Nota di
lettura di Maristella Diotaiuti per il volume La parte di Malvasia,
di Gilda Policastro, La Nave di Teseo Editore, 2021, scritta per la
presentazione alle Cicale Operose. Insieme all’Autrice e a Maristella, alla
presentazione è intervenuto Luca Cristiano, poeta, critico letterario.
Ancora una volta Gilda, con il suo consueto coraggio e la sua consueta fermezza registra la realtà, attivando una lente di ingrandimento, attraverso la scrittura, che ci costringe a vedere aspetti dell’esistenza, di noi stessi come viventi, che volentieri terremmo nascoste. Come se Gilda indossasse, e ci facesse indossare, gli occhiali della bimba nel racconto, straordinario, di Anna Maria Ortese (Il mare non bagna Napoli) che vede per la prima volta le brutture di ciò che la circonda e ne resta profondamente nauseata. Se la bimba di Ortese toglie gli occhiali perché le è insopportabile ciò che vede, Gilda non esita a indossare questi occhiali, non esita ad entrare nelle zone buie dell’essere, nella materia nera di cui pure siamo fatti, per analizzarla, comprenderla e addomesticarla, forse, quindi è un libro che ci chiama in causa, che ci riguarda, che sollecita il lettore, ogni tipo di lettore, dal meno avvertito, il meno consapevole, a quello più scaltro e munito di strumenti ermeneutici, esegetici. Ce n’è per tutti , e non ce n’è per nessuno, si potrebbe dire. Perché la sostanza genetica di questo romanzo è la indefinibilità, la smarginatura, l’andare oltre, oltre la pagina, oltre il senso. Quindi più che definirlo per affermazioni si potrebbe meglio definire per negazioni, perché La parte di Malvasia non è un romanzo, è un non-romanzo (o meglio è molti romanzi insieme e non è nessuno) non è un giallo, è solo apparentemente un giallo, un noir, appartenenza al genere avvalorata dalla fascetta a firma di Maurizio De Giovanni, ma in realtà è un non-giallo, o, meglio, è un anti-giallo, perché inizia con lo schema tipico del genere giallo (e inizia a cose già fatte), con un cadavere di donna (non si sa se uccisa o suicida), tra l’altro misteriosa (non si sa molto di lei), in un paese non ben precisato. Parte l’indagine, con tanto di investigatore, un maresciallo e il suo assistente, interrogatori, sospetti, e quant’altro, ma poi il racconto subisce una deviazione tanto brusca quanto inaspettata, e non è l’unica, perché nel corso della narrazione ci saranno molte altre deviazioni come queste (quando pensi di aver capito, Gilda abilmente ti scompiglia le carte)
Ecco, quindi tutto si complica, si ingarbuglia, tutto diventa confuso, tanto da non capire più chi parla, chi è il sospettato e l’investigatore, di chi è la storia, ma di che storia si sta parlando, perché c’è un continuo slittamento di senso, c’è un accumulo di ricordi, deposizioni, commenti, notazioni e pensieri che sembrano provenire più da voci che personaggi veri e propri, è infatti una narrazione polifonica potremmo dire, ci sono più voci che si rincorrono nel libro, che si alternano, si sovrappongono, con delle fluttuazioni di identità molto elastiche, c’è proprio una sovrapposizione, un intreccio di identità apparentemente senza senso. Perché non c’è più, come nel genere romanzo novecentesco, una trama lineare, né un personaggio centrale di cui si racconta la storia (o è lui stesso a raccontarla in prima persona), ma ci sono tanti personaggi e sono tutti più o meno sullo stesso piano, tutti principali, tutti protagonisti (anche se poi ad un certo punto ce n’è uno, Gippo, che sembra prevalere).
La storia poi si dà per frammenti, per lacerti, è un continuo comporsi e scomporsi della trama, della fabula, non c’è un ordine di tempo e di spazio, una progressione lineare dei fatti. Quindi è evidente che la prima cosa che Gilda fa è quella di scardinare il genere letterario del romanzo, direi in tutti i suoi elementi costitutivi, soprattutto attraverso la creazione di un nuovo tipo di personaggio e lo stravolgimento, la scomposizione della trama lineare così come la conosciamo.
Se ricordiamo le teorie sul romanzo, ad esempio di Goldmann e di Lukàsc, che definivano il personaggio del romanzo borghese un eroe problematico in un mondo degradato in cerca di valori autentici e nel quale romanzo il personaggio-eroe si presentava con una identità ben definita, precisa, dichiarata, con nome e cognome, professione, indirizzo, e come tale si muoveva nella realtà diegetica, cioè della narrazione del racconto, della vicenda narrata in un'opera letteraria, e faceva esperienza, era un personaggio in formazione, alla fine del romanzo il personaggio principale, il protagonista, aveva subito una evoluzione, e non era più quello dell’inizio (e questo ha permesso a Proust, ricordate, alla fine della sua Recherche, di dire la famosa espressione adesso finalmente posso scrivere il libro, il romanzo della mia vita). Viceversa, nel libro di Gilda non c’è niente di tutto questo, anzi c’è un capovolgimento di tutto questo, ed è molto interessante il lavoro che Gilda fa sul personaggio, un nuovo tipo di personaggio, quasi un prototipo, un contenitore. È come se Gilda stesse ritornando alla maschera, alla descriptio personarum delle retoriche medievali, precedente al romanzo del ‘900, un contenitore da riempire con nuove identità , un vuoto (quello dietro la maschera) che deve essere riempito, ma con quali identità, quali caratteristiche, ancora non lo sappiamo. Perché poi in fondo il problema è: quale personaggio letterario è in grado oggi di rappresentare la realtà, di rappresentarci, è un nodo problematico e teorico che tocca il concetto di mimesis, di realismo, di verosimiglianza.
Anche l’assunzione di un genere, quello del giallo, del noir, è un falso, un depistaggio: il genere è assunto da Gilda ma solo all’inizio e sostanzialmente per negarlo dal di dentro.
Quindi potremmo definirlo un tranello, un inganno quello che Gilda ci apparecchia con estrema maestria, un tranello tra l’altro dichiarato, ad un certo punto (a pag. 189) Gilda scrive: la letteratura è una bugia, la più grande bugia che l’uomo ha inventato.
Quindi il genere letterario è solo un espediente, un pre-testo, nel senso etimologico del termine.
Gilda ci conduce verso qualcosa che ci è familiare, ci fa accomodare, ma poi ci trascina in qualcos’altro, in qualcosa di molto diverso in cui non abbiamo più le solite coordinate, dobbiamo reinventarle. È questa un po’ la sfida, o l’invito che Gilda lancia a noi lettori.
Dobbiamo quindi soffermarci sulla natura del testo, capire perché le cose al suo interno non vanno come ci aspetteremmo che andassero, e quindi mettere in crisi le certezze del testo, i suoi dogmi letterari, (e anche le certezze che ognuno di noi si è costruito, scardinare le risposte che ci si è dati alle domande fondamentali dell’esistenza, quelle che non ci fanno dormire a alle quali dobbiamo dare un’accomodazione, per continuare a dare un senso al vivere), ma questo è estremamente interessante, intrigante, perché chiama in causa il lettore come non mai direi, qui il lettore è coinvolto direttamente nella creazione del senso, nasce una collaborazione al testo tra lettore e autore, autrice in verità. E questo il libro di Gilda ha il pregio, raro direi nella letteratura anche contemporanea, di scuotere il lettore dal torpore della narrativa compiacente, che accarezza, che asseconda il lettore, il suo gusto, le sue aspettative, che in qualche modo risponde alle domande che il lettore le pone, che esige da lei. Invece quello di Gilda non e’ un libro consolatorio, né risarcitorio, non c’è una catarsi finale, e questo è valido anche per la poesia, un libro deve mettere in crisi non risolvere la crisi, deve aprirle le crisi, deve creare le ferite, meno che mai curarle, le deve tenere sempre aperte, non deve farle infettare ma deve tenerle sempre aperte, doloranti, come il pharmakon greco, cura e veleno nello stesso tempo.
La letteratura non dà risposte perché la vita stessa non ne dà, la verità non esiste, è vera solo la dichiarazione della sua inesistenza.
Quindi è un libro onesto, perché assomiglia alla realtà, dove non sempre viene trovato un colpevole, dove non ci sono i motivi per morire, o le ragioni del dolore, del male, della morte.
Ne viene fuori un intreccio vorticoso che vuole proprio rappresentare l’insensatezza dell’esistenza, ma anche l’orrore di alcuni aspetti dell’esistenza che Gilda declina variamente, dall’incidente all’omicidio, il femminicidio in questo caso, dalla malattia, alla degenerazione dei corpi, alla morte, alla ineluttabilità della fine. E su tutto il male, il male assoluto, gratuito, incomprensibile, inaccettabile, come può la violenza sui bambini, e su questo Gilda ha scritto delle pagine straordinarie, di una potenza davvero unica, tanto vere da essere in alcuni tratti quasi insopportabili.
Si sente la profonda cultura di Gilda, le sue letture (e i padri), gli echi letterari sono davvero importanti, enormi, quali Dostoevskij (i fratelli Karamazov), Gadda, il Gadda della cognizione del dolore più che del pasticciaccio direi, ma anche Leopardi e, per arrivare a tempi più vicini, Marìas (maestro della digressione, della spezzatura del testo, e Gilda è geniale in questo, poi ne parliamo della sua scrittura!), e Walter Citi, direttamente citato da Gilda in una pagina del libro.
I temi sono importanti, come vedete, gravi direi, ma gilda non ce li restituisce con cupezza, perché la sua scrittura è sorretta, quasi incredibilmente, da una strana leggerezza, perché è permeata di ironia, c’è una sottile linea canzonatoria, di presa in giro un po’ di tutti, prende in giro i personaggi, forse anche noi lettori, ma è presente anche l’autoironia, Gilda prende in giro la letteratura, anche se stessa come autrice.
La parte di Malvasia è sicuramente un libro fluido che a volte assomiglia a un trattato filosofico sulla vita e sulla morte, altre volte è un saggio sulla meta narrazione, è come se il testo riflettesse su se stesso, il testo parlasse di sé e del suo farsi, della sua materia genetica, c’è anche un racconto dentro il racconto (e soprattutto troverete interessante tutto il taciuto, i vuoti di senso, le verità parziali, ecco tutto viene poi colmato, il tutto viene a trovare la sua giustificazione nella scrittura stessa).
Perché l’altro aspetto straordinario, probabilmente il più importante, di questo ultimo libro di gilda è proprio la scrittura, lo stile di Gilda, perché Gilda inventa una lingua, una sua lingua, una sorta di neo-lingua, uno stile immediatamente riconoscibile come suo, fatto di vari registri, una commistione di stili e una sorta di pastiche linguistico in cui entrano parole alte, forbite, un lessico colto, e parole basse, quotidiane, del parlato, vi entra anche lo slang, il gergale, e il burocratese, si sente che Gilda ha lavorato molto sulla sua scrittura, sulla sua prosa, infatti è una prosa che viene fuori da un lavoro di sottrazione, di asciugatura, una prosa fatta di ellissi di reticenza, e anche in questo il lettore viene sollecitato a riempire i vuoti e a immaginare tutto quello che non viene esplicitato, che non c’è, e quindi a creare un suo testo.
Vi è l’uso molto spregiudicato e sapiente dell’indiretto libero (frammisto, mescolato, a volte con quello diretto (il discorso libero indiretto), credo che in tutto il libro vi sia un solo discorso diretto in un interrogatorio (nel capitolo ‘signore e signorine’ pag. 33) e l’indiretto libero è il luogo per eccellenza dove l’autore può entrare e uscire dal testo, può far parlare i suoi personaggi nel modo in cui parlerebbero, e soprattutto descrivere il funzionamento interno dei personaggi, le loro emozioni, i pensieri privati, pur rimanendone a distanza e nello stesso tempo – e qui sta il gioco sottile di Gilda –, mescolandosi a loro in maniera nascosta mimetica, ma forse a volte anche di adesione, di compenetrazione (il discorso indiretto libero riporta un discorso in forma indiretta, ma con alcune caratteristiche specifiche. È una forma di narrazione). E la cosa interessante (e questo ci dà la misura della bravura e della finezza di Gilda scrittrice) è che si tratta di una mescolanza morbida in cui non senti il passaggio da un registro all’altro, non senti che si sta creando un linguaggio letterario, l’effetto finale è quello di un flusso armonico, quasi musicale, con le sue spezzature e le sue pause e le sue accelerazioni, i vuoti e i pieni, ma tutto è molto armonico ma direi anche ipnotico, cioè resti impigliato nella pagina e sei quasi trasportato in avanti, come per inerzia, nella lettura come in una sorta di vortice, di spirale, anche perché vuoi capire dove sta andando a parare.
Ecco perché poi alla fine, se non capisci tutto immediatamente, se qua e là il senso ti sfugge, resta il piacere della lettura, quello che devi fare è proprio lasciarti andare a questo flusso magmatico della scrittura, lasciarti trasportare dall’onda delle parole. Il bello di questo libro è in fondo il godimento della lettura, che bisogna assolutamente recuperare. In realtà, man mano che procedi nella lettura ti accorgi che non è importante sapere chi ha ucciso Malvasia e perché, chi sono quelli che indagano, chi è che sta raccontando, ecc. ecc. Quello che conta davvero è la scrittura e l’esperienza della scrittura, e non ha importanza se alla fine del libro non abbiamo raggiunto nessuna verità, o se non riusciamo a ricomporre il tutto che è esploso in tanti frammenti.
Il libro di Gilda è geniale, fuori da ogni schema, da ogni genere, è innovativo, finalmente una scrittura originale, è un libro dotato di una temperatura letteraria altissima come pochi negli ultimi tempi in cui purtroppo si assiste sempre più ad una avvilente e compiacente omologazione, un appiattimento di scrittura generalizzato. Invece il libro di Gilda si staglia alto e direi in orgogliosa solitudine.
M. D.