Nota di lettura di Maristella Diotaiuti (Le Cicale Operose) per il volume Ma non venite in troppe, di Gianpaolo Castellani, Ed. Ass. Belforte
cultura, presentato a Le Cicale Operose.
Una sorpresa la poesia di Gian Paolo
Castellani, conosciuto da tutti come il “Piulle”, almeno per me che provengo da
altre origini ma che di Livorno ho fatto luogo di elezione. Una bella sorpresa.
La leggo e la rileggo questa poesia, che
ha il sapore ruvido e levigato della lingua labronica, il piglio dissacratorio
e pur mitizzante della gente di questa città che ho imparato ad amare. E mi
accorgo, però, che il Piulle-poeta si aggira in territori che trascendono
appartenenze, vincoli di sangue e di terra, in regioni universali che non hanno
latitudini o confini geografici. Territori in cui tutti ci aggiriamo prima o
poi, a volte perdendo la strada , a volte ritrovandola.
Poeta dell’inquietudine, dello
smarrimento, si fa carico con leggerezza del peso dell’esistere in solitudine e
assenza “che ci vengo a fare nel mischiarmi nel tutt’uno, quando / ognuno è
privo di noi stessi?”, nella dolorosa consapevolezza che “la vita è bugia
accettata… nessuno è dove è, ognuno è / là; dove fuggito o mancato vorrebbe
giacer per esserci, e lì / darsi e preso … ma nel frattempo onnivori … mangiam
noi / stessi”. Sono le verità di chi si è ferito i piedi, le mani e l’anima
cercando “certezze mai avute”, dentro una inesausta “fame d’emozioni” che
“talvolta ci ridicolizza patetici, altre / volte ci fa affascinanti
esploratori”.
Le strade che il Piulle privilegia sono
reali e metafisiche, incantate e disincantate, ingombre di figure portatrici di
senso “altro”, come quelle incontrate al lunapark nella poesia che apre,
significativamente, la raccolta “Ma non venire in troppe”. Sono figure
piangenti perché immobilizzate in una forma che non permette il contatto,
annichilite in una tensione desiderante che non può trovare appagamento se non
nel desiderio stesso e nel sogno. Quanto ricordano una umanità raggelata,
incapace di slanci e di dialoghi, di incontri, di condivisioni.
Figure materiate, di ferro di legno di
carne, eppure fatte della stessa materia dei sogni, palpabile e volatile,
inverosimile e pur realizzabile, improbabile e pur attuabile.
Nella poesia del Piulle c’è sempre un
“lì” introvabile ma osservabile da chi è da questa parte, da questa parte della
“siepe”. E’ poesia del limite, del confine, della ferita che si fa traccia o
soglia, attraverso cui saggiare, assaggiare il mondo che si fa tavola
imbandita. Confine di un corpo, di un dolore, un’assenza, un desiderio che
ritorna. Come una stagione. La stagione dell’amore sognato o consumato, non c’è
differenza, “Stanotte ho pensato a te, chiuso gli occhi ballavi / nella mia
stanza”.
All’ora del lupo famelico che “ ha
voglia di possederti” “preda mia di te gradito carnefice che ti coglie da
dietro”, segue l’ora della tenerezza, del perdersi in un profumo mattutino “la
mattina profuma di prima… di tutto”, sull’orlo di una bocca, su labbra che
“sembrano disegnate… dove sfinito mi lascerei a respirarti” in una tensione di
tendini e di aliti, sapendo che “l’amore va cercato negli anfratti, nei vicoli
/ nelle spiagge e talvolta nella spazzatura”.
E’ un vagabondare inquieto e curioso, e
ci trascina con sé, attraverso le ore, gli oggetti, i volti, una miriade di
porte che, non come quelle dantesche, danno speranze, permettono il risorgere,
sono cemento che il fiore può rompere. Un viaggio attraverso la notte a
“sciacquar la luna, / per poi stenderla / e vederla più bella”.
Poesia della notte, quella del Piulle,
“la notte umida è dietro alla porta / lasciata aperta dove nessuno entrerà / ma
vi sarà sospinto”. Sempre in bilico sull’orlo della notte, di una bocca, di due
occhi, di un corpo, sempre pronto a perdersi, “e visto che è leggero starci
accampiamoci / solo lì saremo protetti dal poco che avanza”. Non c’è
redenzione, non cerca salvezza. Basta sapere che c’è la possibilità di salvarsi
e la libertà di non farlo.
E’ un vagabondare che richiede solo un
momento di sosta in cui porsi in ascolto o orientare diversamente gli occhi,
attivare lo sguardo giusto, quello sghembo del Poeta. Lo sguardo di chi sa
perdersi nello slancio verso l’infinito di una gru “la più bella e lunga fuga
dove correre per gettarsi giù … sempre lì a cogliere il fiore”. A cogliere, a
sua insaputa, un passo di donna che “cammina selvaggiamente contro la rabbia
del mondo” e “abbracciarla e accompagnarla da lontano”, scoprendo così “quello
che è una dannata magia”.
E’ un universo popolato di donne quello
del Piulle, un “vizio di poco peccato”, anzi è “vizio di grazia”. Le donne sono
per lui l’asticella che segna l’equilibrio tra il giusto e l’eccesso”, e
procurano “vertigini fisiche e verbali”, ed è bello vedere il mondo attraverso
i loro occhi, è “danza nella musica”, è armonia. Il Piulle sa che scivolare nel
mondo delle donne non è comprenderlo né possederlo, ma è come quando tocchi le
ali di una farfalla e ti porti via sulle dita un pulviscolo giallo, “una
dannata magia”.
Allora sembra proprio peggiorato “Il
Piulle” – riprendendo le parole di una frase che chiude la raccolta – con la
sua poesia sgrammaticata, ma è un peggiorare di bellezza e di grazia. E di
dannazione.
Se il Piulle è inimitabile, solo e
originale nella sua scrittura, condividiamo con lui le erranze dell’esistere e
divoriamo inquietudine, ma il Piulle riesce a fare del tormento nutrimento e lo
mette nero su bianco, ma anche bianco su nero, e con le sue, queste sì solo
sue, sapienti e catartiche sgrammaticature.
E se la poesia è come la notte, non può
che trovare compimento nel giorno, e questo il Piulle, da vero poeta, lo sa, e
ci invita a stare “stesi come panni lavati, godiamoci il sole”.
M.D.