lunedì 20 gennaio 2025

Piera Ventre. Nota di lettura di Maristella Diotaiuti.


 

Nota di lettura di Maristella Diotaiuti per il volume Palazzo Kimbo, di Piera Ventre, Neri Pozza Editrice, 2016, scritta in occasione della presentazione alle Cicale Operose.

Recuperare un genere come quello del romanzo novecentesco, oggi in crisi perché non risponde più alle richieste di una società cambiata nelle sue strutture, vuol dire assegnare alla scrittura, alla letteratura, all’intellettuale un ruolo determinante, di lettura e di trasformazione della realtà. Del romanzo novecentesco, il libro di Piera condivide appunto alcuni caratteri essenziali: si configura come una biografia o, meglio, un’ autobiografia: infatti c’è un io narrante, la bimba Stella, Stelladamore, che si presenta, ha un nome e un cognome. Si colloca in una realtà ben definita: una città precisa in cui vive, Napoli, nella periferia di Napoli, un indirizzo cioè un palazzo, una famiglia, altre persone ben individuate che la circondano, insomma un mondo nel quale agisce e col quale interagisce. È insieme una cronaca sociale, perché nei fatti privati irrompono i fatti della storia ufficiale, e perché descrive, spiega e denuncia una condizione sociale di strati popolari e operai. Altro tratto in comune con il romanzo del ‘900 è il suo incentrare la narrazione sulla ricerca di valori autentici condotta da un eroe problematico, Stella appunto, attraverso un mondo degradato (secondo la teorizzazione di un grande studioso e filosofo ungherese Lukàsc). Altro tratto in comune è l’autorappresentazione verbale dei personaggi: ogni personaggio è tutto nel suo linguaggio, parla nel narrato così come parlerebbe realmente nella vita reale, basti pensare al personaggio di Zazzà o Consiglia, l’amica di Stella (questo della lingua, del linguaggio è un tema molto importante all’interno del racconto, e ci ritorniamo). È poi vi è la presenza, la mescolanza di più lingue, una sorta di plurilinguismo, e anche di più stili: uno stile più asciutto, scarno, quasi svuotato, e un altro più lirico che emerge a tratti e che tocca a volte punte davvero alte. Ed è un romanzo di formazione, perché la personaggia, l’eroina problematica della quale parlavamo prima, alla fine del racconto non sarà più la stessa di quella che si era presentata all’inizio.

È la stessa scrittura che si fa esperienza. E non è un caso che Stella verso la conclusione del suo apprendistato giovanile decide e rivela la sua volontà di diventare scrittrice, e tra l’altro dopo aver scoperto che nella scrittura si può anche non dire la verità, inventarne una che diventa così un’altra verità e non per questo meno reale, anzi. Ecco, in questa chiave, il recupero di questo genere, di questa forma di scrittura, ci dice molto di Piera scrittrice, del suo sguardo sul mondo, e sul suo mondo interiore, dei valori profondi che muovono e alimentano la sua penna.

I temi trattati.

Il suo mondo interiore e quello esterno, cupo, inspiegabile, minaccioso. Stella è la narratrice-bambina, curiosa, brillante, linguacciuta. Stella guarda se stessa, la sua infanzia, poi la sua adolescenza, la sua famiglia, gli altri, la città, insomma il mondo, dalla sommità del suo grigio palazzo di otto piani, e dall’altra parte di un paio di occhiali con le lenti a fondo di bottiglia (ricordano gli occhiali del racconto di Anna Maria Ortese che rimandano alla giovane protagonista, alla quale apparve una realtà brutta, aggressiva e disturbante). Ma per Stella tutto è una scoperta e tutto è in fondo magia: il malocchio che porta il mal di testa, i denti da latte (suoi e della sorella Angela) conficcati nelle crepe dei muri e affidati alla benevolenza di Sant’Antonio, il lungo e laborioso processo per la preparazione della perfetta salsa di pomodoro, i fuocarazzi nei cortili per Sant’Antonio Abate, le capuzzelle dei morti senza nome venerate, pulite, rinfrescate, la mano nera che si nasconde sotto i letti e ti trascina via se sei incauta e ti sporgi dal letto, ecc. ecc., l’elenco sarebbe lungo.

Stella ha fame delle cose, una fame ingorda e insaziabile, predetta da Zazzà (pag. 67). Stella sta dentro le cose, completamente e intensamente e, a volte, le sembra di dover lei pagare il dazio per le imperfezioni delle cose, i loro guasti, come scrive Piera a pag. 123 (quando scopre il colore del sangue e quindi la verità delle cose attraverso il nuovo televisore a colori). Ma nello stesso tempo vive un profondo senso di estraneità verso il mondo e le persone che la circondano, soprattutto verso la madre. A pag. 150 Piera scrive: ero una catena rotta, non trovavo agganci. Ma poi scopre che questo senso vuoto, di privazione, è lo stesso degli altri: a pag. 155 scrive: in ciascuna delle nostre bocche c’era qualcosa che mancava: una specie di vuoto da colmare. silice in quella di mio padre. bollicine effervescenti in quella di mia sorella. una paura senza nome nella mia. E in questa condivisione c’è già il senso di comunione e di appartenenza che tanto cerca e che ancora non sà di avere, ma che riconoscerà alla fine, nelle ultime pagine, in un bellissimo dialogo con la madre (dopo tanti conflitti, scontri, ribellioni, atti di forza, incomunicabilità tra di loro), è simbolico che lo sguardo di entrambe si appunti su un alberello che si erge fiero e isolato nel fosco paesaggio industriale, tra rifiuti di ogni genere, cani randagi e secche macchie di vegetazione. un solo albero che svetta verso il cielo, incurante dei gas di scarico delle auto, dell’autostrada, del cemento. È lo stesso albero che Stella ha osservato da sempre, in solitudine, e lo ha visto spesso vacillare, e la cui vista ora condivide con la madre. È un’immagine bellissima, di una liricità intensa e preziosa. Fa pensare a una resistenza, a un possibile riscatto civile della città che può venire solo dalla cultura e dalla dignità del lavoro.

Altro tema, il rapporto con la madre, che corre come un filo rosso per tutto il racconto. L’accento insiste sulla durezza della madre che tenta di guidare Stella sulla strada che ritiene più opportuna , allontanandola da chi ritiene pericoloso, le amicizie, la stessa città di Napoli che corrompe gli animi di chi vi abita.La madonna ti accompagna” è la preghiera che rivolge ogni giorno la madre affinché il male sia allontanato dalle figlie e dalla propria famiglia. Stella non comprende l’ossessione della madre di proteggerla dalle sue origini, e ciò non fa che acuire il suo senso di estraneità, di inadeguatezza che l’accompagneranno per tutta l’adolescenza, e scaverà solchi profondi dentro di lei, anche di odio per ciò che la circonda, e soprattutto verso la madre: leggere pag. 249. Stella si sente orfana in una città piena di figli e sangue, scrive altrove Piera.

La lingua proibita: il napoletano: il rapporto con la madre si gioca anche e soprattutto attraverso la lingua, il linguaggio, perché la madre le vieta di parlare in napoletano, e Piera lo dice molto bene a pag. 135 lettura, Mia madre sforzava il suo italiano… teatro di parrocchia. La lingua proibita è il simbolo stesso della Napoli misteriosa, magica, sotterranea, sismica, della contiguità tra vita e morte, dei riti catartici, che tanto la attraggono e la respingono. Piera scrive a pag. 39: La mano nera parlava la lingua proibita… mio italiano fiacco e mansueto. Attraverso la lingua, il linguaggio, Stella cerca di appropriarsi del mondo, ma fa fatica e anche a capirlo, perché per lei la parola è univoca, ha un solo senso.

Altro tema che percorre tutta la narrazione il rapporto tra Stella e Napoli: sempre giocato sulla lama dell’ambivalenza, delle oscillazioni tra un amore nascosto, tenuto sempre basso, e un risentimento, un rifiuto che si traduce in paura. La Napoli di Stella e’ la città in cui tutto si sdoppia anche le parole nel significato, come lavoro e fatica; è la città in cui si chiede amore alla morte. Una città malsicura e preziosa, precaria, sconvolta dai viruss, ma orgogliosa nei confronti di chi ne parla male senza conoscerla, come i giornalisti del nord, sempre pronta a rialzarsi e rinascere. È la Napoli che mi ricorda quella di Ortese, e anche quella della Serao, descritta con tutto il coraggio della denuncia, dello svelamento, delle brutture, ma anche con tutto l’amore soprattutto verso le creature piccole, gli ultimi. Ed è anche la mia Napoli, quella che ti ingloba con i suoi colori e i suoi suoni, le sue tradizioni, le sue malie. quella che non ti fa sentire mai sola, perché ogni suo abitante custodisce un suo segreto, un suo sogno, il proprio bagaglio di vissuto, ma tutti sempre pronti a svelartelo, ad accoglierti e farti sentire uno di loro.

Periferia: certo, è anche la Napoli della periferia, della periferia orientale, tra Ponticelli e San Giovanni, quella delle fabbriche, delle raffinerie, delle sopraelevate, del cemento, dei palazzoni grigi e anonimi come quello in cui vive Stella, il palazzo proprietà della Saint Gobain, antica fabbrica di vetri dove lavora appunto il padre di Stella. Una fabbrica che, pur costituendo, insieme ad altre, una fonte di inquinamento, plasma e scandisce i tempi della vita di questa comunità che vi ruota intorno. Piera scrive: La fabbrica allignava nelle cellule il suo nutrimento contraffatto, spargeva la crosta del pane con l’ossido di ferro… finiva nelle nostre bocche insieme al pane. Vale la pena ricordare che proprio qui, nel 1943, gruppi di lavoratori delle fabbriche misero in fuga nazisti e fascisti, pagando un prezzo altissimo con la strage alla vetreria Ricciardi, dove furono trucidato 29 operai. E nel libro di Piera si avverte ancora un’eco (ma siamo negli anni ‘70 del 900) soprattutto nella lotta del padre di Stella contro la cassa integrazione alla Saint Gobain. Nel lavoro a domicilio della madre, nelle difficoltà economiche e nella dignità delle famiglie nel far fronte alla crisi.

Irruzione dell’attualità della storia ufficiale: man mano che si dipana la storia personale di Stella nel suo mondo irrompono i fatti di cronaca, della storia ufficiale: il colera, gli scioperi, il femminismo, la cassa integrazione, la riconversione industriale, la svalutazione della lira, il compromesso storico di Berlinguer, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, la strage alla stazione di Bologna, i terribili fatti del Circeo, l’abbattimento del DC9 di Ustica, il terremoto dell’ ‘80, ecc.

La scrittura, lo stile: tutto questo e’ narrato attraverso uno stile elegante, ricercato, ma mai eccessivo, ridondante, uno stile ricco di subordinate e di metafore ma non fastidioso. Ma anche uno stile che realizza una sorta di mescolanza di stili, e di lingue, in cui il dialetto, il napoletano entra nel giro della frase, nel costrutto del periodare, e ne costituisce l’ossatura, si intrufola nelle stesse parole e ne sconvolge il senso. Entra con la sua musicalità degli accenti, i proverbi, le battute simpatiche. A volte Piera costruisce quello che in poesia si chiama mise en abime, quindi una sorta di mise en abime prosastico, concettuale, cioè da una parola, un pensiero ne scaturisce un’altra o un altro, potremmo dire una sorta di rima logica, del senso. un esempio è a pag. 154 (leggere episodio delle noci). Dico rima non a caso, perché nella scrittura di Piera vi è una liricità sottesa, contenuta, in filigrana, come un ritmo sotterraneo, una pulsazione, che scorre come un fiume in profondità a volte lento a volte impetuoso, a volte riemerge toccando punte molto alte.

Alla fine di questa esperienza, questa avventura di lettura, devo ringraziare Piera per aver scritto un libro così bello, di avermi fatto ritrovare oggetti, parole, tradizioni, riti, che hanno fatto parte anche della mia infanzia e della mia giovinezza. Ho scoperto una condivisione straordinaria e sorprendente. Piera scrive di cose che conosco bene anch’io. Foto di famiglia con soggetti diversi, ma con le stesse radici. La scrittura serve anche a questo, a riconoscersi uno nell’altro.

M. D.