domenica 19 gennaio 2025

Carmen Pellegrino. Nota di lettura di Maristella Diotaiuti.

 


Nota di lettura di Maristella Diotaiuti per il volume di Carmen Pellegrino, Se mi tornassi questa sera accanto, Giunti Editore, 2017 e cenni al volume precedente dell’autrice, Cade la terra, Giunti Editore, 2015, scritti in occasione della presentazione dell’autrice alle Cicale Operose.

 

Ho a cuore la perdita, le storie di ferite. Ho a cuore chi siede nel buio

Queste parole di Carmen, scritte nelle note a fine libro, mi permettono di entrare varcare la soglia del mondo e della scrittura di questa grande autrice Cilentana, potrei dire scrittura poetica senza timore di sbagliare. Per Carmen scrivere significa in special modo far rivivere le storie che quei luoghi raccontano. Non so se vi è mai capitato, ma quando si va in un paese abbandonato (sono Cilentana come Carmen, ne ho visti anch’io diversi) si vedono una porta socchiusa, una finestra accostata, una piantina di fiori sul davanzale, della legna nel caminetto, come se chi se n’è andato dovesse rincasare da un momento all’altro, ma nessuno è mai tornato, tranne Carmen. Per Carmen ogni pavimento crollato è stato calpestato, ogni casa è una vita, ogni borgo è una storia, e per dircelo ha scritto un libro bellissimo Cade la terra. E in questo senso Carmen assegna alla scrittura un ruolo fondamentale perché convinta che all’abbandono si reagisce riscrivendolo, è attraverso la scrittura che si rifonda la vita e la si può raccontare. È necessario rinominare le cose per farle esistere e più profondamente e in maniera più duratura. Ridà così vita a questi luoghi (negli ultimi anni ne ha recensito e visitato decine e decine, in Italia e all’estero.)

Carmen Pellegrino scrive: possiamo lottare contro la desolazione delle cose lasciate a perdersi con le parole, tenendo viva la memoria, prendendo esempio dalla loro forza di resistenza al tempo. se ce l’hanno fatta i ruderi, possiamo superare anche noi il nostro carico di dolore.

E ancora: ho tratto dai ruderi una prospettiva capovolta, come un invito alla resistenza: ho visto una possibilità nelle cose lasciate a perdersi, nell’inutile. Così prendermi cura di tutto questo puro e fittissimo nulla è divenuto un modo di stare al mondo, tra i tanti possibili.

Carmen ci spinge a prenderci cura e ridare valore alle cose in perdita, alle cose lasciate indietro, a ridare valore alle fragilità, persino all’inutile, a recuperare l’immaginazione. Trovo tutto questo di una bellezza struggente, di una intensità poetica, e testimonianza di un animo sensibile e profondo. E sicuramente di uno sguardo al femminile. Perché mai come in questo caso siamo in presenza di una scrittura femminile in cui c’è tutta la capacità al femminile appunto di raccontare il mondo e gli esseri.

 I due romanzi che si presentano, una volta letti non saranno più dimenticati. Entrambi sono dominati dalla poetica dell’abbandono, declinata in tutta l’ampiezza delle sue varianti: abbandono biologico, sociale, fisico e metafisico, inconscio, politico, metaforico. Ma in cade la terra prevale la dimensione fantasmatica ed è anche un racconto corale, in cui si intrecciano tanti destini.

Gli elementi fondanti e portanti di questo primo romanzo, Cade la terra, sono il rapporto con i morti e con la memoria, ed è anche la storia di un nostos, della protagonista Estella, ma anche di tutti coloro che quel borgo non lo hanno mai lasciato e sono rimasti come ombre.

Carmen scrive: sediamo presso i morti che ci divengono così cari, ne ascoltiamo le parole il cui senso abita in noi e non dobbiamo fare altro che riconoscerlo.

E ancora: nessuno fra i morti se ne va completamente, così come tra i vivi nessuno ci sarà mai del tutto.

È un libro pieno di poesia, la poesia del silenzio, della nostalgia dell’inaccaduto, dove le parole pesano come pietre, le stesse che scivolano a valle come il borgo di Alento, dove è ambientata la storia. Estella è una specie di sacerdotessa, una custode del passato che sgretola via come le case, Carmen assegna a questo personaggio una funzione importantissima all’interno della narrazione.

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Per quanto riguarda il secondo romanzo, Se mi tornassi una sera accanto dico subito che lo trovo un capolavoro, uno straordinario viaggio nel proprio animo ma anche in quello dei personaggi e in quello di Carmen. È la trama di un sofferto dialogo interiore tra un padre e una figlia, che si amano disperatamente, anche se non sanno dirlo, e si ritrovano ad affidare messaggi al fiume. Ma non è facile parlare di questo libro, perché è tante cose insieme: romanzo, favola, epistolario, poema onirico, analisi di eventi storici quelli della grande storia strettamente connessi con la storia minuta degli uomini anonimi.

È un libro sulla distanza (tra gli esseri), sull’assenza, sull’abbandono, sul mutacismo, sulla speranza e il suo apparente contrario, sulla memoria e l’oblio, sulle fragilità e il loro contrario. Su quella che Carmen chiama la disperanza che tanto connota i personaggi del romanzo, e che è tanto forte tra la gente del Cilento, la disperanza è la forza di trovare speranza nelle cose disperate, di non arrendersi e di credere sempre nell’operosità e nella rinascita.

 (Lettura pag. 11)

 Apparentemente semplice, una lettura scorrevole, in fondo e’ una storia di legami familiari come ce ne sono tanti, di scontri generazionali, se vogliamo, di un legame con la propria terra difficile da ridefinire, e quindi la storia di una crescita, di un affrancamento, di un distacco più o meno necessario. Ma poi questa storia, questa semplicità è complicata da tutta una serie di rimandi, stratificazioni, innesti, sapientemente amalgamati dalla penna di Carmen, che aprono zone di indagini, di riflessioni, di analisi. È un romanzo struggente ma di una tenerezza delicata. Commovente e denso di incanto. Un romanzo di grazia e rara bellezza, che racchiude la suggestione toccante delle storie che arrivano al cuore, parlando sottovoce.

Ma è anche un romanzo colto, perché fatto di continue citazioni e allusioni dei poeti amati da Carmen, che sono tanti (Montale, Pozzi, Dickinson), soprattutto Alfonso Gatto. Il titolo del libro è, appunto,  il primo verso di una poesia di Gatto, “A mio padre” (un poeta salernitano molto amato da Carmen, straordinario ma del quale purtroppo si parla poco). Ma tutta la prosa è poetica: una narrazione intessuta, permeata di poesia, anche in quei punti dove ce la aspetteremmo di meno, dove non dovrebbe essere. Quindi la sua è una scrittura sempre elegante e avvolgente, piena di echi e di suggestioni. Ma anche piena di trappole emotive, tranelli psicologici, che il libro difficilmente permette di ignorare. Per cui tutto ciò necessita di un lettore pronto a lasciarsi andare alle proprie malinconie senza alzare barriere.

E poi c’è la dimensione, il territorio della scrittura: che per Carmen e per i suoi personaggi acquista una valenza salvifica, la parola salva i personaggi dalla follia, tutto il libro è un inno alla parola, per tutte le pagine viene cercata questa parola, quella che può cambiare il corso delle cose, e la riconciliazione è resa possibile proprio grazie alla scrittura.

Perché prima di tutto fa un enorme lavoro sulla parola, sulla lingua, restituendoci la complessità della semplicità che è sempre il punto di arrivo di un lungo e doloroso lavoro. È una fiducia nella capacità della parola di creare le cose, di raccontarle e di raccontarcele. Carmen perviene ad una lingua che sa di antico ma per effetto di un lavoro minuzioso di ricerca e recupero. Una lingua arcaica ma che ad un certo punto ti riporta all’oggi perché si nominano oggetti come il computer, luoghi virtuali come facebook, pale eoliche, le antenne dei ripetitori, quasi ci fosse un controcanto temporale, straniante, e sorprendente.

Questa è anche la scrittura di Giosuè e quella di Nora, tra i protagonisti del romanzo!

Giosuè affida alle lettere indirizzate alla figlia lontana tutta la sua incapacità a comunicare, a pronunciare le parole che nutrono i legami. le sue sono parole che finalmente comunicano: la propria fragilità, i propri limiti, i propri sogni e le proprie sconfitte, comunicano perché si mettono in relazione con l’altro per quello che è realmente. Non importa se non arriveranno a destinazione, perché le affida al fiume.

La scrittura di Nora, la madre di Lulù, la figura più magica e straordinaria di tutto il racconto. Nora scrive storie deliranti (con l’inchiostro invisibile, o al contrario costringendo chi legge a porsi davanti allo specchio) che nasconde agli sguardi degli altri, ma che la figlia troverà. Nora ama con le parole, anche se gli altri non lo sanno.

Abbiamo accennato ai personaggi, che in questo secondo romanzo si limitano ad essere i componenti di un nucleo familiare: Giosuè Pindari il padre, Nora la madre, e Lulù la figlia: un piccolo cosmo di amore fortissimo e disarmante, attorno al quale si snoda una storia che è essa stessa poesia: l’amore imperfetto delle anime semplici da cui fuggire per poi tornare ancora, perché si torna sempre a casa. In un modo o nell’altro. una storia di abbracci mancati, di messaggi nella bottiglia. personaggi come naufraghi su isole deserte. Carmen ci mostra tutti i limiti e le debolezze dei protagonisti, la loro incapacità di mostrare o dare amore, o di quella capacità mutilante di amare male.   

Per me: Giosuè è uomo della concretezza, ha conosciuto la povertà e grazie al sudato “pezzo di carta” ha potuto sottrarsi al mestiere dei padri e sperare in meglio.

Uomo d’altri tempi, ruvido come il posto da cui proviene, un paesino dell’Appennino lucano, dal quale non è riuscito ad andar via perché non ha mai voluto. A quest’uomo il lettore si affeziona subito, ma a mano a mano che si procede nella lettura, si scoprirà il suo vero carattere, e non sarà facile accettarlo: perché si rivela un uomo abituato a comandare e a non sentirsi dire di no, in linea con la mentalità dei posti in cui vive. Ma è anche un sognatore di mondi perfetti, che sa restare tutta la vita accanto alla donna che ha sposato, nella gioia e nel dolore. Perché una promessa è una promessa. La vita di Giosuè si svolge tra due poli: le radici e il socialismo, almeno fino al 1992, anno della “grande delusione”, quando il partito in cui ha creduto (il partito di Pertini che piangeva sulle macerie lasciate dal terremoto dell’80) finisce improvvisamente travolto dagli scandali e dalle manette, dalle inchieste di tangentopoli. Ma Giosuè non si arrende, il seguito è l’ignoto ideale: il progetto utopico di dare vita a una città ideale sulle sponde del fiume, il “fiumeterra”, che avrebbe rappresentato un grande ritorno alla campagna ma senza le privazioni dei padri. Contadini e operai avrebbero avuto case confortevoli, mezzi di trasporto gratis, assistenza medica gratuita, vigne, uliveti e terra fertile per tutti. Aveva scritto addirittura una costituzione. Ma il sogno di Giosuè si infrange quando arrivano le pale eoliche, le antenne telefoniche, che deturpano e feriscono una terra che aveva la sola colpa di trovarsi all’incrocio dei venti. Giosuè finisce per perdere affetti e ideali, per ritrovarsi solo, incapace di comprendere. la politica lo ha deluso, sua moglie Nora si è ammalata di quella che lui chiama una forma di malinconia, ma in realtà afflitta da un male di vivere che non le lascia scampo.

Solo il fiume gli resta, l’acqua che scorre e che cela percorsi sotterranei ma non ci abbandona. Ed è al fiume che offre i suoi messaggi in bottiglia, le lettere per sua figlia. richieste di amore, offerte, ricordi, memorie.

Giosuè dirige la vita di sua figlia che dice sempre si, ma non si domanda se possa avere dei bisogni, delle aspirazioni o semplicemente dei desideri.

E poi c’è Lulù: un’esistenza inquieta al servizio del padre, la figlia devota, che sa donarsi senza riserve al mondo dei grandi, scoprendo troppo presto che amare può essere doloroso, e a volte anche una bambina può fare da madre alla madre. E che a un certo punto sente che è giunto il momento di liberarsi dalla stretta di una madre irreparabilmente perduta nella sua demenza, e di un padre visionario. dandosi alla fuga, e che alla fine saprà arrivare ad una forma di conciliazione, sulle rive di un altro fiume, perché solo sull’acqua dolce poteva in qualche modo sentirsi a casa.

Infine Nora, che secondo me è la figura più carismatica e silenziosa del romanzo. Tutta chiusa, apparentemente, nella sua gabbia emotiva, nel suo mondo all’apparenza deserto e invece popolato dalla vita di altre persone con le quali, nonostante la malattia, e contrariamente alla solitudine reale dei suoi familiari, intesse dialoghi densi di esistenza. una donna magica che parla ai morti degli altri e scrive storie apparentemente deliranti, dopo essere andata ai funerali degli sconosciuti Nora è l’unica che realmente dialoga: lei che vive in un limbo, che vede i chiaroscuri, lei che scrive con la grafia invisibile o a specchio con il succo di limone, o al contrario mettendo la figlia davanti allo specchio per permetterle di leggere.

Se Giosuè è la legge, il desiderio di controllo e quindi non può amare realmente, Nora è capace di un amore profondo proprio perché lei il controllo lo ha già perso. E dunque ama, anche quando non sembra, anche quando non si comporta come dovrebbe fare una madre. Ama con le parole, con le parole invisibili con le quali voleva creare un legame con la figlia, ma Lulù lo capirà dopo, e grazie ad un altro personaggio apparentemente marginale, Andreone, che ritroviamo nella seconda parte del libro, che è l’antitesi di Giosuè, il suo contraltare, un uomo senza certezze, lui sì che vive sull’acqua, ed è fatto di acqua. È un uomo fondamentale per Lulù, perché come dice Carmen ha nel nome l’andata e il ritorno, e sarà proprio lui ad insegnare a Lulù la riconciliazione, che le farà conoscere una realtà diversa che aveva mal percepito, a cominciare dal rapporto con sua madre che le ha sempre manifestato il suo amore con i suoi ‘non gesti’, o con i segreti custoditi nei diari nascosti. Andreone le dirà: in quelle stranezze ti ha portato con sé: tu eri con lei nel suo segreto. Con Andreone c’è insomma la scoperta dell’altro, e la conquista con gesti gratuiti come un abbraccio alla fine di un discorso, quegli stessi gesti a cui non siamo più abituati, perché siamo diffidenti, e quindi limitati. Carmen scrive: la solitudine è bella, ma abbiamo bisogno di qualcuno a cui dire che non lo è.

 M. D.