Quando ho letto le poesie di Nadia, mi sono subito balzate alla mente due immagini, forti: quella del pozzo di cui parlano Ginzburg e De Céspedes in un bellissimo e intenso corrispondersi di riflessioni, e quella di Caproni e di Ungaretti del Porto sepolto. L’articolo di Natalia Ginzburg compare nel 1948 sulla rivista Mercurio diretta da Alba De Céspedes. l’articolo è un Discorso sulle donne, argomenta sulla malinconia che alcune volte le colpisce e le fa cascare “nel pozzo”. A questo articolo risponde con una lettera Alba De Céspedes, non tanto come scrittrice, ma perché sua amica. Natalia Ginzburg scrive: Le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla: questo è il vero guaio delle donne. (le donne spesso si vergognano d’avere questo guaio, e fingono di non avere guai e di essere energiche e libere, e camminano a passi fermi per le strade coi bei vestiti e bocche dipinte e un’aria volitiva e sprezzante) e continua sostenendo che la caduta in questo pozzo sia una sciagura per le donne perché non le farà combinare nulla di buono. Alba De Céspedes le risponde: “al contrario di te io credo che questi pozzi siano la nostra forza. Poiché ogni volta che cadiamo in un pozzo noi scendiamo alle più profonde radici del nostro essere umano, e nel riaffiorare portiamo in noi esperienze tali che ci permettono tutto quello che gli uomini – i quali non cadono mai nel pozzo – non comprenderanno mai”.
Personalmente trovo bellissimo, e ricco di esiti, questo potersi riconoscere in una genealogia femminile, e riscontrare un filo rosso che attraversa la storia delle donne, se quello che dicevano due donne a metà ‘900 può essere ancora valido oggi nel nuovo millennio, per una poeta del 2020.
Ma ci sono anche i poeti.
C’è Caproni che in una rara apparizione pubblica, avvenuta il 16
febbraio 1982 al Teatro Flaminio
di Roma, scrive: il poeta è un minatore e poi (ricorrendo anche lui in una
citazione) aggiunge: è poeta colui che riesce a calarsi a fondo nelle
segrete gallerie dell’anima, riferendosi al paradosso per cui più il poeta si immerge in profondità nel
proprio io, tanto più si allontana da ogni autoreferenzialità, perché è in quella profondità vera che si cela l’universale.
E poi Ungaretti col suo Porto sepolto che è sì un antico porto sommerso nei pressi di Alessandria d’Egitto, secondo una leggenda africana, ma è anche e soprattutto una metafora dello scrivere poesia.
vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi
canti
e li disperde
di questa poesia
mi resta
quel nulla
di inesauribile segreto
Ecco, allora il porto sepolto è il luogo dove nasce la poesia: il porto sepolto è l’intimità dell’anima, un luogo a cui non tutti riescono ad accedere. Ma il poeta sì, vi si immerge, ne raggiunge la profondità, compiendo quella che nel mondo greco era definita catabasi: la discesa dell’anima del defunto nel mondo degli Inferi. Il poeta scava (come dice Caproni) scende, ma poi risale, torna alla luce, attraverso il percorso inverso, una anabasi, appunto, l’ascensione. a questo punto, una volta fuori, disperde i canti raccolti e li affida al mondo. C’è il dono del proprio canto che diventa di tutti, l’esperienza del poeta che diventa di tutti. Queste immagini, queste riflessioni poetiche e non, le trovo molto opportune per il fare poetico di Nadia Chiaverini, che di questa discesa nel pozzo, nel porto sepolto, nelle segrete dell’anima, nelle zone oscure dell’essere, ne ha fatto un libro, anzi due: notturni e ombre il titolo stesso ne è testimonianza e anche Poesia stregatta. Perché le due raccolte che sembrano molto diverse, in realtà sono molto dialoganti tra di loro, molto connesse. Entrambe hanno a che fare con il mistero, le zone buie degli esseri, del mondo, quelle zone segrete che appunto la poesia è solita esplorare, come fanno i gatti, che sono animali notturni, creature visionarie, liminali, medium tra dimensioni diverse, come è la poesia appunto. Solo che quello che in Poesia stregatta è trattato da Nadia con un piglio, un fare più svagato, più divertito, ma solo apparente, certamente obliquo, in notturni e ombre Nadia punta dritto al centro delle cose, si immerge totalmente nella materia nera e ne esplora i territori, ne sonda i confini e ne percepisce la gravità, quasi portandosi addosso il peso e le ferite che una tale immersione comporta. Perché non è facile portarsi addosso la poesia, è sì un’esperienza meravigliosa, ma è anche faticosa, dolorosa, difficile. Bisogna trovare le strategie per starci dentro senza riportarne danni irreversibili, e Nadia, molto generosamente, ce ne indica qualcuna di queste strategie, ad esempio, col primo libro ci suggerisce di farci gatti, o bambini, come dice chiaramente nella prima poesia, nel primo verso: inspiro e ritrovo l’io bambino, è quasi una seconda nascita, un attraversare un confine, farsi bambini per vedere le cose con la stessa meraviglia e attenzione della prima volta, farsi piccoli per poter entrare nelle fessure, e anche scrollarsi di dosso tutte le convenzioni, le molteplici stratificazioni culturali, logiche che ci impediscono di vedere e di sentire davvero, di cogliere, percepire le cose nella loro essenza, farsi gatto e attivare sensi altri, altre modalità e quindi avere il coraggio di andare dall’altra parte. Infatti qui la poesia funziona, per Nadia, come un portale, uno specchio deformante che sì distorce la realtà, come fa un bambino quando gioca, quando si relaziona col mondo, ma la distorce per poter entrare meglio nelle sue parti più nascoste delle cose, per poterle comprendere. È come se fosse necessario la sovraesposizione di un oggetto per accorgerci della sua esistenza. La distorsione, la sovraesposizione, Nadia la realizza attraverso il lavoro sulla parola, sul suo suono, sul suo ritmo, sul significante: ricorrendo spesso alle rime, alle assonanze e consonanze, alla repetitio, alla allitterazione…
Trama contorta
Una storia a due
Dura una vita intera
Come un cappotto di lana pura
E dura/che punge ma riscalda
Non trova mai la fine
E ancora si rivolta
Come una volta.
Questa poesia in Poesia stregatta
(pag. 13) è molto costruita,
infatti vi troviamo rime interne,
una fitta rete di assonanze e consonanze, una forte allitterazione sui
nessi: -pu -ra -ura -du -vo -va, e quindi sulle lettere:
d, t,
p, r, v, u, che producono suoni
duri, aspri, come diceva Dante, c’è la paronomasia (o
figura etimologica o annominazione), rivolta-volta dei due versi finali, con quella particella
reiterativa che amplifica il suono e l’altra paronomasia,
dura-dura
dei versi 3 e 5: due termini che
hanno la stessa forma ma con uno
slittamento di senso. E poi tutto il testo assume
graficamente la forma di un cuneo,
di una punta di lancia, qualcosa che penetra, fende, crea uno squarcio, come fa appunto la poesia che crea la crisi, è essa
stessa crisi, E come dice Nadia
è il deviare continuo dal
sentiero (nella poesia di pag. 48 di notturni
e ombre). Nadia riesce a spaziare
dalle architetture celesti, alle cose terrene, dalle questioni ontologiche,
universali alle cose più intime, individuali, fino ad appuntare lo sguardo alle cose minute, piccolissime,
quasi insignificanti, agli oggetti del quotidiano. In notturni
e ombre c’è una sequenza,
quasi un’esposizione di oggetti,
una sorta di enumerazione: la mela che cade – le grosse gocce della pioggia di settembre - i sassi levigati dal tempo e dalle
maree sulla spiaggia
– la legna che brucia nel camino – una bicicletta che sembra un cavallo. E
poi in Poesia stregatta troviamo: il cancello che cigola, il dado della vite, oggetti marginali che assurgono a dignità
poetica, diventano oggetti-parole-spie di un discorso più profondo. Ci sono in particolare
due oggetti estremamente suggestivi: un guanto perduto abbandonato sulla strada - una macchia sulla tovaglia bianca.
Di fronte a questo presente Nadia oppone il suo sguardo, il suo modo di stare al mondo, sceglie la poesia per cambiarlo, crede ancora nella sua funzione generatrice e rigeneratrice. Nadia ha scelto il disequilibrio, il rischio della caduta, si muove, appunto, in un mare periglioso, tra acque tempestose, tra l’ombra e la luce, in cui sembra smarrirsi, e non riuscire a vedere più la luce che ti porta in salvo. Ma non bisogna lasciarsi ingannare da Nadia, che si comporta proprio come lo stregatto, ce lo dice in una poesia: ride , sghignazza ecc., ci prende un po’ in giro, si prende un po’ in giro. E non bisogna lasciarsi ingannare dal titolo di questa seconda raccolta notturni e ombre che sembra suggerire una impossibilità totale di luce, uno sprofondare senza rimedio nelle tenebre. Perché i due termini che compongono questo titolo sono falsamente simili, a dircelo c’è innanzitutto la sovraesposizione, la reiterazione del termine, una repetitio un po’ sospetta, che funziona un po’ come una doppia negazione che diventa un’affermazione, cioè è come se nell’accostamento i due termini si annullassero e diventassero il loro opposto, cioè la luce. Ma ce lo dice soprattutto la e nel titolo che qui non si comporta come una congiunzione, ma piuttosto come una disgiuntiva, o un’avversativa, e quindi oppone notturni a ombre. Infatti, se le ‘ombre’ del titolo rimandano a un sottobosco, a territori nebbiosi, a anfratti umidi e bui, dove la materia si decompone, come nella fase alchemica della grande opera al nero, la negredo appunto in cui la materia si decompone, il termine ‘notturni’ rimanda invece, anche se sottilmente, a un chiaroscuro, una notte di plenilunio, a una melodia, una sonata di Chopin, fa pensare alla fase dell’albedo nella quale la materia ormai depurata dei suoi elementi corruttibili e impuri risorge con una nuova essenza pura e luminosa.
Tutto questo mi dice che Nadia crede ancora negli esseri, nelle creature, nonostante tutto, nonostante i notturni e le ombre, crede nella forza delle parole, della poesia. E quindi si fa seminatrice, seminatrice di parole, perché i poeti seminano parole, anche al buio, non sapendo dove cade il seme, se attecchirà, se da questo nascerà una piantina, ma lo fanno lo stesso, senza aspettarsi di vedere il risultato del loro gesto, è la loro natura. Nadia ce lo dice in una poesia appunto la seminatrice (pag. 43) in Poesia stregatta, dove c’è un’ immagine che richiama il gesto millenario del contadino che sparge le sementa nei solchi della terra, al quale assimila il lavoro del poeta, che dona se stesso, le sue visioni, le sue ombre, i suoi notturni, le sue luci, dandosi indifeso, senza pelle, scorticato, come il seme che cade nelle zolle, che non vedrà i frutti di questo suo donarsi, perché questo donarsi comporta la sua stessa morte, la sua fine, quindi si dona incondizionatamente.
Le grandi rivoluzioni, quelle vere, si fanno così.
M.D.