giovedì 23 gennaio 2025

Elvira Seminara. Nota di lettura di Maristella Diotaiuti.

 




Nota di lettura di Maristella Diotaiuti per i volumi di Elvira Seminara, Leonora Carrington. Dea della metamorfosi , Giulio Perrone Editore, 2022 e Diavoli di sabbia, Einaudi Editore, 2022, scritta in occasione della presentazione alle Cicale Operose.

Stasera parleremo di questi due libri, differenti, diversi per genere letterario, ma che hanno anche dei punti di contatto (che scopriremo man mano). La principale cerniera è la scrittura di Elvira, una scrittura con una cifra identitaria unica, originale, nel panorama letterario italiano e non solo, una scrittura superlativa, improntata a un inesausto sperimentalismo, a livello linguistico e strutturale, tanto che i suoi libri potrebbero benissimo essere utilizzati nei corsi di scrittura (che lei stessa è impegnata in corsi di scrittura) uno sperimentalismo che però non è mai freddamente puro esercizio di scrittura (perché è sempre innervato dal suo interesse per la realtà, dal suo sguardo sul mondo, È innervato, riscaldato dalla vita.

Elvira Seminara è abilissima nel costruire narrazioni innovative e gioca soprattutto con la forma del romanzo, lo esplora , lo sovverte, lo trasforma , utilizza le forme tradizionali ma innovandole, modificandole dall’interno, le porta da un’altra parte. Ci ha già abituati a questa sperimentazione narrativa: nei suoi precedenti lavori ha  utilizzato il romanzo in forma di catalogo, è ricorsa a un io narrante doppio, si è cimentata nell’autofiction, si è mescolata ai personaggi con il proprio nome, è autrice e personaggio insieme (un esempio sommo lo abbiamo avuto in Dante nella Divina Commedia).

 

Primo libro: Diavoli di sabbia.

Quindi se nei libri precedenti Elvira-autrice era fortemente presente, qui nel nuovo romanzo diavoli di sabbia, invece, è del tutto assente, infatti è stato eliminato il “punto di vista” che è una rivoluzione narratologica, – non c’è la voce narrante, è scomparso l’io autoriale, l’autore onnisciente e demiurgo, o perlomeno ‘sembra scomparso (su questo ci ritorneremo).

Quindi la letteratura come laboratorio per meglio scandagliare il reale, il contemporaneo, anche nelle pieghe, nelle parti meno visibili. La vita, ci dice Elvira, è nei dettagli, è dove si nasconde e la scrittura di Elvira Seminara, la va a scovare, perché come lei dice, anzi come fa dire a un suo personaggio, è la guardiana delle soglie, finendo col diventare una scrittrice funambolica, sempre in bilico sui bordi, esperta di visioni angolari, obliqui, di fughe e di scarti.

La forma dialogica.

In questo romanzo Elvira innesca un congegno narrativo interamente basato sul dialogo, tutta la narrazione è in forma dialogica, non c’è più la diegesi, cioè la narrazione, ma c’è la mimèsi. La costruzione dell’azione, della storia, o meglio delle storie, e dei personaggi è affidata interamente ai dialoghi dei personaggi stessi che diventano così protagonisti e narratori insieme. Lo stesso lettore è chiamato in causa, ad avere un ruolo attivo, perché sin da subito entra in medias res, ex abrupto, in questa strategia dialogica, si trova proiettato in una trama in cui tutto è scompaginato continuamente, e quindi è demandato al lettore il compito di ricostruire la trama, i fatti, gli accadimenti. Il lettore ha così la sensazione, man mano che va avanti nella lettura, che la storia si faccia sotto i suoi occhi (potremmo dire che questa storia, questo romanzo è molto visuale). Anche in questo emerge la maestria, l’abilità di Elvira Seminara, perché dai dialoghi dei personaggi emerge non solo la storia e la caratterizzazione dei personaggi, ma anche l’ambientazione e tutti gli altri elementi che caratterizzano una narrazione.

 Elemento strutturale del romanzo è la circolarità.

Il concetto di circolarità è molto interessante, non solo dal punto di vista narrativo, narratologico, ma anche dal punto di vista filosofico e scientifico, basti pensare alla teoria dei quanti, alla curvatura spazio-temporale. Perché qui la storia, o meglio le storie che vengono raccontate procedono per incastro, si concatenano una all’altra c’è uno schema ripetitivo: i capitoli contengono sempre due protagonisti, e uno di questi sarà il protagonista nel capitolo successivo che dialoga, interagisce con un altro personaggio che sarà la voce narrante, il protagonista nel capitolo successivo, e così via, fino al cortocircuito finale che non vi sveliamo. Mi ricorda un po’ il romanzo bizantino. È uno schema quasi matematico in questo alternarsi di personaggi che sembrano godere della proprietà transitiva, per cui se x è in relazione con y e y con z, allora z e x sono anch’essi in relazione, una sorta di equazione, o sillogismo se lo vogliamo riportare sul piano retorico. Una struttura che ricorda un po’ le catene di omini di carta, e un po’ anche l’affascinante nastro di Mobius, il matematico e astronomo tedesco, che non ha né un inizio né una fine.

 Siamo tutti interconnessi, le storie, pur così frammentate e pulviscolari, si intrecciano, si intersecano, perché le nostre vite sono tutte interdipendenti. Eppure, nel suo romanzo il mondo che descrive invece che plurale e interconnesso, sembra perlopiù un mondo ossessivo e autocentrato, dove tutti sembrano soprattutto soli, e in cerca di ascolto ma sostanzialmente soli. I personaggi sono sempre duali, in binomio ma, come dire sentono in due la stessa solitudine. e quindi il tema centrale di questo tuo romanzo è proprio questo: la incomunicabilità delle persone, la labilità delle relazioni, il disperato bisogno delle persone di amare e di essere amate, viste, ascoltate, ma nello stesso tempo la incapacità di riuscirci.

Le identità plurime

Nel romanzo di Elvira, in cui le prospettive cambiano continuamente, cambiano anche le identità e i ruoli dei personaggi, in un continuo gioco di anamorfosi: tanti ruoli e tante identità man mano che veniamo a contatto, o in urto, con altre identità, cioè siamo contemporaneamente mogli, mariti, figli/e madri- padri, sorelle, amici, professionisti. Siamo tante cose e non siamo niente. mi ricorda un po’ Pirandello di “Uno nessuno e centomila”. È inquietante questa scomposizione della realtà, questa proliferazione di identità tutte vere e tutte false, e l’ambientazione, il tempo atmosferico, la pioggia, le  storie, e i personaggi si muovono in una ambientazione quasi noir, un po’ gotica, quasi distopica.

Siamo in Sicilia, ma è una Sicilia poco consueta, insolita, a cui non siamo abituati. È una non-Sicilia. È un mondo più notturno che solare, più inquietante che protettivo, un mondo di pioggia che segue un climax ascendente sempre più minaccioso: da nuvole nere in lontananzapioggia e poi alluvione – fino a diventare, unendosi al vento, tempesta e uragano, che innesca un sentimento di allerta che anticipa un disastro, forse una pandemia (mi riporta un po’ al romanzo precedente di Elvira, La penultima fine del mondo), una catastrofe ambientale, una guerra.

La presenza demoniaca

Vista l’ambientazione,  non ci sorprende nemmeno che lungo tutto il romanzo faccia capolino il diavolo. C’è una presenza demoniaca che si aggira, anche se noi lettori non ci facciamo caso, il romanzo è disseminato della sua presenza:

– Devil è il nome di un albergo;

– diabolici sono alcuni protagonisti, due in particolare;

– gli stessi elementi atmosferici sono demoniaci: il vento e la sabbia sferzano in una notte di tempesta.

Una spia evidente della presenza demoniaca è nel linguaggio, è nell’uso dell’ironia, e l’ironia è in sostanza uno sgambetto, uno sgambetto del senso, un sovvertimento dell’ordine di senso, che è quello che per antonomàsia per definizione è il diavolo.      E siccome il diavolo è colui che scompiglia le carte, mette disordine, mette sottosopra le cose, mi chiedo:  non è che il diavolo è la stessa scrittrice, autrice, che nient’affatto assente, è invece tanto presente da essere tiranna? Perché è lei a giocare con le vite dei personaggi, a tirarne i fili come fossero marionette, una pupara insomma (come un’altra siciliana illustre Jolanda Insana). Una pupara che si diverte anche con noi lettori a mostrarci tutto senza spiegarci nulla, che ci consegna volta per volta un pezzo di realtà che si moltiplica, e cambia al prossimo giro di giostra, che ci regala verità sempre di secondo grado?

Il dispetto

Visto che abbiamo evocato il diavolo, e il diavolo è dispettoso, non a caso, l’elemento di innesco dell’azione narrativa nel tuo romanzo è dato proprio da un dispetto, un dispetto che però, dice Elvira, governa anche il nostro vivere in relazione. Questo elemento, si collega, secondo me, anche alla citazione in epigrafe, in esergo, di Ripellino, dove si parla di buffoneria del dolore, è come se Elvira ci dicesse che siamo tutti bambini dispettosi, o diavoli dispettosi, e che viviamo immersi in una perenne commedia, nel grottesco, in cui anche il dolore è una buffoneria, non è da prendere sul serio.

 

Secondo libro: Leonora Carringhton, dea della metamorfosi.

Passiamo ora al secondo libro di stasera, un racconto biografico di Leonora Carringhton, scrittrice, pittrice, scultrice e molte, moltissime cose, poi Elvira ci dirà. Una donna, artista inglese vissuta tra due secoli (1917-2011).

Un piccolo scrigno, breve ma intenso che solo una scrittrice funambolica, come dicevamo prima, esperta di soglie e di visioni angolari, come è Elvira Seminara, poteva scrivere, poteva portarci vorticosamente nella vita vorticosa di un’artista unica come Leonora Carrington,  che può essere considerata una Diavola di sabbia, un refolo demoniaco per la sua capacità metamorfica, come già ci suggerisce Elvira nel titolo, e soprattutto per la sua personalità travolgente, vulcanica. Una donna-artista che avevo già conosciuto e approfondito col libro di Giulia Ingarao che però ha un taglio più saggistico, un tono più distaccato, mentre questo di Elvira ha temperature elevate, in alcuni tratti ustionanti, e ci restituisce tutta l’intensità, la incandescenza di una vita come quella di Leonora.

 

Beatrice Hastings

Tra l’altro una personalità tale non mi è nuova, perché molti tratti di Leonora li ho ritrovati in Beatrice Hastings, ho riscontrato moltissime analogie tra loro: entrambe donne inquiete, non addomesticabili, libere, ribelli a qualsiasi etichetta o scuola o definizione.  Entrambe maestre del rifiuto: dell’educazione familiare, degli studi regolari, di amori rassicuranti, di ruoli predefiniti. Entrambe, quindi, irregolari, disobbedienti, scandalose, eccessive e decentrate, fuori centro e fuori canone. dentro una selvatichezza che è recupero della dimensione ancestrale, naturale, sacra, sciamanica del femminile, entrambe maghe o streghe, quindi, ma in questa precisa accezione. e tutte e due hanno indagato l’occulto e sperimentato il manicomio.

[…]

Sono molto felice di parlare di questo libro, per tutta una serie di circostanze. innanzitutto la circostanza significativa è che questo libro esce per Giulio Perrone editore, e in una collana particolare,mosche d’oro” . Abbiamo ospitato qui alle cicale il libro di Maria Rosa Cutrufelli su Maria Giudice, uscito nella stessa collana, e quindi abbiamo avuto modo di apprezzarne i pregi. È una collana tutta declinata al femminile: prende il nome dal titolo di un’opera di Anna Banti, ed è curata da donne (Giulia Caminito, Nadia Terranova e Viola Lo Moro) e fa uscire libri nei quali e soprattutto sono le donne che parlano di altre donne, donne del presente che si mettono in relazione con donne del passato che le hanno precedute, le nostre amiche remote come le chiamava proprio Anna Banti (“mosche” perché donne fastidiose come insetti, scomode, perché capaci di sovvertire le regole, ma d’oro perché preziose!). Quindi, anche in questo libro la parola chiave è “relazione”, come per Diavoli di sabbia. Siamo cioè dentro un progetto di una, necessaria ricostruzione della genealogia femminile, per riportare alla luce donne che hanno fatto la storia (della letteratura, della scienza , della politica) ma che non vengono menzionate, ricordate, riconosciute, in un mondo tutto declinato al maschile. ma anche per rispecchiarsi, riconoscersi, per ritrovare esempi, modalità di azione, di forza, di coraggio, per ripensare il mondo in prospettiva. E cosa vuol dire ‘donne che parlano di donne’? significa adottare una modalità empatica, di connessione, significa entrare in profonda relazione con l’altra, e parlarne da queste vicinanze, quindi, per tornare al libro, qui Elvira fa esattamente questo: si mette in relazione con Leonora, in empatia, senza per questo perdere di vista il rigore filologico, metodologico, di ricerca.

E realizza non una semplice biografia ma appunto un racconto biografico, che lei stessa chiama, significativamente, ricognizione innamorata e immaginosa (pag. 84).  

Elvira scrive (pag. 8): L’ho vista, nei sogni miei e suoi , per sforamento, per contagio” .

Leonora Carrington e il surrealismo:

Leonora ha incarnato con la sua  stessa esistenza, oltre che con la sua arte, il movimento surrealista, come tu dici lei è il surrealismo, perché le è connaturato, anche se non si definirà mai surrealista ma, come accade spesso alle donne, anche in questo caso il nome di Leonora non compare tra gli artisti, scrittori surrealisti, quello di altre donne che pure hanno dato enormi contributi e spesso innovato.

Certo, lei stessa rifiutava le etichette, così come ha rovesciato lo stereotipo delle donne-musa tanto vagheggiata dai surrealisti (che ritengono le donne ferine e immobili, muse adorabili e capaci di stregare i sensi, dense di magia), creature magiche ma prive di cultura, intelletto e ordine, orbitanti ed emule del pantheon maschile (come Elvira scrive).

Ma certamente le spetta a pieno titolo l’appartenenza al movimento.

 

Sulla pazzia   

Leonora ha vissuto anche la drammatica esperienza del manicomio, come è accaduto per moltissime donne, internate perché irregolari, non conformi al modello stabilito. Nel caso di Leonora è stato il padre, che non aveva certamente un buon rapporto con la figlia, anzi era la figlia a non avere un buon rapporto col padre! Ma la cosa interessante è che dopo questo deragliamento psichico, dopo la drammatica esperienza del manicomio che l’aveva profondamente segnata nel corpo e nello spirito, Leonora non si è lasciata piegare, anzi si ritroverà lucidissima, ha saputo trarne materia vitale, anche di ispirazione artistica, ha avuto dei figli, ha scritto fiabe, è andata in Messico dove finalmente si sentirà a casa e libera di essere quello che voleva essere, dove troverà la sintesi di tutte le sue anime. È anche questa la forza delle donne, di cui Leonora è esempio altissimo, sublime, di rinascere dalle ceneri, la sua capacità di perdersi, ma anche di ritornare, di farne esperienza e esperienza di scrittura, infatti Leonora ha raccontato in un libro questa sua discesa agli Inferi, in maniera lucida e con estrema sincerità, senza nascondere nulla.

Sulla maternità

Mi ha molto colpito il suo modo di vivere la maternità. La maternità di Leonora è consapevole e gioiosa, (pag.76), la sconvolge e la sorprende, e soprattutto riafferma attraverso il corpo il legame con la natura, la connessione profonda con la natura, una maternità che produce vita in tutte le direzioni, anche artistiche. Leonora ci dà tutta intera questa forza del corpo delle donne potenziata/o dal materno.

[…]

M. D.