa tutto da sola, si costruisce da, nasce da sé, Ma impara dalla sua gente, dalla sua tradizione, ma anche dalla strada, osservando e ascoltando, origliando, mettendosi in ascolto delle vite altrui. E soprattutto sorprendente la tenacia con cui Marika impara a leggere, a scrivere, perché comprende che è lì che si gioca il suo destino, perché le parole mettono al mondo il mondo. È molto interessante questa dimensione della scrittura, attraverso la quale si realizza il suo possesso del mondo, prendere possesso del linguaggio, della parola significa prendere possesso del mondo, e di se stessa. Sono strategie assolutamente straordinarie, che rispecchiano anche un po’ la scrittura delle donne, quello che è capitato alle donne nel corso della storia, attraverso i quaderni di appunti, i diari, le lettere, tutte scritture fuori canone, fuori dai canoni declinati completamente al maschile.
Il titolo del romanzo, La bambina, la stella e il carro, immediatamente
ci porta in una dimensione arcana, ai
tarocchi, alla magia che spesso è
associata alle zingare, alla loro
capacità divinatoria, alla lettura
delle carte, i sortilegi,
la conoscenza delle piante, etc., che è poi la dimensione femminile, sacrale, sciamanica delle donne. È l’ambito dove le donne Rom ritrovano la loro
libertà, per il resto negata,
perché ingabbiate da ruoli stereotipati
e di sottomissione ai maschi. Marika
sa che nel popolo libero per eccellenza c’è una mancata libertà, quella delle
donne. E Marika invece vuole
essere artefice del proprio destino.
Marika dice
(e Floriana per lei
scrive) io sono il mio viaggio. Marika
deve crearsi un femminile ma non trova modelli né nelle donne della sua
famiglia né nelle donne gagé, e se ritaglia in base alle sue personali richieste,
esigenze identitarie. In questa pagina
c’è anche un riferimento al nonno,
a questa figura maschile così
importante per lei. È curioso
che la sua figura di riferimento, il modello positivo, sia il nonno, e non le donne della sua
famiglia, la madre, la nonna, verso
le quali è critica, vedendone i limiti, il loro asservimento alle logiche di una cultura maschilista e maschio centrata. Marika riflette molto su questo,
lungo tutto il libro, sulla condizione
delle donne, non solo rom, ma anche delle altre che solo apparentemente sono
libere, delle ragazze del
centro, di tutte quelle altre
donne che ruotano intorno a quel centro, delle quali conosce le storie attraverso l’ascolto dei loro discorsi
durante le pause pranzo.
C’è un altro aspetto molto interessante
della cultura Rom che Floriana fa emergere, che è quello della musica, della trasmissione orale della loro cultura,
nel libro ci sono anche canzoni e brani
musicali originali, anche in
lingua Rom, e di questa cultura
musicale Marika si prenderà cura,
anzi sarà il tramite per la sua
emancipazione, per il suo progetto
identitario, di libertà: la
musica, le letture.
Dovremmo, a mio avviso, intendere l’integrazione come interazione reciproca, come progettazione concordata, e non come
traduzione di norme e divieti, un
confronto interculturale con gli aspetti, anche simbolici, in questo
caso della cultura zingara,
gitana o Rom, come dir si voglia, ma
questo vale per tutte le altre etnie con cui veniamo in contatto. Questo tipo di confronto, onesto, di interazione, porterebbe a rivedere molti nostri concetti su cui si fonda tutta la nostra costruzione ideologica, statale economica, ad
esempio, l’idea di confine, di
luogo, di abitare, le istituzioni pedagogiche, religiose, l’idea stessa di lavoro (che nella nostra società è regolato
da logiche di sfruttamento, capitalistiche e liberiste) Insomma siamo dentro un meccanismo stritolante che
forse il confronto con altre culture
potrebbe chiarirci, portarci a
ripensare certe categorie e liberarci da queste gabbie, ma anche il rapporto con la morte, con la natura, il sistema economico, i Rom
usano il baratto, non hanno il
concetto di proprietà privata,
utilizzano i nostri scarti facendoci capire che si può vivere con poco.
Ecco, forse è questo il messaggio profondo, sotteso, insieme a tanti
altri, che questo libro di
Floriana ci consegna, un messaggio
potente che non dovremmo far cadere nel vuoto.
M. D.