Nota di
lettura (sintesi) di Maristella Diotaiuti per il volume Il principe poeta. Tutte le poesie e le liriche di Totò, di Antonio
De Curtis, a cura di Elena Anticoli De Curtis e Virginia
Falconetti, Colonnese Editore, 2018, scritta in occasione della
presentazione del volume alle Cicale Operose.
Stasera siamo qui, con Elena Anticoli De Curtis, per conoscere un altro Totò, non quello dei palcoscenici, dei set cinematografici, ma il Totò della scrittura, il Totò poeta.
Questo libro mette insieme per la prima volta tutte le poesie edite e inedite di Totò, e anche le tante canzoni che Totò ha scritto (e credo anche musicate), che qui trovano posto insieme agli spartiti. Credo che questa può essere considerata una raccolta definitiva. Tra l’altro Totò pubblicò in vita solo una parte della sua produzione: nel 1958 uscì la conosciutissima raccolta di liriche ‘a livella, per la casa editrice Fausto Fiorentino di Napoli; e nel 1977 l’editore Colonnese pubblicò il volume postumo dedicate all’amore. E poi altre poesie sono state raccolte, insieme a quelle già edite, nel volume Tuttototò del 1991. Ma questa nuova raccolta direi è la più completa e organica.
Sono in tutto 72 poesie raggruppate in 5 capitoli tematici: Napoli, le donne, l’amore, gli animali, uomini e caporali. Nella seconda parte, invece, troviamo 49 canzoni che Totò aveva scritto e credo anche composto nella sua parte musicale. È una raccolta molto ricca e generosa, perché è corredata anche dei qr-code che ci consentono di ascoltare proprio la voce di Totò che legge le sue poesie. Anche se la maggior parte delle poesie sono scritte nel lessico dialettale napoletano, ma sempre in modo attenuato, così da risultare comprensibili, altre liriche sono poi in lingua italiana. Ho comunque trovato valida l’idea di aggiungere alla fine un piccolo vocabolario che, oltre ad aiutare nella comprensione delle parole in napoletano qualora ce ne fosse bisogno, rivela anche la raffinatezza e la cura con cui Totò sceglieva le parole. e poi non mancano le schede di approfondimento, le foto anche poco note e le illustrazioni.
Insomma un libro ricco e generoso che bisogna assolutamente avere, e non soltanto i napoletani. Ed è un libro che nasce dal fermo proposito di Elena di portare avanti la memoria di Totò, di tenerne vivo il ricordo e l’attenzione. Sono ormai tanti anni, almeno dal 2015, che Elena si occupa di suo nonno, che ha iniziato questo percorso alla scoperta di un nonno che non è un nonno qualunque, soprattutto dopo la morte della madre, Liliana De Curtis, figlia amatissima di Totò, ha preso dalle sue mani il testimone, quindi Elena si trova a dover gestire questa doppia eredità.
Dicevo, un libro che ci fa conoscere un altro Totò, o meglio, più che a Totò ci avvicina piuttosto ad Antonio De Curtis, perché c’è da fare una distinzione, una separazione tra l’uomo e la maschera, comunque lo stesso Totò ha parlato di questa scissione, lo ha detto chiaramente rispondendo a una domanda di Lello Bersani, durante l’intervista: c’è una grande differenza. io sono De Curtis e lui è Totò, che fa il pagliaccio, il buffone. Io sono una persona per bene, infatti in casa, lui normalmente mangia in cucina, mentre io mangio nella stanza da pranzo. Io vivo alle spalle di Totò, lo sfrutto. lui lavora ed io mangio. E poi alla stessa domanda risponde Totò: Chi vi ha mandato? Lui, il principe De Curtis, buono quello! Mi fa mangiare in cucina con il pappagallo e ci devo mettere solo dieci minuti. Disgraziato, mi tiene sotto. Questo mese non mi ha pagato nemmeno le marchette. ma io mi rivolgo ai sindacati.
Ecco come Antonio De Curtis parlava del suo essere doppio, risolvendolo alla sua maniera geniale. Nel libro c’è una poesia in particolare, dove Totò fa emergere in tutta la sua potenza questa essenza del doppio: c’è l’immagine del clown triste, che è un topos, ed è la poesia di pag. 154, la preghiera del clown: leggerla.
Quindi le poesie di Totò vanno interpretate in questa chiave di scissione tra uomo e personaggio, e sono perciò da interpretare come l’espressione dei sentimenti dell’uomo De Curtis, libero finalmente di sfuggire agli obblighi di far ridere imposti dalla maschera, quello che svestiva i panni della marionetta e indossava quelli curiali, entrava nel suo pensatoio e scriveva versi.
Le poesie di Antonio De Curtis si possono annoverare tra i classici, perché, pur essendo molte tra esse poesie “di occasione”, partendo da dati, fatti, osservazioni personali, finiscono poi col diventare universali, e quasi filosofiche, perché parlano dei grandi temi dell’umano, di argomenti che riguardano l’uomo di ogni tempo. ma si tratta di una filosofia non pedante, né banale, e né moralistica, ma è una poesia filosofica equilibrata, sempre attraversata dalla propria persona, dalla propria partecipazione emotiva. Insomma Totò non si mette in cattedra a sentenziare, da moralista, si fa non solo osservatore delle cose, ma partecipa egli stesso, si mescola agli altri e se ne fa interprete attraverso la parola , e questa volta la parola scritta, la parola poetica. Perché Totò ha sempre avuto a che fare con le parole. Come dice molto bene Vincenzo Mollica nella sua prefazione al libro, Totò è stato un orchestratore di parole nel teatro, nel cinema, nella canzone, nella vita. Qui però, nella poesia, le parole di Totò acquistano un peso specifico, che la poesia stessa, in quanto tale, conferisce, ma che conferisce anche lo sguardo di Totò, il suo particolare sguardo sensibile e appassionato, empatico. Soprattutto nella sezione ‘uomini e caporali’, perché, appunto, per lui il mondo si divide in due schieramenti: gli sfruttati e gli sfruttatori, lo disse chiaramente nella intervista rilasciata a Oriana Fallaci.
In questa sezione, Antonio De Curtis fa importanti riflessioni sulla vita, sugli uomini e sul mondo, emerge una visione fondamentalmente pessimista della vita e della società, un ritratto amaro e disincantato dell’esistenza umana. E anche se lo fa con ironia e leggerezza, la sua è una seria critica sociale, di denuncia e di condanna di certi mali della società e di certi difetti degli uomini. I suoi sono versi che ci ricordano l’essenziale, la nostra vera natura di esseri umani. insomma una poesia che ci rimette al nostro posto. Come fa ad esempio nella sua ‘a livella, una poesia che può essere considerata il manifesto della sua poetica, sono versi che riflettono sul dolore, sulla insensatezza della vita, sulla malvagità dell’animo umano (come, ad esempio, nella poesia ricunuscenza), sullo sfruttamento dei più deboli e poveri da parte dei potenti. sono argomenti non certo leggeri, che non ti aspetteresti da uno dei più grandi comici italiani di sempre, che con un solo sguardo sapeva suscitare fragorose risate. Eppure anche questa è una legge naturale, come disse anche Monicelli, il più grande comico è anche il più grande tragico. Insomma da questa raccolta emerge, quindi, in maniera sorprendente il lato tragico e pessimista di Totò.
Totò e la solitudine: sempre nella intervista che citavo prima, di Oriana Fallaci, Totò confessava anche la sua predilezione per la solitudine, una solitudine cercata, voluta, che non gli pesava, anzi: io amo esser solo. Ho bisogno di essere solo: per contemplare, per pensare. A volte mi danno noia perfino le persone che amo. Sì, è difficile vivere con me. A me non piace andare nei night, non mi è mai piaciuto. Io, quando vedo quel divertimento falso non posso fare a meno di pensare che dietro a ciascuna di quelle persone c’è un dramma: il pianista magari ha le scarpe rotte, l’industriale ha le cambiali che scadono, l’entraineuse ha il figlio ammalato. Sono un misantropo, la base della mia vita è la casa. La casa, per me, è una fortezza, quasi una persona. Quando vi entro la saluto sempre come una persona: “buonasera, casa”.
Oltre a questa predilezione per la solitudine, c’è anche questa sua capacità di vedere al di là delle apparenze la vera condizione umana, di provare empatia per i drammi esistenziali. Ha sempre questo sguardo attento sulla miseria, le difficoltà delle persone.
Totò e la politica, il potere: in questa raccolta emerge anche la carica eversiva delle sue poesie. non a caso Virgina Falconetti, nelle sue note, parla di “disobbedienza”, scrive: le parole di Antonio De Curtis seguono il file rouge del disobbediente, che non accetta mai di omologarsi al solipsismo degli uomini e alla malacreanza. Soprattutto nei confronti dei potenti era sempre pronto a sbeffeggiarli, a ridicolizzarli. Non rinunciò mai ad esprimere il proprio punto di vista, la libertà di pensiero fu uno dei suoi tratti essenziali: non si sarebbe mai piegato all’autorità. Non ha mai accettato di essere un fantoccio. Si servì anzi dell’ironia, che il potere odia, per deridere il fascismo, e per questo fu oggetto di sorveglianza (subì anche un attentato, una bomba in un teatro), e per questo fu costretto anche a scappare e a nascondersi (episodio dell’orologio a teatro). Viceversa era sempre pronto a esaltare i bisogni e gli istinti umani primari: la fame, la sessualità, la salute mentale. Se i potenti sono malvagi, per Totò gli umili invece sono pieni di calore e di generosità nonostante la loro condizione.
Totò e Napoli: non a caso la raccolta si apre proprio con la sezione “Napoli”, tra Antonio De Curtis e Napoli c’era un legame imprescindibile, fortissimo, pur avendo scelto di vivere a Roma. Lui era nato nel quartiere popolare della Sanità, un legame, un amore che non si è mai spezzato, un legame fatto di molte cose e che viveva certo anche di nostalgie. Un amore ‘da esule’ si potrebbe dire, alimentato dalla malinconia che viene dai ricordi lontani e preziosi. Eduardo De Filippo disse una cosa molto significativa a proposito, cioè che Totò aveva assunto su di sé tutte le maschere napoletane, il teatro della Commedia dell’arte partenopea, filtrandole attraverso la sua sensibilità acuta di osservatore: Le maschere napoletane, il teatro della commedia dell’arte, passava per una sensibilità acuta di osservatore che era Totò. Quindi diventava una sua personalità. Qualunque cosa Totò toccava diventava incantata. C’era un rapporto simbiotico tra Napoli e Totò, Totò è nel dna di Napoli e viceversa. Napoli senza Totò non sarebbe la stessa, e Totò senza Napoli non sarebbe stato lo stesso Totò. Totò non è mai morto a Napoli, basta girare per i vicoli, per le strade, nei bar, nelle pizzerie, per accorgersene. È ancora vivo nel cuore di tutta la città, popolarissimo, conosciuto e riconosciuto da tutti, è dentro anche al suo linguaggio, il suo lessico. Ancora oggi i napoletani dialogano con Totò, affidano a lui le proprie preghiere come fanno con Maradona, con San Gennaro, e come hanno fatto con Virgilio mago. Per alcuni, cioè, Totò è una entità concreta , oltre che un mito.
Totò le donne e l’amore: c’è una sezione che, forse più di tutte ci consegna un Antonio De Curtis
nella sua più intima essenza: ed è quella dedicata alle donne
e all’amore. Ci sono poesie
davvero bellissime, delicate, ma
anche intense, alcune con dei topos
amorosi molto usati nella letteratura amorosa, ma che qui sono rivissuti con la
passione e la delicatezza, l’eleganza quasi elegiaca che appartiene al Totò
poeta: come ad esempio
quella degli “occhi che parlano”,
nella poesia uocchie ‘ncantatore
(pag. 62), ma lo ritroviamo in molte altre poesie.
Sappiamo che ha avuto molti amori, ma solo poche donne furono veramente significative nella sua vita: Diana, la madre di Elena, unica donna che ha sposato, e Franca, che fu la sua compagna nell’ultima parte della vita di Totò, nella sua malattia agli occhi e fino alla fine
Totò e gli animali: nel libro c’è anche una parte, secondo me, bellissima, tenera, sul suo rapporto con gli animali, di tenerezza, di cura, e di rispetto.
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Il legame di Totò con Livorno:
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M. D.