Nota di lettura (sintesi) di Maristella Diotaiuti per il volume I morti di tutte le specie, di Silvia Secco, Seri Editore, 2021, scritta in occasione della performance poetica dell’Autrice per il Festival VOCI I Edizione (musica: Mariano Di Nunzio).
Il testo si regge su un sistema di relazioni interne, tematiche e formali molto strette, presenta una forte compattezza di tutti gli aspetti che lo compongono, per cui è difficile trovare l’angolo, la soglia, la linea da cui partire per non trascurare niente, perché niente di questo libro può essere trascurato.
Partirei col dire innanzitutto che questo di Silvia è un libro dei morti, una sorta di meditazione sulla tragedia - Sonia Capirossi la chiama parabola meditativa sulla catastrofe - sulla finitezza delle creature, sulla caducità delle cose e degli esseri. Come la sente, come l’ha voluta Silvia, non poteva essere raccontata attraverso una struttura poetica chiusa, una misura normalizzata, perché il discorso, la riflessione di Silvia sulla morte, la finitezza delle creature, la caducità delle cose e degli esseri smette le modalità dell’argomentazione razionale per lasciarsi andare ad una esplorazione, indagine di un sentire comune di fronte a un evento tragico storico che diviene cosmico. Era quindi inevitabile che Silvia si affidasse a una forma fluida e alla voce, alla dimensione orale, fonica della poesia più che grafica.
I morti di tutte le specie è un poemetto, non una raccolta di poesie, ma un’opera organica, coesa, i testi poetici non sono semplicemente accostati o in sequenza, ma sono dentro un discorso lungo, articolato. Il poemetto è suddiviso in undici scene, undici scenari di parole predisposti a una drammaturgia, come per essere recitati appunto, messi in scena, sono scenari di parole predisposti a una performance vocale, che prevede e accoglie anche un tappeto musicale, strumentale, direi continuo, di basso continuo. Quindi sin da subito, ancora prima del primo verso, ad essere evocata è la voce, il suono, il canto, con quel riferimento alla cantilena della madre e alla lingua materna, amniotica che è il dialetto. Il suono, quindi, prima di tutto. Infatti, nel tessuto, nella fattura dei versi sono molto presenti le figure retoriche di suono, è molto forte la componente ritmica e fonosimbolica: versi come un flusso, una cascata di suoni liquidi perché le parole si propagano a volte come in immersione, in un acquario, attutite e morbidi, o a volte precipitano come cascate, fiotti, fontane, diluvi, maree e valanghe. La cantilena, la lingua materna del dialetto ci trascina immediatamente e con forza dentro a un femminile potente: perché è la lingua parlata sul nascere, è un flusso sonoro, è una lingua a due, la lingua della relazione, non c’è prima la nascita e poi la relazione, nasciamo già in relazione. È un ritmo a due incessante, vincolante, salvifico. La lingua materna è quel sussurro, quel bisbiglio che ti porti dentro per tutta la vita, è un basso continuo sul quale poi si costruiscono le variazioni armoniche della propria vita. è molto simile al battito cardiaco, al battito della terra, alle vibrazioni della terra. Ed è la lingua che mette al mondo il mondo, è la lingua della nominazione primaria, nominando l’oggetto lo crea. E la voce lingua materna è corpovoce, cioè è nel legame col corpo, è viva di contatti interni tra corpo voce. E qui, nella poesia di Silvia il canto, la lingua materna si fa poesia che deve essere detta, cantata, e si fa flusso. Il narrare della madre e il canto del poeta, della poeta in questo caso, sono come una sorgiva, un corso d’acqua, un fiume, un mare, e il riferimento all’acqua non è casuale. È acqua che dilaga, travolge, inonda, sommerge, ed è come se inondasse anche i versi, entrasse nelle parole stesse. Ed è una poesia che a tratti si fa anche litania liturgica, ha i toni della preghiera, è salmodiante.
Il dialetto, la lingua delle antenate, non è solo evocato dalla cantilena, ma è presente in tutto il poemetto, come lacerti di linguaggio, sono frasi, periodi più o meno lunghi, in dialetto veneto che si inseriscono nelle parti in italiano ma senza frizioni o stridori , è come se le frasi dialettali scivolassero dentro all’italiano, come acqua appunto, che, come vedete, ritorna sempre.
La lingua materna poi è strettamente connessa con la luna, con il bianco, il colore latteo, con il latte stesso che connota la scrittura delle donne. Diceva Helene Sixous che le donne scrivono con l’inchiostro bianco, il latte che scorre nelle vene. La luna bianca, il colore di Artemide (Dea della luna crescente), di Selene (Dea della luna piena), Ecate (Dea della luna calante), Pandia (Dea del plenilunio).
[…]
Il poemetto di Silvia ha un scrittura complessa sia sul piano logico che morfosintattico, una scrittura che procede per echi, rimandi, illuminazioni, analogie, rinvii che accadono, avvengono nella memoria personale e collettiva. Il verso si allunga e si frantuma, tende a debordarsi e a farsi prosa ritmica-lirica. Ce lo dice la stessa Silvia, nelle sue note introduttive innanzitutto: con il riferimento alla cantilena volta la carta che le cantava la mamma in dialetto veneto, che si porta dietro tutta una serie di elementi: primo fra tutti la dimensione sonora, di canto, che permea di se tutto il poemetto. Nella cantilena volta la carta si ritrova una rosa, la si gira ancora e si trova un limone, poi ancora un matto, un mare e così via, all’infinito. Il riferimento è al tempo ciclico, l’eterno ritorno dell’identico, del già visto e conosciuto, del sempre rivissuto e rivivibile, è il tempo dell’attesa. Questo tipo di scrittura e di struttura trova il suo corrispettivo nel “tempo” così come lo vuole qui Silvia, funzionale al suo dettato. Infatti nel poemetto circola un tempo ciclico che procede per spazi concentrici, quindi molto vicino al ritmo delle stagioni, delle maree, delle fasi lunari, del ciclo della vita, è questo il tempo della natura. C’è poi un altro tempo, quello umano che appare fermo, immobile, di sospensione della storia, in cui i piani temporali si sovrappongono, si intersecano: è il tempo dell’attesa, a formare un eterno presente. È il tempo dell’attesa e della catastrofe, dell’evento tragico, il momento della rottura dell’estasi, della violazione della bellezza armonica e immota della natura tutta: degli alberi, i fiumi, le acque, le montagne, e anche l’elemento umano, le case, i paesi quelli perfettamente inseriti nell’ambiente, nel luogo. Per questo si tratta di una morte comune, condivisa, collettiva: dalla goccia del fiume alla singola foglia sull’albero, dall’insetto più minuto alla casa divelta dalle fondamenta.
[…]
Emerge costantemente un’attenzione quasi francescana per tutti gli esseri viventi (simile direi a quella di Anna Maria Ortese), da quella che lei chiama cosmogonia microbica del sottofondo. Il formicaio, il verme, la radice, passando per il mondo minerale, delle pietre, delle sabbie, delle ghiaie a quello delle piante, degli animali, fino all’elevazione al cielo, con le costellazioni, le stelle e la onnipresente madre-luna. Il micromondo e il macromondo uniti in un unico afflato, che unisce anche i vivi ai morti in un intricato reticolo di rapporti che uniscono i morti di tutte le specie ai viventi e ai morituri. La madre-luna che determina le maree, i cicli biologici, vitali, determina ogni nascita ogni crescita e ogni fine. Una natura al femminile che se dà la vita dà anche la morte, (basti pensare alle accabadore sarde) perché ogni cosa con la sua morte è riassorbita nel suo grembo primordiale, c’è un ritorno all’origine. È fortemente richiamata l’ambivalenza dell’acqua come portatrice di vita e di morte, di nutrimento e di devastazione. Quindi una natura mai matrigna, ma sempre madre-benigna, che regola le necessarie ciclicità del mondo e degli esseri, delle generazioni e del tempo.
Ma in questo rapporto uomo-natura, in questa relazione profonda, simbiotica, ancestrale con il sistema mondo, pianeta, ci avverte Silvia, può esserci un cedimento, può aprirsi un varco, ma questi non sono sbagli di natura ma sono sbagli dell’umano che causa disastri, come quello del Vajont o la bufera di vento che ha abbattuto ettari di alberi, disastri che generano morti, le morti di tutte le specie, appunto.
[…]
Silvia sviluppa tutta una fenomenologia della morte come assenza: dai Lari della casa, gli antenati che la abitano in attesa agli annegati dell’alluvione del Vajont, dagli emigrati morti nelle acque del mare, ai bambini non nati, alle cose ferme sulla soglia del possibile, che sono rimaste intrappolate nella dimensione del possibile, del ciò che poteva essere e non è stato.
[…]
ti porterò a pestare a piedi nudi / il
fresco dell’erba bambina, ti parlerò dell’uva
prendilo il bambino, nominagli l’orco,
diglielo / una volta piano quando è sveglio, dieci volte mentre gioca, cento
/volte / quando sogna il suo giardino … diglielo che se ricorda – se ricorda
bene – / l’orco gli diventa vero: c’è da riconoscerne la voce. diglielo, / insisti:
l’orco, l’orco, l’orco, l’orco lo avrà pure / un maledetto nome.
Ecco il compito a cui è chiamata la scrittura poetica, il poeta: Silvia lo dice più volte qui in questi versi, ma anche altrove, qui è ripetuto anaforicamente tre volte “diglielo-diglielo-diglielo. C’è un incalzare, una insistenza significativa e drammatica, tutto ciò che posso fare (dice Silvia) è scriverlo. Cioè il compito è quello di testimoniare la ferita, dirla più che lenirla o guarirla, custodire e mettere in allarme, avvisare tutte le creature di ogni specie dell’orco che è in agguato, di fare attenzione al loro destino che però è inevitabile, che è già avvenuto.
Testimoniare la ferita significa uscire dal proprio chiuso / minimo privato, e pensare a una palingenesi futura, di rinnovamento, di rinascita, di rigenerazione dell’individuo e del cosmo.
M.D.