Nota di lettura di Maristella Diotaiuti per il volume di Carmen Pellegrino, Se mi
tornassi questa sera accanto, Giunti Editore, 2017 e cenni al volume
precedente dell’autrice, Cade la terra,
Giunti Editore, 2015, scritti in occasione della presentazione dell’autrice
alle Cicale Operose.
Ho a cuore la perdita, le storie di ferite. Ho a cuore chi siede nel buio.
Queste parole di Carmen, scritte nelle note a fine
libro, mi permettono di entrare varcare la soglia del mondo e della scrittura
di questa grande autrice Cilentana, potrei dire scrittura poetica senza timore
di sbagliare. Per Carmen scrivere significa in special modo far rivivere le storie che quei luoghi
raccontano. Non so se vi è mai capitato, ma quando si va in un paese
abbandonato (sono Cilentana come Carmen, ne ho visti anch’io diversi) si vedono
una porta socchiusa, una finestra accostata, una piantina di fiori sul
davanzale, della legna nel caminetto, come se chi se n’è andato dovesse
rincasare da un momento all’altro, ma nessuno è mai tornato, tranne Carmen. Per
Carmen ogni pavimento crollato è stato calpestato, ogni casa è una vita, ogni borgo è una storia, e per dircelo ha scritto un libro bellissimo Cade la terra. E in questo
senso Carmen assegna alla scrittura un ruolo fondamentale perché convinta che all’abbandono si reagisce riscrivendolo, è attraverso la
scrittura che si rifonda la vita e la si può raccontare. È necessario
rinominare le cose per farle esistere e più profondamente e in maniera più
duratura. Ridà così vita a questi luoghi
(negli ultimi anni ne ha recensito e visitato decine e decine, in Italia e
all’estero.)
Carmen Pellegrino scrive:
possiamo
lottare contro la desolazione delle cose lasciate a perdersi con le parole,
tenendo viva la memoria, prendendo esempio dalla loro forza di resistenza al
tempo. se ce l’hanno fatta i ruderi, possiamo superare anche noi il nostro
carico di dolore.
E ancora: ho
tratto dai ruderi una prospettiva capovolta, come un invito alla resistenza: ho
visto una possibilità nelle cose lasciate a perdersi, nell’inutile. Così prendermi cura di tutto questo puro e
fittissimo nulla è divenuto un modo di
stare al mondo, tra i tanti possibili.
Carmen ci spinge a prenderci cura e ridare valore alle
cose in perdita, alle cose lasciate indietro, a ridare valore alle fragilità,
persino all’inutile, a recuperare l’immaginazione. Trovo tutto questo di una
bellezza struggente, di una intensità poetica, e testimonianza di un animo
sensibile e profondo. E sicuramente di uno sguardo al femminile. Perché mai come in questo caso siamo in
presenza di una scrittura femminile in cui c’è tutta la capacità al femminile
appunto di raccontare il mondo e gli esseri.
I due romanzi
che si presentano, una volta letti non saranno più dimenticati. Entrambi sono
dominati dalla poetica dell’abbandono,
declinata in tutta l’ampiezza
delle sue varianti: abbandono
biologico, sociale, fisico e metafisico, inconscio, politico, metaforico. Ma in
cade la terra prevale la dimensione fantasmatica ed è anche un racconto corale, in cui si intrecciano
tanti destini.
Gli elementi fondanti e portanti di questo primo
romanzo, Cade la terra, sono il
rapporto con i morti e con la memoria, ed è anche la storia di un nostos, della
protagonista Estella, ma anche di tutti coloro che quel borgo non lo hanno mai
lasciato e sono rimasti come ombre.
Carmen scrive: sediamo
presso i morti che ci divengono così cari, ne ascoltiamo le parole il cui senso
abita in noi e non dobbiamo fare altro che riconoscerlo.
E ancora: nessuno
fra i morti se ne va completamente, così come tra i vivi nessuno ci sarà mai
del tutto.
È un libro pieno
di poesia, la poesia del silenzio, della nostalgia dell’inaccaduto, dove le parole pesano come pietre, le
stesse che scivolano a valle come il borgo di Alento, dove è ambientata la
storia. Estella è una specie di sacerdotessa, una custode del passato che
sgretola via come le case, Carmen assegna a questo personaggio una funzione
importantissima all’interno della narrazione.
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Per quanto riguarda il secondo romanzo, Se mi tornassi una sera accanto dico subito che lo trovo un capolavoro, uno straordinario
viaggio nel proprio animo ma anche in quello dei personaggi e in quello di Carmen.
È la trama di un sofferto dialogo
interiore tra un padre e una figlia, che si amano disperatamente, anche
se non sanno dirlo, e si ritrovano ad affidare messaggi al fiume. Ma non è
facile parlare di questo libro, perché
è tante cose insieme: romanzo, favola, epistolario, poema onirico, analisi
di eventi storici quelli della grande storia strettamente connessi con la
storia minuta degli uomini anonimi.
È un libro sulla distanza (tra gli esseri), sull’assenza,
sull’abbandono, sul mutacismo, sulla speranza e il suo apparente contrario, sulla
memoria e l’oblio, sulle fragilità e il loro contrario. Su quella che Carmen
chiama la disperanza che tanto connota i personaggi del romanzo, e che è
tanto forte tra la gente del Cilento, la disperanza
è la forza di trovare speranza nelle cose disperate, di non arrendersi e di
credere sempre nell’operosità e nella rinascita.
(Lettura pag. 11)
Apparentemente semplice, una lettura
scorrevole, in fondo e’ una storia di
legami familiari come ce ne sono
tanti, di scontri generazionali, se vogliamo, di un legame con la propria terra
difficile da ridefinire, e quindi la storia di una crescita, di un
affrancamento, di un distacco più o meno necessario. Ma poi questa storia,
questa semplicità è complicata da
tutta una serie di rimandi, stratificazioni, innesti, sapientemente amalgamati
dalla penna di Carmen, che aprono zone di indagini, di riflessioni, di analisi.
È un romanzo struggente ma di una
tenerezza delicata. Commovente e denso di incanto. Un romanzo di grazia
e rara bellezza, che racchiude la suggestione toccante delle storie che
arrivano al cuore, parlando sottovoce.
Ma è anche un romanzo
colto, perché fatto di continue
citazioni e allusioni dei poeti amati da Carmen, che sono tanti (Montale,
Pozzi, Dickinson), soprattutto Alfonso
Gatto. Il titolo del libro è, appunto, il primo verso di una poesia di Gatto, “A mio padre” (un poeta salernitano molto
amato da Carmen, straordinario ma del quale purtroppo si parla poco). Ma tutta
la prosa è poetica: una
narrazione intessuta, permeata di
poesia, anche in quei punti dove ce la aspetteremmo di meno, dove non
dovrebbe essere. Quindi la sua è una scrittura
sempre elegante e avvolgente, piena di echi e di suggestioni. Ma anche
piena di trappole emotive, tranelli
psicologici, che il libro difficilmente permette di ignorare. Per cui
tutto ciò necessita di un lettore pronto
a lasciarsi andare alle proprie malinconie senza alzare barriere.
E poi c’è la dimensione, il territorio della scrittura: che per Carmen e per i suoi
personaggi acquista una valenza
salvifica, la parola salva i personaggi dalla follia, tutto il libro è un inno alla parola,
per tutte le pagine viene cercata
questa parola, quella che può cambiare il corso delle cose, e la
riconciliazione è resa possibile proprio grazie alla scrittura.
Perché prima di tutto fa un enorme lavoro sulla
parola, sulla lingua, restituendoci la complessità della semplicità che è
sempre il punto di arrivo di un lungo e doloroso lavoro. È una fiducia nella
capacità della parola di creare le cose, di raccontarle e di raccontarcele. Carmen
perviene ad una lingua che sa di antico
ma per effetto di un lavoro minuzioso di ricerca e recupero. Una lingua arcaica
ma che ad un certo punto ti riporta all’oggi perché si nominano oggetti come il
computer, luoghi virtuali come facebook, pale eoliche, le antenne dei
ripetitori, quasi ci fosse un controcanto temporale, straniante, e
sorprendente.
Questa è anche la scrittura di Giosuè e quella di Nora,
tra i protagonisti del romanzo!
Giosuè affida alle lettere indirizzate alla figlia
lontana tutta la sua incapacità a comunicare, a pronunciare le parole che
nutrono i legami. le sue sono parole che finalmente comunicano: la propria
fragilità, i propri limiti, i propri sogni e le proprie sconfitte, comunicano
perché si mettono in relazione con l’altro per quello che è realmente. Non
importa se non arriveranno a destinazione, perché le affida al fiume.
La scrittura
di Nora, la madre di Lulù, la figura più magica e straordinaria di tutto
il racconto. Nora scrive storie deliranti (con l’inchiostro invisibile, o al
contrario costringendo chi legge a porsi davanti allo specchio) che nasconde
agli sguardi degli altri, ma che la figlia troverà. Nora ama con le parole,
anche se gli altri non lo sanno.
Abbiamo accennato
ai personaggi, che in questo secondo romanzo si limitano ad essere i
componenti di un nucleo familiare: Giosuè
Pindari il padre, Nora la
madre, e Lulù la figlia: un
piccolo cosmo di amore fortissimo e disarmante, attorno al quale si snoda una
storia che è essa stessa poesia: l’amore imperfetto delle anime semplici da cui
fuggire per poi tornare ancora, perché si torna sempre a casa. In un modo o
nell’altro. una storia di abbracci mancati, di messaggi nella bottiglia.
personaggi come naufraghi su isole deserte. Carmen ci mostra tutti i limiti e
le debolezze dei protagonisti, la loro incapacità di mostrare o dare amore, o
di quella capacità mutilante di amare male.
Per me: Giosuè
è uomo della concretezza, ha conosciuto la povertà e grazie al sudato
“pezzo di carta” ha potuto sottrarsi al mestiere dei padri e sperare in meglio.
Uomo d’altri tempi, ruvido
come il posto da cui proviene, un paesino dell’Appennino lucano, dal quale non è
riuscito ad andar via perché non ha mai voluto. A quest’uomo il lettore si
affeziona subito, ma a mano a mano che si procede nella lettura, si scoprirà il
suo vero carattere, e non sarà facile accettarlo: perché si rivela un uomo abituato a comandare e a non
sentirsi dire di no, in linea con la mentalità dei posti in cui vive. Ma è
anche un sognatore di mondi perfetti,
che sa restare tutta la vita accanto alla donna che ha sposato, nella gioia e nel
dolore. Perché una promessa è una promessa. La vita di Giosuè si svolge tra due
poli: le radici e il socialismo,
almeno fino al 1992, anno della “grande delusione”, quando il partito
in cui ha creduto (il partito di Pertini che piangeva sulle macerie lasciate
dal terremoto dell’80) finisce improvvisamente travolto dagli scandali e dalle
manette, dalle inchieste di tangentopoli.
Ma Giosuè non si arrende, il seguito è
l’ignoto ideale: il progetto utopico di dare vita a una città ideale sulle sponde del fiume, il
“fiumeterra”, che avrebbe rappresentato un grande ritorno alla campagna
ma senza le privazioni dei padri. Contadini e operai avrebbero avuto case
confortevoli, mezzi di trasporto gratis, assistenza medica gratuita, vigne,
uliveti e terra fertile per tutti. Aveva scritto addirittura una costituzione.
Ma il sogno di Giosuè si infrange quando
arrivano le pale eoliche, le antenne telefoniche, che deturpano e feriscono una terra che aveva la sola colpa di
trovarsi all’incrocio dei venti. Giosuè finisce per perdere affetti e ideali, per ritrovarsi solo, incapace di comprendere. la politica lo ha
deluso, sua moglie Nora si è ammalata di quella che lui chiama una forma di malinconia, ma in realtà
afflitta da un male di vivere che non le lascia scampo.
Solo il fiume gli resta, l’acqua che scorre e che cela
percorsi sotterranei ma non ci abbandona. Ed è al fiume che offre i suoi
messaggi in bottiglia, le lettere per sua figlia. richieste di amore, offerte,
ricordi, memorie.
Giosuè dirige la vita di sua figlia che dice sempre
si, ma non si domanda se possa avere dei bisogni, delle aspirazioni o
semplicemente dei desideri.
E poi c’è Lulù:
un’esistenza inquieta al servizio del padre, la figlia devota, che sa
donarsi senza riserve al mondo dei grandi, scoprendo troppo presto che amare
può essere doloroso, e a volte anche una bambina può fare da madre alla madre. E
che a un certo punto sente che è giunto il momento di liberarsi dalla stretta
di una madre irreparabilmente perduta nella sua demenza, e di un padre
visionario. dandosi alla fuga, e che alla fine saprà arrivare ad una forma di
conciliazione, sulle rive di un altro fiume, perché solo sull’acqua dolce
poteva in qualche modo sentirsi a casa.
Infine Nora, che
secondo me è la figura più carismatica e silenziosa del romanzo. Tutta chiusa,
apparentemente, nella sua gabbia emotiva, nel suo mondo all’apparenza deserto e
invece popolato dalla vita di altre persone con le quali, nonostante la
malattia, e contrariamente alla solitudine reale dei suoi familiari, intesse
dialoghi densi di esistenza. una donna magica che parla ai morti degli altri e
scrive storie apparentemente deliranti, dopo essere andata ai funerali degli
sconosciuti Nora è l’unica che realmente dialoga: lei che vive in un limbo, che
vede i chiaroscuri, lei che scrive con la grafia invisibile o a specchio con il
succo di limone, o al contrario mettendo la figlia davanti allo specchio per
permetterle di leggere.
Se Giosuè è la legge, il desiderio di controllo e
quindi non può amare realmente, Nora è capace di un amore profondo proprio perché
lei il controllo lo ha già perso. E dunque ama, anche quando non sembra, anche
quando non si comporta come dovrebbe fare una madre. Ama con le parole, con le
parole invisibili con le quali voleva creare un legame con la figlia, ma Lulù
lo capirà dopo, e grazie ad un altro personaggio apparentemente marginale, Andreone, che ritroviamo nella seconda
parte del libro, che è l’antitesi di Giosuè, il suo contraltare, un uomo senza
certezze, lui sì che vive sull’acqua, ed è fatto di acqua. È un uomo
fondamentale per Lulù, perché come dice Carmen ha nel nome l’andata e il ritorno, e sarà proprio lui ad insegnare
a Lulù la riconciliazione, che le farà conoscere una realtà diversa che aveva
mal percepito, a cominciare dal rapporto con sua madre che le ha sempre
manifestato il suo amore con i suoi ‘non gesti’, o con i segreti custoditi nei
diari nascosti. Andreone le dirà: in
quelle stranezze ti ha portato con sé: tu eri con lei nel suo segreto. Con
Andreone c’è insomma la scoperta dell’altro, e la conquista con gesti gratuiti
come un abbraccio alla fine di un discorso, quegli stessi gesti a cui non siamo
più abituati, perché siamo diffidenti, e quindi limitati. Carmen scrive: la solitudine è bella, ma abbiamo bisogno di
qualcuno a cui dire che non lo è.
M. D.