Nota di lettura di Maristella Diotaiuti per il volume Vita e Letteratura di Paolina Leopardi, di
Elisabetta Benucci, Le Lettere Edizioni, 2020, scritta per la
presentazione dell’Autrice alle Cicale Operose.
Questo libro è importante,
significativo, in generale perché è un ulteriore tassello
che si inserisce perfettamente e a pieno titolo nella costruzione e ricostruzione della storia
delle donne che da 20-30 anni
stanno conducendo le letterate, storiche, le critiche, le intellettuali. Ed è, in particolare, significativo anche per noi,
delle cicale operose perché si va ad aggiungere e a intersecare al nostro lavoro che noi stiamo svolgendo sulle donne in generale,
scrittrici, poete, artiste, in particolare su Beatrice Hastings, come oramai saprete.
Il lavoro di Elisabetta Benucci su Paolina
Leopardi è molto accurato, puntuale,
e direi caparbio, e uso questa parola nella sua accezione più
positiva, caparbio nel che voler
ridare corpo, voce e dignità a
questa figura di donna troppo a lungo ignorata, e soprattutto rimasta
nella penombra, ridotta a una
dimensione minuscola di “sorella di...”, da sempre percepita come figura opaca e appartata,
che nei nostri ricordi scolastici
riusciamo a mala pena ad associare alla
canzone a lei dedicata dal
fratello nelle nozze della sorella Paolina composta nell’autunno del
1821, nell’imminenza del matrimonio
con l’urbinate Pietro Peroli, poi
naufragato per questioni legate alla dote. E che invece, proprio grazie al
lavoro di Benucci scopriamo
essere donna di straordinaria cultura e intelligenza, lesse più di 2000
volumi, redattrice di riviste, e
fine traduttrice dal francese, biografa originale, e altro ancora.
Paolina Leopardi
ha avuto pensieri e riflessioni estremamente moderne, soprattutto se
consideriamo che sono scritte da una donna priva di contatti all’infuori della
sua casa-scuola. Ovviamente, era anche
scrittrice valente, raffinata, e in questa sua biografia Benucci ne sottolinea la maestria e i pregi, e i tratti originali, anche se non abbiamo opere organiche, ci ha però lasciato altri tipi di opere
estremamente importanti per fare luce sulla personalità e la cultura di Paolina,
mi riferisco alle traduzioni
e al vasto carteggio che Benucci ha scrupolosamente e puntualmente scoperto e
ricostruito. Innanzitutto le
lettere, l’epistolario, che possiamo considerare, nel suo insieme, un’opera
letteraria, Paolina ne ha scritto un numero elevatissimo, in un arco di tempo
molto lungo. Le lettere finiscono
con il rappresentare l’unico modo per
uscire dal doloroso isolamento, ed entrare in contatto con il mondo esterno alla claustrofobica Recanati, e stringere relazioni con altre donne, con
amici o letterati, parenti più o meno prossimi, altrimenti irraggiungibili. La lettera è, tra l’altro,
una modalità di scrittura molto praticata dalle donne, e praticata fuori canone, fuori canone maschile, e quindi è da
considerare uno spazio di scrittura
libero, e che perciò continua a
restituirci vite o frammenti di vite taciute o dimenticate, ci aiuta,
diciamo così, a togliere dall’ombra e riportare
alla luce figure reali di donne con i loro sentimenti, i desideri, le
aspirazioni, perché nelle lettere
le donne si sentono libere di raccontarsi, senza infingimenti, senza doversi
nascondere. Queste lettere
hanno, cioè, un forte valore
documentario, perché ci fanno conoscere
la rete di relazioni amicali e
intellettuali poste in essere dalle donne con determinazione e coraggio,
contravvenendo spesso a ferrei divieti,
come è stato per Paolina (veniamo così a scoprire, per esempio, tutto
lo stratagemma messo in atto da Paolina per aggirare il divieto materno ad
intrattenere “commercio epistolare” con il mondo). Nello stesso tempo, le lettere i permettono di ricostruire la
cartografia dei sentimenti di una generazione di donne duramente limitate nella loro espressione, oltre
che nella libertà di movimento.
Benucci ci restituisce una immagine di Paolina Leopardi inedita, ripulita da tutta quella narrazione che la
inchiodava esclusivamente a una condizione triste, grigia, una figura laterale,
prigioniera, malinconica e infelice, del
sistema asfissiante di casa Leopardi. Invece sono davvero tanti i
tratti luminosi che emergono della
personalità di Paolina che non
ci aspetteremmo. Innanzitutto,
Paolina, dalla narrazione di Benucci
ci appare una donna coraggiosa, consapevole delle diseguaglianze, delle
ingiustizie, delle sottrazioni che la colpivano in quanto donna. Ed anche
una donna che non si è lasciata consumare e
distruggere dalla sofferenza e dal
dolore, né abbattere dalla
solitudine, ma ha saputo
esercitare una forma di “resilienza” coltivando con determinazione la libertà della mente, la capacità di
coltivare le proprie passioni e stringere legami e, soprattutto, emerge la totale assenza di invidia verso le altre donne, le amiche più fortunate che conducevano la loro
esistenza nel mondo a differenza di lei costretta ad una vita quasi claustrale.
Anzi, era capace di slanci solidali e di sentimenti
di sorellanza, era capace di
gioire della felicità altrui, come ad esempio si legge nella lettera a Vittoria Lazzari per il suo matrimonio: Anima
mia! Vorrei che avessi sentito il grido di gioia che ho mandato nel leggere le
prime righe della tua cara lettera; e allora comprenderesti l’eccesso del
piacere che io provo per la tua felicità, tanto che io ho già dimenticato i
miei mali, e posso dirti di essere veramente felice. E poi, alla
fine, ma io so bene che tu ora non hai tempo da perdere, né tempo da pensare
a me. Dunque addio, o angelo mio! Vivi felice, e se puoi amarmi, amami.
Ho riscontrato,
anche in altre lettere, questo suo timore di essere dimenticata, la paura che anche questo filo fragile
delle corrispondenze epistolari potesse spezzarsi.
In ogni
caso, Paolina dimostra una nobiltà d’animo
e una sensibilità davvero
profonde e commoventi, lei che ne avrebbe avuti di motivi per odiare il
mondo e gli umani. Invece è animata
da una vena ironica e autoironica,
è cioè capace di prendersi in giro,
di parlare delle proprie fragilità,
dei propri difetti, anche fisici. Ironia che ritroviamo, ad
esempio, in una lettera a Marianna
Brighetti, del settembre 1831, dove risponde con amara autoironia
alla richiesta dell’amica di avere una sua foto. Anche altrove, sempre
nell’epistolario, rintracciamo anche l’assenza
di pulsioni narcisistiche, e viceversa il compiacimento, la gioia per successi letterari dell’amica di penna
Antonietta Tommasini, nella consapevolezza della scarsa considerazione in
cui erano tenute le donne e le
donne istruite, colte in particolare.
Paolina era cosciente della sua condizione di inferiorità sociale rispetto ai
fratelli e la contestava, la
metteva in discussione. Scrive nella
lettera del 13 ottobre 1830 (sempre
a Tommasini): io non sono affatto capace di giudicare delle opere di
letteratura; ma ecciterà sempre la mia ammirazione qualunque persona del nostro
sesso, che mostrerà che noi non siamo nate soltanto per quello cui ci credono
destinate gli uomini.
Due forze contrastanti attraversano l’animo e l’esistenza di Paolina: un’attrazione centripeta esercitata
dalla biblioteca di famiglia allestita
dal conte Monaldo e una istanza di
natura centrifuga che la porta
ad allontanarsene. È la stessa tensione verso la libertà che ha animato
sempre Paolina, in questo caso una
libertà, un’autonomia della mente: lei che era cresciuta e si era
formata sotto l’attenta sorveglianza del padre e dell’abate precettore Sebastiano Sanchini, aveva ricevuto un’educazione identica a quella
impartita ai fratelli: i
classici, le scienze, testi
sacri, addirittura la facoltà,
espressamente ottenuta da Monaldo con dispensa pontificia, di leggere le opere altrimenti interdette
dall’indice. Ma non per questo i
gusti di Paolina coincidono con quelli del padre, e, a ben vedere, neppure a quelli dello stesso Giacomo
(eppure si e’ detto più volte che Paolina ripetesse, soprattutto nelle lettere,
pensieri e idee del fratello Giacomo). Si era formata un gusto personale, autonomo: ai libri di argomento patristico e scritturale (di cui era fornita
la biblioteca di famiglia) lei preferisce
gli scritti di Madame de Stael, di Xavier de Maistre, le opere di Stendhal, i romanzi
sensazionalistici di Eugene Sue,
Walter Scott, La Fontaine, e i resoconti di viaggio. Quindi, nelle
letture ha mostrato un gusto tutto personale,
si diceva lettrice assolutamente non
convenzionale , attratta dalla modernità.
Scriveva a Marianna Brighenti: io sono così affamata di libri, che non puoi credere, e qui non si leggono che quei che si comprano, figurati quanti possono essere, intendo libri moderni, perché la nostra libreria è abbastanza grande, ma io provo un senso di rabbia ogni volta che vedo quegli immensi tomi in folio: i s.s. padri, e il poliglotto, e i libri teologici e ascetici e tanti altri che per me sono inutili e tanto volentieri cambierei con tanti tometti in dodicesimo o anche in ottavo purché fossero leggibili.
Infine, sorprende e colpisce il coraggio con cui Paolina, dopo la morte della madre (1857), diventa padrona del proprio destino e si mette al mondo, conquistando quella libertà di
movimento che le era stata negata:
realizza quasi una forma di
trasgressione, seppur tardiva, concedendosi
gli agi e le distrazioni che il rigore
materno le aveva sempre precluso. È sorprendente la sua capacità di rigenerazione, di autodeterminarsi, di affermazione di sé in autonomia e
consapevolezza. Ormai sessantenne,
acquista vestiti raffinati e alla moda,
si concede il lusso di farsi fotografare dal leggendario Alinari. Diventa una donna curiosissima del mondo:
si dedica a concerti, spettacoli teatrali e ai tanti viaggi, che sono soprattutto una sorta di affettuoso pellegrinaggio
sui luoghi che il fratello Giacomo
aveva tanto amato (fino a concludere la sua esistenza proprio in un
albergo sul lungarno di Pisa, dove lo stesso Giacomo aveva soggiornato). E non ultimo, questa sua composta consapevolezza di non poter
facilmente unirsi in matrimonio (matrimonio, tra l’altro, visto come
unica via di fuga dalla casa-prigione) all’inizio tenta vari matrimoni
d’interesse, ma accorgendosi poi alla
fine di non essere disposta a farlo e non si sposerà mai.
Sempre in una lettera parla di un suo pretendente: e poi egli non conosce
la letteratura e io dovrei passare la vita con uno, cui non potrei mai dir nulla.
I mancati matrimoni aprono a Paolina scenari
inaspettati: si riscopre come
individuo autonomo e inizia a
dedicare la sua vita alla scrittura. Nell’accettazione della sua condizione, getta inconsapevolmente le basi per una sua rinascita e per
lo sviluppo di una nuova filosofia
che regolerà la seconda parte della sua
vita, di cui eleggerà a simbolo
il biancospino.
In una lettera all’amica Marianna Brighenti,
del 18 maggio 1854, scrive: io,
di questo stato mene dolgo sempre di meno, e con un po’ più di libertà sarei
veramente felice, e lieta di sentirmi libera.
In un’altra lettera del 18 maggio dello
stesso anno, e sempre all’amica Marianna
Brighenti, scrive ancora: ancorché i mariti piovessero da ogni parte,
per me è tutto finito, io morirò colla corona di bianco spino in capo, invece
del giglio come usa tra noi. ora quest’uso è troppo antico e io voglio il
bianco spino, come emblema della estrema mia predilezione per la primavera, per
caro mese di maggio in cui vediamo fiorire le siepi. E ancora: non
parlar dunque più dell’idea o della speranza di vedermi moglie di un modenese o
di un bolognese, ma odora piuttosto l’essenza del bianco spino e ricordati
allora della tua amica.
Quindi
questa biografia è una dettagliata ricostruzione psicologica ed
esistenziale di Paolina Leopardi, una biografia umana, non solo degli eventi esteriori ma anche
e soprattutto quelli emotivi, interiori, di una donna; è anche una sorta
di saga familiare, perché vengono
ricomposte anche le complicate vicende
della famiglia Leopardi, con i suoi
tanti problemi umani, economici, relazionali. Vengono scandagliati molto bene i rapporti familiari,
soprattutto quelli tra Paolina e Giacomo
e quelli tra i fratelli Carlo e Pierfrancesco,
e in particolare i rapporti affettivi
tra Paolina e la cognata Cleofe prima e poi con la cognata Teresa, e gli
amati nipoti, ai quali riserva
quell’amore materno che non ha potuto realizzare personalmente. Un universo familiare con al centro Paolina:
punto di congiunzione degli affetti e delle vicende dei vari membri.
Elisabetta Benucci fa anche luce su episodi poco
noti della vita di Paolina e sfata molti
luoghi comuni su di lei, e così
la sua figura esce finalmente dall’opacità e le viene restituito il vero profilo di donna colta e insuperabile
traduttrice, seppure a 150 anni dalla
sua morte. È la prima biografia
organica di Paolina Leopardi, è il frutto di un lavoro certosino e strenuo di Benucci, che si
dimostra ancora una volta profonda conoscitrice delle carte di Paolina, condotto su basi rigorosamente scientifiche,
ma (ed è un pregio ulteriore,
un valore aggiunto del libro) non raffreddato da queste, perché è animato da una passione e un afflato che
allontana questa biografia da una semplice ricognizione e restituzione disposizione dei fatti, si avverte che a muovere Benucci non è solo il suo interesse
di studiosa, ma anche un profondo coinvolgimento di donna che entra nella vita di un’altra donna,
vissuta prima di lei, e ne ricostruisce
empaticamente i fatti esistenziali ma anche psicologici, facendone emergere i lati luminosi della sua personalità. La sua è una scrittura rispettosa, quasi delicata, sensibile, pur nel suo
rigore filologico, storico.
Ringraziamo Elisabetta Benucci per il lavoro che sta svolgendo e vi invitiamo caldamente a
leggere questo libro, perché è
un lavoro prezioso, imprescindibile, e per di più, cosa non secondaria, scritto magistralmente che regala una
lettura piacevole, scorrevole, coinvolgente e intensa.
M. D.