Appunti di Maristella Diotaiuti utilizzati
per la presentazione, alle Cicale Operose, del volume Finestre. Taccuino 1935-2022, di David La Mantia, Inschibboleth
Edizioni, 2023.
Questo libro è un’autobiografia, è un’autonarrazione,
è la scrittura del sé. David parla di sé, della propria vita, dei propri sogni, partendo dall’infanzia e via via accompagnandosi/ci
nel percorso. Anche se qualcosa
non torna con le date,
perché nel titolo David scrive 1935 – 2022 che non corrisponde alla sua età, essendo nato nel 1963, quindi chi sta parlando? *Ci risponde
David.
Poi si
racconta, ma lo fa in una strana
posizione, mettendosi alla
finestra.
David è su
una soglia, quindi, da
dove può guardare sia dentro che fuori,
in un rapporto speculare. È in un’azione attiva e passiva insieme, guarda ed è guardato, è allo specchio (e lo specchio sappiamo
quanta valenza simbolica ha, è
un topos letterario ricorrente). La finestra
è una linea che segna un limite: ma
è un limite che sappiamo, dall’etimologia latina, da quel cum (cum finis) che significa “insieme”, che non è un linea che separa ma al contrario è un punto di coagulo, di incontro, di relazione. E quindi lo sguardo di David, il suo interesse, spazia
da sé verso il mondo, gli altri, l’esterno.
David qui diventa un Giano bifronte: il dio pagano dei passaggi, o il San Giovanni cristiano che lo ha sostituito, ma che ne riprende le funzioni perché anche San Giovanni presiede ai solstizi, ai
passaggi. Quindi questo libro è come
un rito di passaggio, una sorta di
racconto, romanzo di formazione,
ma un po’ particolare, sui generis.
Ma stare alla finestra è anche rischioso, si è in bilico, si può cadere, perciò la finestra
vuol dire anche taglio, ferita, trauma,
e ci fa pensare al thauma greco
che non è semplice stupore, ma è meraviglia e terrore insieme (quello
da cui i Greci facevano partire la filosofia, la poesia) perché la vista da quella finestra non è sempre
rasserenante, può talvolta scombinare la visione delle cose,
anche sconvolgere.
Quindi per David è un rivoltare se stesso, la propria storia, il proprio
vissuto, per riportare alla luce
ciò che di se stesso, della propria esistenza resta sommerso. Per rifertilizzare
il proprio suolo e predisporlo a nuova semina, accettando anche il
rischio di portare alla luce cose dolorose e non troppo edificanti, accettando anche il rischio che non tutti i semi attecchiscano o portino buoni frutti. Ma è
un’operazione necessaria. È
anche un’operazione coraggiosa,
perché David si mette a nudo, si espone, quasi senza pelle, con molta onestà, senza infingimenti, non nasconde le sue fragilità, le sue manchevolezze, i suoi limiti e difetti, ne’ le sue paure e i suoi abissi.
Ed è anche un atto, un agire controcorrente, in un mondo, quello attuale, una società in cui ci si nasconde, o ci si camuffa, ci si costruisce come non si è,
perché si deve apparire sempre belli,
vincenti, forti, performativi, in cui le fragilità sono dei disvalori,
sono rimosse. Invece David le riporta in primo piano, le evidenzia come materia preziosa, e ne
fa materia di narrazione.
Quindi questo libro è una sorta di catàbasi, di introspezione psicologica, di ricerca di verità. Un percorso che lo porta a scoprire se stesso, la propria identità, nell’inquietudine di sé, nello smarrire ogni certezza, ma questo smarrimento è il dispositivo
necessario per ritrovarsi. David ce lo dice chiaramente in un
brano che funziona un po’ da
manifesto programmatico
del libro stesso, ma anche del proprio percorso esistenziale, esperienziale,
sono delle regole che si da’ per
fare in modo che la semina di sé vada a
buon fine.
David si affida alla parola, che è “ingannatrice” (come lui stesso dice) e in questo libro la memoria il ricordo sono proprio il viatico
alla narrazione, è l’architettura
stessa del racconto: la narrazione è affidata al filo conduttore della
memoria e della confessione.
E della memoria la narrazione ne assume tempi e andamento, perché il libro è fatto di brani, lacerti, senza titoli ne’ numeri,
senza sezioni o capitoli o altre
cesure, scansioni, la narrazione è un
continuum, un flusso
ininterrotto (quasi un flusso di
coscienza), perché così è la
vita, e la letteratura deve
aderire alla vita, così è la costruzione di sé: è sempre in fieri, dura fino all’ultimo
giorno.
Nel libro, quindi, il ricordo di inizio è scelto a caso, il ricordo può iniziare da qualsiasi parte e può finire allo stesso modo, per caso. Il
libro si chiude con un ricordo
qualsiasi, ci saremmo aspettati
un finale ad effetto, e invece
no, non può esserci un finale.
Anche la dimensione temporale è quella della memoria: e quindi dentro al testo circola così un tempo
narrato del tutto peculiare che non è né presente, né passato né futuro, né vicino né lontano,
perché è proprio il tempo della memoria
che diventa poi il tempo della scrittura.
Scriveva Manuel Vàzques Montalbàn ne “Il labirinto greco”: mi piacerebbe
imparare a vivere spoglio delle mie memorie, dalle più antiche alle più recenti.
Non semplice taccuino, ma romanzo
(altro piccolo inganno, depistaggio): David ci dice, nel sottotitolo, che questo
libro è un taccuino,
quindi un brogliaccio, un quaderno di appunti, un block notes per intenderci, al massimo
un diario, qualcosa di leggero
insomma, e invece poi scopriamo
che nel libro ci sono riflessioni
importanti, filosofiche, su questioni
importanti che toccano i grandi
temi dell’esistenza, dell’essere,
dello stare al mondo, questioni di etica, di estetica. I grandi temi dell’io, dell’identità, del tempo, della morte,
delle perdite, il dolore, la felicità, e così via.
Scopriamo, quindi, che questo libro ha la portata del romanzo. Anche Proust definiva così la sua recherche, aggiungendo anche un’altra definizione romanzo
della memoria che ben si
attaglia al libro di David.
Finestre è
un romanzo perché del romanzo sviluppa temi e finalità, basta riprendere la definizione che ne fecero i teorici novecenteschi, da Lukàcs a Goldmann: il
romanzo è un’epopea borghese” in
cui “un eroe degradato (si muove) in un mondo degradato in cerca di valori
autentici, più meno diceva così, ed è esattamente quello che David fa qui nel libro, essendo un’autobiografia, un romanzo, c’è questo io che parla di sé, c’è la centralità dell’io, l’io che parla in prima persona, è esibito, è insieme l’oggetto e il soggetto della narrazione,
ma qui è da David messo sempre in
relazione, c’è sempre un tu
o un voi, si muove in una sorta di dialogismo. Per cui non cade e non scade mai
nell’autoreferenzialità, nell’ autocelebrazione,
anzi l’io si lima continuamente nell’abrasione del confronto con l’altro.
Perché non si è nessuno senza la
relazione, non si può costruire
una identità, una storia, senza l’altro, senza gli altri. Questo David lo sostiene in molti punti del libro.
Narrare di sé significa anche
comunicazione, comunicare chi
siamo a noi stessi e agli altri, significa trasformare il monologo interiore in dialogo con l’alterità,
quindi entrare in relazione.
Scrivere di sé è come guardarsi allo specchio, se non altro in quello specchio particolare che è la
pagina ancora da scrivere, è una prova
tutt'altro che superficiale è,
anzi, un'esperienza problematica, quasi scabrosa.
Lo specchio svela, trasfigura, immancabilmente scalza l'immagine mentale che a priori pensavamo di trovare, l'una
mai corrisponde all'altra. Spinge a
chiedersi: quanto c'è davvero di noi in quel simulacro d'io che leggiamo sopra, dentro lo specchio? Siamo noi?
Insomma, la presenza del sé resta un enigma. il principio d'individuazione non è affatto una legge, piuttosto un
rovello. Che cosa veramente, e
come, ci distingue dagli altri? Che cosa identifica quella cosa che siamo
noi? La domanda non è ovviamente solo letteraria, ma sulla pagina, prima
bianca e poi nera, si snocciola.
David ha un
rapporto particolare con i morti: non di rottura
definitiva, di cesura, sei in
dialogo con loro, anzi li fa rivivere, li reimmette nel flusso dell’esistenza, e della sua esistenza, attraverso il ricordo, che non è la fredda capacità chimico- elettrica del cervello, ma reificazione attraverso il ricordo
amoroso, affettivo, proprio
secondo l’etimo di ricordare, cioè “riportare nel cuore”. E
in questa chiave ha scritto
brani molto intensi, fortemente emotivi, sui suoi genitori. Mi ha colpito molto la circostanza che solitamente di suo padre elabora un ricordo
in positivo, lo coglie
quasi sempre nella sua vitalità, nei
suoi gesti, ne riporta pensieri, circostanze precise, invece l’immagine che continuamente ritorna di tua madre è quella dell’assenza,
quella di lei malata, di lei
conosce poco e per lei si
inventa spezzoni di vita, quasi
volesse riempire un vuoto. Fa delle riflessioni molto importanti e anche molto belle, rivelando una sensibilità profonda, rara nel nostro
presente, sul senso della vita, delle
cose della vita, su cosa davvero
sia, reputi importante, e metti
l’accento sulle cose che apparentemente sembrano di poca importanza, minime,
ma che a guardarle bene invece rivelano tutta la loro bellezza e la loro importanza,
Ecco, allora con questo libro David
mette insieme tutto questo, rimescola tutto, sogno e realtà, finzione e verità,
restituendosi un affresco dolorante e gioioso insieme, umile e grandioso,
attraverso una scrittura, uno stile che è prosa d’arte, lirica e insieme
concreta, che affonda nella carne del vivere ma sa anche essere verticale. A
unire tutto c’è lo sguardo di David sul mondo e sugli altri, uno sguardo
attento, vigile, disincantato, a volte anche duro, ma sempre di cura, garbato,
gentile empatico, soprattutto verso le “piccole persone” di ortesiana memoria,
gli animali, verso le persone marginali ed emarginati, i senza voce, la povera
gente ignorata e vilipesa, come lui stesso si sente, ma senza mai scadere nel
pietismo, ma sempre con un fare fiero, orgoglioso.
M. D.