Nota di
lettura di Maristella Diotaiuti per i volumi di Elvira Seminara, Leonora Carrington. Dea della
metamorfosi , Giulio Perrone Editore, 2022 e Diavoli di sabbia,
Einaudi Editore, 2022, scritta in occasione della presentazione alle Cicale
Operose.
Stasera parleremo
di questi due libri, differenti, diversi per genere letterario, ma che hanno anche dei punti di contatto (che scopriremo man
mano). La principale cerniera è
la scrittura di Elvira, una
scrittura con una cifra identitaria
unica, originale, nel panorama letterario italiano e non
solo, una scrittura superlativa,
improntata a un inesausto
sperimentalismo, a livello
linguistico e strutturale,
tanto che i suoi libri potrebbero
benissimo essere utilizzati nei corsi di scrittura (che lei stessa è
impegnata in corsi di scrittura) uno sperimentalismo
che però non è mai freddamente puro
esercizio di scrittura (perché è sempre innervato dal suo interesse per
la realtà, dal suo sguardo sul mondo, È innervato, riscaldato dalla vita.
Elvira Seminara è abilissima nel costruire narrazioni innovative e gioca soprattutto con la forma del romanzo,
lo esplora , lo sovverte, lo trasforma , utilizza le forme tradizionali ma innovandole, modificandole dall’interno,
le porta da un’altra parte. Ci ha già abituati a questa sperimentazione
narrativa: nei suoi precedenti lavori
ha utilizzato il romanzo in forma di catalogo, è ricorsa a un io narrante doppio, si è cimentata nell’autofiction, si è mescolata ai personaggi con il proprio nome, è autrice e personaggio insieme (un
esempio sommo lo abbiamo avuto in Dante nella Divina Commedia).
Primo libro: Diavoli
di sabbia.
Quindi se nei libri precedenti Elvira-autrice era fortemente presente, qui nel nuovo romanzo diavoli di sabbia, invece, è del tutto assente, infatti è stato eliminato il “punto di vista” che è una rivoluzione
narratologica, – non c’è la voce
narrante, è scomparso l’io
autoriale, l’autore onnisciente e demiurgo, o perlomeno ‘sembra’ scomparso (su questo ci
ritorneremo).
Quindi la letteratura come laboratorio per meglio scandagliare il reale, il contemporaneo, anche nelle pieghe, nelle parti
meno visibili. La vita, ci dice
Elvira, è nei dettagli, è dove
si nasconde e la scrittura di Elvira Seminara, la va a
scovare, perché come lei dice,
anzi come fa dire a un suo personaggio, è la
guardiana delle soglie, finendo col diventare una scrittrice funambolica, sempre in bilico sui bordi, esperta di visioni angolari, obliqui,
di fughe e di scarti.
La forma dialogica.
In questo romanzo Elvira innesca un congegno narrativo interamente
basato sul dialogo, tutta la narrazione
è in forma dialogica, non
c’è più la diegesi, cioè la narrazione, ma c’è la mimèsi. La costruzione dell’azione, della storia, o meglio delle storie, e dei personaggi è affidata interamente ai dialoghi dei personaggi stessi che diventano così protagonisti e narratori
insieme. Lo stesso lettore
è chiamato in causa, ad avere un ruolo attivo, perché sin da subito entra in medias res, ex
abrupto, in questa strategia dialogica,
si trova proiettato in una trama in cui tutto è scompaginato
continuamente, e quindi è
demandato al lettore il compito di ricostruire la trama, i fatti, gli accadimenti. Il lettore
ha così la sensazione, man mano
che va avanti nella lettura, che
la storia si faccia sotto i suoi occhi
(potremmo dire che questa storia, questo romanzo è molto visuale). Anche in questo emerge la maestria, l’abilità
di Elvira Seminara, perché dai
dialoghi dei personaggi emerge
non solo la storia e la caratterizzazione dei personaggi, ma anche
l’ambientazione e tutti gli
altri elementi che caratterizzano una narrazione.
Elemento strutturale del romanzo è la circolarità.
Il concetto di circolarità
è molto interessante, non solo dal punto di vista narrativo, narratologico,
ma anche dal punto di vista filosofico e scientifico, basti
pensare alla teoria dei quanti, alla curvatura spazio-temporale. Perché qui la storia, o meglio le storie che vengono
raccontate procedono per incastro,
si concatenano una all’altra c’è
uno schema ripetitivo: i capitoli
contengono sempre due protagonisti, e uno di questi sarà il protagonista nel capitolo successivo che dialoga, interagisce con un altro personaggio che sarà la voce narrante, il protagonista
nel capitolo successivo, e così via, fino al cortocircuito finale che non vi sveliamo. Mi ricorda un
po’ il romanzo bizantino. È uno schema
quasi matematico in questo
alternarsi di personaggi che sembrano godere della proprietà transitiva,
per cui se x è in relazione con y e y con z, allora z e x sono anch’essi in
relazione, una sorta di equazione, o sillogismo se lo vogliamo riportare sul piano
retorico. Una struttura che ricorda un
po’ le catene di omini di carta, e un po’ anche l’affascinante nastro di Mobius,
il matematico e astronomo tedesco, che non ha né un inizio né una fine.
Siamo tutti
interconnessi, le storie, pur così frammentate e pulviscolari, si intrecciano,
si intersecano, perché le nostre vite
sono tutte interdipendenti. Eppure,
nel suo romanzo il mondo che descrive
invece che plurale e interconnesso, sembra perlopiù un mondo ossessivo e autocentrato,
dove tutti sembrano soprattutto soli, e in cerca di ascolto ma
sostanzialmente soli. I personaggi sono
sempre duali, in binomio ma, come dire sentono in
due la stessa solitudine. e quindi il tema centrale di questo tuo
romanzo è proprio questo:
la incomunicabilità delle persone,
la labilità delle relazioni, il disperato bisogno delle persone di amare e di essere amate, viste,
ascoltate, ma nello stesso tempo
la incapacità di riuscirci.
Le identità
plurime
Nel romanzo di Elvira, in cui le prospettive cambiano continuamente, cambiano anche le identità
e i ruoli dei personaggi, in un continuo gioco di anamorfosi: tanti ruoli e tante identità man mano che veniamo a contatto, o in
urto, con altre identità,
cioè siamo contemporaneamente mogli, mariti, figli/e madri- padri, sorelle,
amici, professionisti. Siamo tante cose
e non siamo niente. mi ricorda un po’ Pirandello di “Uno nessuno e centomila”. È inquietante questa scomposizione della realtà, questa proliferazione di identità tutte vere e tutte
false, e l’ambientazione, il
tempo atmosferico, la pioggia, le storie, e i personaggi si muovono in una ambientazione quasi noir, un po’ gotica, quasi distopica.
Siamo in Sicilia, ma è una Sicilia poco consueta, insolita, a cui non siamo abituati. È una non-Sicilia. È un mondo più notturno che solare, più inquietante che protettivo, un mondo di pioggia che segue un climax ascendente sempre più
minaccioso: da nuvole nere in
lontananza – pioggia e poi alluvione – fino a diventare, unendosi al vento, tempesta
e uragano, che innesca un
sentimento di allerta che anticipa
un disastro, forse una pandemia
(mi riporta un po’ al romanzo precedente di Elvira, La penultima fine del mondo), una catastrofe ambientale, una guerra.
La presenza
demoniaca
Vista l’ambientazione, non ci sorprende nemmeno che lungo tutto il romanzo faccia capolino il
diavolo. C’è una presenza
demoniaca che si aggira,
anche se noi lettori non ci facciamo
caso, il romanzo è disseminato
della sua presenza:
– Devil è il nome di un albergo;
– diabolici sono alcuni protagonisti,
due in particolare;
– gli stessi elementi atmosferici
sono demoniaci: il vento e la sabbia sferzano in una notte di tempesta.
Una spia evidente della presenza demoniaca è nel linguaggio, è nell’uso
dell’ironia, e l’ironia è in sostanza uno sgambetto, uno sgambetto del senso, un sovvertimento dell’ordine di senso,
che è quello che per antonomàsia per
definizione è il diavolo. E siccome il diavolo è colui che scompiglia le carte, mette disordine, mette sottosopra le cose, mi chiedo: non è che
il diavolo è la stessa scrittrice, autrice, che nient’affatto assente, è invece tanto presente da
essere tiranna? Perché è lei a
giocare con le vite dei personaggi, a tirarne i fili come fossero marionette, una pupara insomma (come un’altra siciliana illustre Jolanda Insana).
Una pupara che si diverte anche con noi lettori a mostrarci tutto senza spiegarci nulla,
che ci consegna volta per volta un
pezzo di realtà che si
moltiplica, e cambia al prossimo
giro di giostra, che ci regala verità sempre di secondo grado?
Il dispetto
Visto che
abbiamo evocato il diavolo, e il diavolo è dispettoso,
non a caso, l’elemento di innesco dell’azione
narrativa nel tuo romanzo è dato
proprio da un dispetto, un dispetto
che però, dice Elvira, governa anche il nostro vivere in relazione. Questo
elemento, si collega, secondo me, anche alla citazione in epigrafe, in
esergo, di Ripellino, dove si parla di buffoneria del dolore, è come
se Elvira ci dicesse che siamo tutti bambini dispettosi, o diavoli dispettosi, e che viviamo immersi in una perenne commedia,
nel grottesco, in cui anche il dolore è
una buffoneria, non è da
prendere sul serio.
Secondo libro: Leonora Carringhton,
dea della metamorfosi.
Passiamo ora al secondo libro di stasera, un racconto biografico di Leonora Carringhton,
scrittrice, pittrice, scultrice e molte, moltissime cose, poi Elvira ci dirà. Una
donna, artista inglese vissuta tra due secoli (1917-2011).
Un piccolo scrigno, breve ma
intenso che solo una scrittrice
funambolica, come dicevamo prima, esperta di soglie e di visioni angolari, come è Elvira Seminara, poteva scrivere,
poteva portarci vorticosamente
nella vita vorticosa di un’artista unica come Leonora Carrington, che può essere considerata una Diavola di sabbia,
un refolo demoniaco per la sua capacità metamorfica, come già ci
suggerisce Elvira nel titolo, e soprattutto per la sua personalità travolgente, vulcanica. Una donna-artista
che avevo già conosciuto e approfondito col libro di Giulia Ingarao che però ha un taglio più saggistico, un tono
più distaccato, mentre questo di
Elvira ha temperature elevate,
in alcuni tratti ustionanti, e
ci restituisce tutta l’intensità,
la incandescenza di una vita come
quella di Leonora.
Beatrice
Hastings
Tra l’altro una personalità tale non mi
è nuova, perché molti tratti di Leonora
li ho ritrovati in Beatrice Hastings,
ho riscontrato moltissime analogie tra
loro: entrambe donne inquiete, non addomesticabili, libere, ribelli a qualsiasi etichetta
o scuola o definizione. Entrambe maestre del rifiuto: dell’educazione
familiare, degli studi regolari,
di amori rassicuranti, di ruoli predefiniti. Entrambe, quindi, irregolari, disobbedienti, scandalose, eccessive
e decentrate, fuori centro e
fuori canone. dentro una
selvatichezza che è recupero della dimensione ancestrale, naturale, sacra,
sciamanica del femminile, entrambe maghe o streghe, quindi, ma in questa precisa accezione. e tutte e due hanno indagato l’occulto e sperimentato il
manicomio.
[…]
Sono molto felice di parlare di
questo libro, per tutta una serie di circostanze. innanzitutto la circostanza significativa è che questo libro esce per Giulio Perrone
editore, e in una collana particolare,
“mosche d’oro” . Abbiamo
ospitato qui alle cicale il libro di Maria Rosa Cutrufelli su Maria Giudice,
uscito nella stessa collana, e quindi abbiamo avuto modo di apprezzarne i
pregi. È una collana tutta declinata al
femminile: prende il nome
dal titolo di un’opera di Anna Banti, ed è curata da donne (Giulia Caminito,
Nadia Terranova e Viola Lo Moro) e fa
uscire libri nei quali e soprattutto sono le donne che parlano di altre donne, donne del presente che si mettono in relazione con donne del passato che le hanno
precedute, le nostre amiche remote come le chiamava proprio Anna Banti
(“mosche” perché donne fastidiose come insetti, scomode, perché capaci di
sovvertire le regole, ma d’oro perché preziose!). Quindi, anche in questo libro la parola chiave è “relazione”, come per Diavoli di sabbia. Siamo cioè dentro un progetto di una,
necessaria ricostruzione della genealogia femminile, per riportare alla luce donne che hanno fatto la
storia (della letteratura, della scienza , della politica) ma che non vengono menzionate, ricordate, riconosciute, in un mondo tutto declinato al maschile. ma
anche per rispecchiarsi, riconoscersi, per ritrovare esempi, modalità di azione, di forza, di coraggio,
per ripensare il mondo in prospettiva. E cosa vuol dire ‘donne che parlano di donne’? significa adottare una modalità empatica, di connessione, significa entrare in profonda relazione con l’altra, e parlarne da queste vicinanze, quindi,
per tornare al libro, qui Elvira fa esattamente
questo: si mette in relazione
con Leonora, in empatia, senza
per questo perdere di vista il rigore
filologico, metodologico, di ricerca.
E realizza non una semplice biografia ma appunto un racconto biografico, che lei stessa chiama, significativamente,
ricognizione
innamorata e immaginosa (pag. 84).
Elvira scrive (pag. 8): L’ho
vista, nei sogni miei e suoi , per sforamento, per contagio” .
Leonora
Carrington e il surrealismo:
Leonora ha incarnato con la sua stessa
esistenza, oltre che con la sua
arte, il movimento surrealista,
come tu dici lei è il surrealismo, perché le è connaturato, anche se non
si definirà mai surrealista ma, come accade spesso alle donne, anche in questo caso il nome di Leonora
non compare tra gli artisti,
scrittori surrealisti, né quello di altre donne che
pure hanno dato enormi contributi
e spesso innovato.
Certo, lei stessa rifiutava le etichette, così come ha rovesciato lo
stereotipo delle donne-musa tanto vagheggiata dai surrealisti (che
ritengono le donne ferine e immobili, muse adorabili e capaci di stregare i sensi,
dense di magia), creature magiche ma prive di cultura, intelletto e ordine, orbitanti
ed emule del pantheon maschile (come Elvira scrive).
Ma certamente le spetta a pieno titolo l’appartenenza
al movimento.
Sulla
pazzia
Leonora ha vissuto anche la drammatica
esperienza del manicomio,
come è accaduto per moltissime donne, internate perché irregolari, non conformi
al modello stabilito. Nel caso di Leonora
è stato il padre, che non aveva
certamente un buon rapporto con la figlia, anzi era la figlia a non avere un
buon rapporto col padre! Ma la cosa interessante è che dopo questo deragliamento
psichico, dopo la drammatica esperienza del manicomio che l’aveva
profondamente segnata nel corpo e nello spirito, Leonora non si è lasciata piegare, anzi si ritroverà lucidissima, ha saputo trarne materia vitale, anche di ispirazione artistica, ha avuto dei figli, ha scritto fiabe, è andata in
Messico dove finalmente si sentirà a casa e libera di essere quello che
voleva essere, dove troverà la sintesi di tutte le sue anime. È anche questa la forza delle donne, di
cui Leonora è esempio altissimo, sublime, di rinascere dalle ceneri, la sua capacità di perdersi, ma anche di ritornare, di farne esperienza e esperienza di scrittura, infatti Leonora
ha raccontato in un libro questa
sua discesa agli Inferi, in maniera lucida e con estrema sincerità, senza nascondere
nulla.
Sulla maternità
Mi ha molto colpito il suo modo di
vivere la maternità. La maternità di Leonora è consapevole e gioiosa,
(pag.76), la sconvolge e la sorprende, e soprattutto riafferma attraverso il corpo
il legame con la natura, la connessione
profonda con la natura, una maternità che produce vita in tutte le direzioni, anche artistiche. Leonora ci dà tutta intera questa forza del
corpo delle donne potenziata/o
dal materno.
[…]
M. D.