Nota di lettura (sintesi) di
Maristella Diotaiuti per il volume Storia
della bambina infranta. (Dialoghi-nudi), di Luisa Trimarchi, Puntoacapo Editrice, 2023, scritta in occasione
della presentazione alle Cicale Operose nella Giornata internazionale per
l’eliminazione della violenza contro le donne.
È un libro di poesie delicato e potente nello stesso tempo, intenso e leggero, ma di una leggerezza pensosa, un libro a volte straziante, a volte anche feroce, che tocca nel profondo, tocca noi donne (in
quanto donne). Perché parla
di una bambina incompiuta, frantumata, quindi c’è dentro l’idea di qualcosa di violento, di brutale, un’azione, una forza, esterna alla bambina che la fa a pezzi, nel corpo e nell’anima, e
le impedisce di vivere.
Questo è il tratto che rende
il libro di Luisa fortemente
e dolorosamente vicino ai fatti
dei nostri giorni, e che lo giustifica, lo inserisce
coerentemente nella giornata contro la
violenza sulle donne. Luisa perciò
ci racconta la storia della bambina
protagonista del libro colta nella sua linea esistenziale, a partire
dalla vita intrauterina fino
alla morte e oltre, anche oltre la morte, ma è una storia che appartiene a
tutte le bambine, tutte le
ragazze, tutte le donne.
La bambina infranta non racconta una storia precisa, non indica una violenza o un fatto doloroso specifici, ma questa bambina soffre di un male comune a tutte le donne, diffuso, atavico, radicato
e pervasivo e che ha tante
sfaccettature, assume tanti
volti, tante modalità. Un
male sempre diverso nel modo di manifestarsi, che è la cultura, il pensiero patriarcale, misogino, fallocentrico,
pensieri che vanno a braccetto con il
sistema economico liberista e
neoliberista, che trovano nella
violenza fisica la loro
manifestazione più evidente ma che agiscono anche livello psicologico, agiscono su piani diversi, anche sommersi, meno individuabili e per
questo ancor più pericolosi.
Quindi in
questo libro si parla sì di una
bambina precisa, individuata, che
però nello stesso tempo diventa
plurale, multipla, perché
incarna tutte le bambine,
è la portavoce di tutte le donne
silenziate, messe a tacere, infrante, frammentate, incompiute, inconcluse,
spezzate da una concezione maschilista,
dal pregiudizio atavico della presunta
inferiorità delle donne.
È una bambina incompiuta, che va alla ricerca di una propria identità, che tenta di mettere insieme i pezzi del proprio essere, del proprio corpo. Ed è una bambina
combattiva, alza la voce, batte colpi, fa rumore, e giustamente!
Per tornare
al termine infranta, può significare
anche donna prismatica, matrioska,
molteplice. Quindi la bambina infranta è anche la donna che ha dentro di sé, tutte le possibili donne, una sorta di matrioska, perché ogni donna è un coacervo di cose, di volti, di caratteristiche,
di sentimenti, di pulsioni, di possibilità, di aspetti della personalità anche
contraddittori, quindi è franta
anche in questo senso: può
essere obbediente e ribelle
nello stesso tempo, silenziosa e rumorosa, assordante,
urlante, può essere delicata e forte,
anche ruvida, sgarbata, dolce e sgradevole, buona e cattiva, anche feroce, rispettosa e dissacrante insieme. Insomma,
una donna è tutto questo insieme. Invece
ci vogliono univoche, dentro stereotipi
precisi, gabbie, perché così siamo controllabili, addomesticabili, funzionali.
La bambina di Luisa non nasconde questo suo statuto plurimo e
contraddittorio, anzi lo dice,
lo manifesta, lo urla, lo attesta come elemento di ricchezza, come valore aggiunto.
In molte poesie nel libro di Luisa la bambina si racconta proprio nelle sue incoerenze,
imperfezioni, nelle sue mancanze, nelle sue fragilità, anche con zone d’ombra, angosce, paure,
abissi.
La bambina di Trimarchi mi ricorda la massaia di Paola Masino,
del suo libro nascita e morte di una massaia, che vive chiusa in un baule, trascorre
tutta la sua infanzia e fanciullezza in un baule, e che decide di uscire per compiacere alle richieste della madre
e di una società, di un sistema che la vuole circoscritta in un ruolo, quella di moglie, madre, angelo
del focolare. Massaia, come la chiama Masino, che si compenetrerà tanto in questo ruolo
fino a non avere un nome proprio,
un nome che la individui, fino a morirne, morte che coincide col ritorno nel baule, cioè ritorno all’utero. Quello che è accaduto tra un inizio e
una fine non è stata nemmeno vita, e non ha nulla di edificante né di
importante, è stata tutta
compresa, identificata nel ruolo di massaia.
Ci sono poesie in cui assume anche
tratti demoniaci. Ma per demoniaco si intende quella forza eversiva, la capacità di capovolgere le cose, di aprire faglie, conflitti, di essere
rovinose, catastrofiche
dove però catastrofe in questo caso, è
l’azione dell’aratro che rivolta la terra, la ferisce, la taglia ma nello stesso tempo porta
alla luce ciò che sta sotto, il sopra va sotto e viceversa, migliorando così le proprietà
fisiche, chimiche, biologiche del
terreno e lo predispone alle
successive operazioni di concimatura
e di semina (e di semina parla
non a caso anche Luisa). *Catastrofe deriva dalla parola greca katastrophé in
dipendenza del verbo greco katastrépho, e significa letteralmente “capovolgimento”,
“rovesciamento”. Lo dice il prefisso greco katà-, che nel suo uso
preposizionale più semplice esprime il movimento dall’alto verso il basso.
La bambina
di Luisa Trimarchi non ha un nome, né un corpo intero, né
una identità precisa, ma esiste in pezzi che possono comporsi unitariamente oppure no.
Infatti, il paesaggio che Luisa disegna è desolato, ci sono pezzi ovunque, cocci di vetri e parti di corpo sparsi. Per questo è, resta una eterna bambina
che non può completarsi in una
adultita’ consapevole, liberamente scelta, voluta e completa
(poesia di pag. 81). Anzi potremmo spingerci fino a dire che la bambina
di Trimarchi non è nemmeno nata,
perché non si nasce alla vita quando tutto quello che ci aspetta è chiusura, coercizione, negazione.
E quindi non viene messa al mondo
come invece si fa con i figli maschi,
destinati, predestinati al mondo.
Nel libro, quindi, è molto presente
questa idea di non-vita e di morte, Luisa dedica una sezione della raccolta a questo tema (dialoghi
post-mortem). Ma spesso la morte è anche vista come una rinascita, una possibilità
di ritorno, e le donne hanno notoriamente
questa capacità di risorgere, di
risollevarsi anche dopo cadute
rovinose, di riacquistare le forze, di ritornare
a nuova vita anche dopo
esperienze devastanti. Le donne in particolare sanno far tesoro anche di
queste morti, di queste mutilazioni di vita.
Maria Zambrano parla delle persone come “natali” e non mortali,
perché siamo dentro a continue
rinascite, non si nasce una sola
volta, ma nel corso della
nostra vita moriamo a noi stessi continuamente quando facciamo esperienza,viviamo nuove cose, quando veniamo a contatto con diverse e nuove
persone. Zambrano parla di dis-nasciste
e di rinascite, e quindi torniamo a nascere ogni volta. Questa immagine della morte, della dis-nascita
e della rinascita mi fa avvicinare la bambina alla figura di Antigone: come Antigone, la
bambina di Luisa parla da una cavità,
da un sottosuolo, un angolo buio e appartato, come Antigone parla dalla tomba in cui è stata sepolta viva. Cito ancora
Zambrano: c’è un suo bellissimo
libro, che vi invito a leggere se non l’avete già fatto, la
tomba di Antigone, testo filosofico-poetico-teatrale del 1967, una nuova lettura in chiave filosofica del personaggio (personaggia) di Sofocle, ma è soprattutto una riscrittura di Antigone
che la rende attualissima. Maria
Zambrano riprende la figlia di Edipo là dove Sofocle l'abbandona, e discende
con lei agli Inferi, che sono anche gli Inferi dell'anima, dei legami
famigliari e sociali. Ed è molto
interessante questo parlare da dentro una cavità, un sottosuolo, un angolo buio. Le donne hanno dimestichezza con le discese nei pozzi (carteggio Ginzburg –de Céspedes). Le
donne hanno dimestichezza con le
immersioni nelle zone più profonde del proprio essere, dei propri
sentimenti, per far riemergere,
portare alla luce le zone
d’ombra, l’inconscio, le tracce interiori apparentemente smarrite. Per
dire il non detto o l’indicibile. E poi le donne da sempre parlano
dai margini, dagli anfratti,
non viste e non ascoltate. Come Antigone, Cassandra, da sempre silenziate,
rese invisibili, occultate.
La bambina di questo libro mi
è sembrata una moderna Antigone per quel suo interrogarsi incessante,
per quella sua capacità di abitare il
dolore, di guardarlo in faccia
e attraversarlo, farne esperienza e poi portare fuori questa sua esperienza, raccontarla, condividerla.
Anche i testi nella loro
struttura rispecchiano questo
dialogismo io-tu: ogni poesia ha una prima parte dove è la
bambina a parlare in prima
persona e poi una seconda parte
dove ci sono le parole di questo interlocutore indefinito, quasi
sempre tra parentesi, come un contraltare. È come una sorta di contraddittorio, come in un processo, dove c’è un imputato e un giudice, una giuria
che giudica e sentenzia. Certo, il messaggio è chiaro: entrambe
sono presenze necessarie poiché creatrici dell’altrui identità. Perché
è nel confronto con l’altro, nel
rispecchiamento dell’altro, che ci
vediamo e ci individuiamo.
La bambina infranta ha bisogno dell’altro per riparare il proprio danno, cerca una via di salvezza chiedendo all’altro attenzione e cura, e per di più proprio a colui, a coloro che
hanno provocato il danno.
Nel libro Luisa tocca anche il tema
della maternità, questo nodo ancora irrisolto, e parla della madre snaturata, non conforme, quella che nella nostra società è vista come
un’aberrazione, una mostruosità,
perché c’è questa idea che tutte le
donne devono essere madri e naturalmente
buone madri, affettuose, accoglienti, accudenti, ma la realtà ci dice anche altro.
C’è un altro aspetto interessante, in tutto il suo percorso la bambina è sostenuta dal desiderio, è il collante, il filo che la ricuce, un
essere desiderante, dove per desiderio si intende forza, energia, eros che le donne mettono
in tutto quello che fanno, dallo
scrivere una poesia, allo stare
con le amiche, dal cucinare
una pietanza all’incontro con il
divino.
Ancora una volta mi appello all’etimologia: la parola latina è de-sidus: senza stella, dove però quel
“de” non è privativo ma anzi indica la tensione verso qualcosa,
significa partire da un bisogno,
una mancanza per aspirare, tendere verso la realizzazione
di qualcosa (desiderio è tensione, andare verso...)
Il
messaggio finale che Luisa ci consegna non è disperante. Innanzitutto, come
abbiamo già detto, la bambina è tenace,
non si arrende, pur a pezzi, frantumata, infranta, si tiene insieme, si rammenda, c’è un
collante fortissimo che la ricompone. Per
ogni caduta, ogni silenzio, per ogni stigma, ogni morte c’è una ripartenza, un
inizio, una rinascita. Da ogni
morte nasce qualcosa di nuovo. Il messaggio finale è anzi di apertura, di speranza per un possibile futuro, per un mondo diverso da quello attuale, dove il femminile possa finalmente
essere motore della storia, agire
nella storia, e portare a
maturazione i semi che sono stati disseminati dalle donne, lasciati
a dimora nei solchi del mondo e della storia, del pensiero e della parola, da milioni di donne,
che hanno scritto, lottato, teorizzato,
agito, in silenzio, o urlando, vivendo e anche morendo.
Alla fine Luisa
ci lascia una bellissima visione: la possibilità di un
mondo futuro al femminile! Che ci
auguriamo possa realizzarsi presto, per il beneficio di tutti.
*Vorrei chiudere con la lettura della poesia di pag. 86
M. D.