martedì 21 gennaio 2025

David La Mantia. Nota di lettura di Maristella Diotaiuti.


 

Appunti di Maristella Diotaiuti utilizzati per la presentazione, alle Cicale Operose, del volume Finestre. Taccuino 1935-2022, di David La Mantia, Inschibboleth Edizioni, 2023.

Questo libro è un’autobiografia, è un’autonarrazione, è la scrittura del sé. David parla di sé, della propria vita, dei propri sogni, partendo dall’infanzia e via via accompagnandosi/ci nel percorso. Anche se qualcosa non torna con le date, perché nel titolo David scrive 1935 – 2022 che non corrisponde alla sua età, essendo nato nel 1963, quindi chi sta parlando? *Ci risponde David.

 Poi si racconta, ma lo fa in una strana posizione, mettendosi alla finestra.

David è su una soglia, quindi, da dove può guardare sia dentro che fuori, in un rapporto speculare. È in un’azione attiva e passiva insieme, guarda ed è guardato, è allo specchio (e lo specchio sappiamo quanta valenza simbolica ha, è un topos letterario ricorrente). La finestra è una linea che segna un limite: ma è un limite che sappiamo, dall’etimologia latina, da quel cum (cum finis) che significa “insieme”, che non è un linea che separa ma al contrario è un punto di coagulo, di incontro, di relazione. E quindi lo sguardo di David, il suo interesse, spazia da sé verso il mondo, gli altri, l’esterno.

David qui diventa un Giano bifronte: il dio pagano dei passaggi, o il San Giovanni cristiano che lo ha sostituito, ma che ne riprende le funzioni perché anche San Giovanni presiede ai solstizi, ai passaggi. Quindi questo libro è come un rito di passaggio, una sorta di racconto, romanzo di formazione, ma un po’ particolare, sui generis.

Ma stare alla finestra è anche rischioso, si è in bilico, si può cadere, perciò la finestra vuol dire anche taglio, ferita, trauma, e ci fa pensare al thauma greco che non è semplice stupore, ma è meraviglia e terrore insieme (quello da cui i Greci facevano partire la filosofia, la poesia) perché la vista da quella finestra non è sempre rasserenante, può talvolta scombinare la visione delle cose, anche sconvolgere.

Quindi per David è un rivoltare se stesso, la propria storia, il proprio vissuto, per riportare alla luce ciò che di se stesso, della propria esistenza resta sommerso. Per rifertilizzare il proprio suolo e predisporlo a nuova semina, accettando anche il rischio di portare alla luce cose dolorose e non troppo edificanti, accettando anche il rischio che non tutti i semi attecchiscano o portino buoni frutti.  Ma è un’operazione necessaria. È anche un’operazione coraggiosa, perché David si mette a nudo, si espone, quasi senza pelle, con molta onestà, senza infingimenti, non nasconde le sue fragilità, le sue manchevolezze, i suoi limiti e difetti, ne’ le sue paure e i suoi abissi.

Ed è anche un atto, un agire controcorrente, in un mondo, quello attuale, una società in cui ci si nasconde, o ci si camuffa, ci si costruisce come non si è, perché si deve apparire sempre belli, vincenti, forti, performativi, in cui le fragilità sono dei disvalori, sono rimosse. Invece David le riporta in primo piano, le evidenzia come materia preziosa, e ne fa materia di narrazione.

Quindi questo libro è una sorta di catàbasi, di introspezione psicologica, di ricerca di verità. Un percorso che lo porta a scoprire se stesso, la propria identità, nell’inquietudine di sé, nello smarrire ogni certezza, ma questo smarrimento è il dispositivo necessario per ritrovarsi. David ce lo dice chiaramente in un brano che funziona un po’ da manifesto programmatico del libro stesso, ma anche del proprio percorso esistenziale, esperienziale, sono delle regole che si da’ per fare in modo che la semina di sé vada a buon fine.

David si affida alla parola, che è “ingannatrice” (come lui stesso dice) e in questo libro la memoria il ricordo sono proprio il viatico alla narrazione, è l’architettura stessa del racconto: la narrazione è affidata al filo conduttore della memoria e della confessione.

E della memoria la narrazione ne assume tempi e andamento, perché il libro è fatto di brani, lacerti, senza titoli ne’ numeri, senza sezioni o capitoli o altre cesure, scansioni, la narrazione è un continuum, un flusso ininterrotto (quasi un flusso di coscienza), perché così è la vita, e la letteratura deve aderire alla vita, così è la costruzione di sé: è sempre in fieri, dura fino all’ultimo giorno.

Nel libro, quindi, il ricordo di inizio è scelto a caso, il ricordo può iniziare da qualsiasi parte e può finire allo stesso modo, per caso. Il libro si chiude con un ricordo qualsiasi, ci saremmo aspettati un finale ad effetto, e invece no, non può esserci un finale.

Anche la dimensione temporale è quella della memoria: e quindi dentro al testo circola così un tempo narrato del tutto peculiare che non è né presente, né passato né futuro, né vicino né lontano, perché è proprio il tempo della memoria che diventa poi il tempo della scrittura.

Scriveva Manuel Vàzques Montalbàn neIl labirinto greco”: mi piacerebbe imparare a vivere spoglio delle mie memorie, dalle più antiche alle più recenti.  

Non  semplice taccuino, ma romanzo (altro piccolo inganno, depistaggio): David ci dice, nel sottotitolo, che questo libro è un taccuino, quindi un brogliaccio, un quaderno di appunti, un block notes per intenderci, al massimo un diario, qualcosa di leggero insomma, e invece poi scopriamo che nel libro ci sono riflessioni importanti, filosofiche, su questioni importanti che toccano i grandi temi dell’esistenza, dell’essere, dello stare al mondo, questioni di etica, di estetica. I grandi temi dell’io, dell’identità, del tempo, della morte, delle perdite, il dolore, la felicità, e così via.

Scopriamo, quindi, che questo libro ha la portata del romanzo. Anche Proust definiva così la sua recherche, aggiungendo anche un’altra definizione romanzo della memoria che ben si attaglia al libro di David.

Finestre è un romanzo perché del romanzo sviluppa temi e finalità, basta riprendere la definizione che ne fecero i teorici novecenteschi, da Lukàcs a Goldmann: il romanzo è un’epopea borghese in cui “un eroe degradato (si muove) in un mondo degradato in cerca di valori autentici, più meno diceva così, ed è esattamente quello che David fa qui nel libro, essendo un’autobiografia, un romanzo, c’è questo io che parla di sé, c’è la centralità dell’io, l’io che parla in prima persona, è esibito, è insieme l’oggetto e il soggetto della narrazione, ma qui è da David messo sempre in relazione, c’è sempre un tu o un voi, si muove in una sorta di dialogismo. Per cui non cade e non scade mai nell’autoreferenzialità, nell’ autocelebrazione, anzi l’io si lima continuamente nell’abrasione del confronto con l’altro. Perché non si è nessuno senza la relazione, non si può costruire una identità, una storia, senza l’altro, senza gli altri. Questo David lo sostiene in molti punti del libro.

Narrare di sé significa anche comunicazione, comunicare chi siamo a noi stessi e agli altri, significa trasformare il monologo interiore in dialogo con l’alterità, quindi entrare in relazione.  

Scrivere di sé è come guardarsi allo specchio, se non altro in quello specchio particolare che è la pagina ancora da scrivere, è una prova tutt'altro che superficiale è, anzi, un'esperienza problematica, quasi scabrosa.

Lo specchio svela, trasfigura, immancabilmente scalza l'immagine mentale che a priori pensavamo di trovare, l'una mai corrisponde all'altra. Spinge a chiedersi: quanto c'è davvero di noi in quel simulacro d'io che leggiamo sopra, dentro lo specchio? Siamo noi?  

Insomma, la presenza del sé resta un enigma. il principio d'individuazione non è affatto una legge, piuttosto un rovello. Che cosa veramente, e come, ci distingue dagli altri? Che cosa identifica quella cosa che siamo noi? La domanda non è ovviamente solo letteraria, ma sulla pagina, prima bianca e poi nera, si snocciola.

David ha un rapporto particolare con i morti: non di rottura definitiva, di cesura, sei in dialogo con loro, anzi li fa rivivere, li reimmette nel flusso dell’esistenza, e della sua esistenza, attraverso il ricordo, che non è la fredda capacità chimico- elettrica del cervello, ma reificazione attraverso il ricordo amoroso, affettivo, proprio secondo l’etimo di ricordare, cioè “riportare nel cuore”. E in questa chiave ha scritto brani molto intensi, fortemente emotivi, sui suoi genitori. Mi ha colpito molto la circostanza che solitamente di suo padre elabora un ricordo in positivo, lo coglie quasi sempre nella sua vitalità, nei suoi gesti, ne riporta pensieri, circostanze precise, invece l’immagine che continuamente ritorna di tua madre è quella dell’assenza, quella di lei malata, di lei conosce poco e per lei si inventa spezzoni di vita, quasi volesse riempire un vuoto. Fa delle riflessioni molto importanti e anche molto belle, rivelando una sensibilità profonda, rara nel nostro presente, sul senso della vita, delle cose della vita, su cosa davvero sia, reputi importante, e metti l’accento sulle cose che apparentemente sembrano di poca importanza, minime, ma che a guardarle bene invece rivelano tutta la loro bellezza e la loro importanza,

Ecco, allora con questo libro David mette insieme tutto questo, rimescola tutto, sogno e realtà, finzione e verità, restituendosi un affresco dolorante e gioioso insieme, umile e grandioso, attraverso una scrittura, uno stile che è prosa d’arte, lirica e insieme concreta, che affonda nella carne del vivere ma sa anche essere verticale. A unire tutto c’è lo sguardo di David sul mondo e sugli altri, uno sguardo attento, vigile, disincantato, a volte anche duro, ma sempre di cura, garbato, gentile empatico, soprattutto verso le “piccole persone” di ortesiana memoria, gli animali, verso le persone marginali ed emarginati, i senza voce, la povera gente ignorata e vilipesa, come lui stesso si sente, ma senza mai scadere nel pietismo, ma sempre con un fare fiero, orgoglioso.

M. D.