sabato 18 gennaio 2025

Maria Rosa Cutrufelli (Maria Giudice). Nota di lettura di Maristella Diotaiuti.

 


Nota di lettura di Maristella Diotaiuti per il volume Maria Giudice, di Maria Rosa Cutrufelli, Giulio Perrone Editore, 2022, scritta in occasione della presentazione alle Cicale Operose.

Questo libro è uscito per Giulio Perrone Editore, in una collana particolarmente bella (anche graficamente) e significativa, “mosche d’oro” (nome derivato da un titolo di un’opera di Anna Banti) curata da Giulia Caminito, Nadia Terranova e Viola Lo Moro, che già nel suo intento ci dice qualcosa su questo libro, perché questa collana è nata con l’idea di mettere in relazione donne, scrittrici ma anche non scrittrici, del passato con donne del presente, quindi la relazione è la parola chiave, per questo libro, ma direi anche per i precedenti libri di Maria Rosa.

In questo libro Maria Rosa ricostruisce la vita di Maria Giudice, una donna che non mi piace definire straordinaria perché questo straordinario implica una eccezionalità e quindi priva tutte le donne del loro carattere proprio, delle loro caratteristiche proprie, svilendole un po’, ma sicuramente Maria Giudice è stata una donna forte, coraggiosa, con un vissuto importante, una donna che ha battagliato per vivere secondo le proprie idee, perseguendo sempre un ideale di libertà, ma sempre in un’ottica sociale, politica, non individualistica di certo. Quindi biografia personale, ma nello stesso tempo si ricostruisce anche la storia, le dinamiche di anni cruciali, il primo ‘900, fine ‘800. Maria è nata nel 1880 ed è morta nel 1953, quindi siamo in un tempo storico di tanti e grandi cambiamenti, la cui eredità difficile, ma anche ricca, arriva fino a noi, anche grazie al lavoro di donne come appunto Maria Giudice, ma anche quello di Goliarda e Maria Rosa. Maria Giudice è una donna che ha fatto la storia dell’Italia e la storia delle donne, (maestra, sindacalista, attivista, giornalista), è pressoché sconosciuta, o conosciuta solo attraverso la figlia Goliarda Sapienza, ricordata solo attraverso le parole della figlia. Come Maria Rosa scrive, la sua è considerata una storia minore, che viene dal basso, eccentrica per definizione, dove, per la cultura maschilista e patriarcale, quel venire dal basso significa dal sottobosco culturale, e quell’eccentrico, quel fuori centro è usato in un’accezione negativa, vuol dire inferiore rispetto alla storia al maschile, vuol dire, come spesso viene detto soprattutto per la scrittura delle donne, disordinato, ridondante, eccessivo, bizzarro (barocco, pittoresco, ecc.), mentre è proprio in questa eccedenza la sua qualità e la sua forza.  Proprio in questa eccedenza si annidano i vissuti di moltissime donne ancora in attesa di essere riscoperte, e quindi è questa eccedenza delle donne che permette a noi oggi di analizzare le zone d’ombra della storia per riportarle alla luce e restituirle a un patrimonio individuale e collettivo.

La stessa Goliarda Sapienza è stata a lungo dimenticata, L’arte della gioia è stata pubblicata in Francia dopo trent’anni dalla sua scrittura, e grazie alla mediazione di una editrice tedesca, e in Italia pubblicata dopo otto anni dalla pubblicazione francese, un ritardo spaventoso e colposo. Ed è purtroppo il destino di molte, moltissime donne, fatte scivolare lentamente, ma a volte anche bruscamente, nell’ombra e nel dimenticatoio, nonostante siano state importanti e determinanti nella storia, nella politica, nelle scienze, nella letteratura. Come se non fossero mai esistite e non avessero mai agito.

Quindi Maria Rosa toglie questa donna dal cono d’ombra e la immette in una genealogia delle donne necessaria, imprescindibile, per noi donne, ma non solo, direi.  Allora questo libro è molte cose: un atto di generosità e di cura di Maria Rosa verso noi donne; un atto di riconoscenza e direi anche risarcitorio nei confronti di Maria Giudice; un atto simbolico di riparazione a un torto; oltre ad essere un atto di amore nei confronti di Goliarda Sapienza, perché tra Goliarda e Maria Rosa c’era un rapporto amicale e di condivisione di scrittura, e quindi questo libro nasce, come dice Anna Toscano, da un’assenza: l’assenza di una amica cara e di tutto il suo mondo, Goliarda manca a Maria Rosa e mancano i loro incontri del gruppo di scrittrici che si riunivano periodicamente per parlare, confrontarsi sulla loro scrittura, sui loro progetti, ma anche per aprire conflitti, e sempre però in una dimensione di convivialità, davanti a un tavolo imbandito, a scambiarsi cibo e riflessioni, pensieri e idee.

Quindi questo libro comincia dove finisce il progetto di Goliarda di scrivere un libro, un grande romanzo che avrebbe dovuto narrare la storia di sua madre e di suo padre, con il titolo Amore sotto il fascismo, ma poi questo romanzo non fu mai scritto o almeno non ha mai visto la luce. e allora di questo progetto se ne fa carico e cura Maria Rosa e lo porta a termine in nome dell’amica Goliarda. (il libro di Maria Rosa si muove nella direzione di quel monito che Goliarda aveva imposto a se stessa, cioè di onorare i morti”.

Maria Rosa ha utilizzato, nella sua ricognizione storica, i tantissimi documenti di polizia, i rapporti della polizia, delle prefetture, dei commissariati delle varie polizie di turno che si sono sempre occupate e preoccupate di Maria Giudice perché per le sue attività politiche e sindacali, di giornalista, era sempre sotto osservazione, sempre controllata, segnalata, e condannata molte volte al carcere tanto da divenire la sua unica dimora stanziale, fissa.  Ma questi documenti, quindi, proprio per la loro stessa natura non restituivano tutta la personalità, le idee, la vita, non restituivano Maria Giudice nella sua complessa totalità. quindi Maria Rosa aveva bisogno di un altro sguardo, un’altra prospettiva di indagine, di lettura, e questo lo ricava dall’utilizzo di fotografie di Maria Giudice, le foto sono utili proprio per la loro natura duale: cioè documentaria e intima insieme, ma Maria Rosa fa un particolarissimo uso delle foto, realizza un vero e proprio racconto foto testuale, dove le foto sono innestate nel corpo del testo, narrativizzate tramite ekphrasis. In questo modo viene tolta loro la cornice, la loro fissità univoca, consentendo così di realizzare, scrivere, una biografia quanto più possibile liberata e liberatoria. Le foto senza cornice sono capaci di dare corpo e tridimensionalità a Maria Giudice, uno spazio privato fisico, farla uscire dai confini delle definizioni stereotipate, e anche dalla dimensione cartacea dei documenti ufficiali. Quindi quella che emerge non è più solo la donna decisa ed energica ritratta nei documenti, ma anche infine una donna con le sue fragilità, con le sue incoerenze rispetto al suo ruolo, le sue scelte sofferte, le sue passioni e le molte fatiche, ma soprattutto rivista attraverso gli occhi, lo sguardo di altre donne.  Ma per spiegarmi meglio vi leggo quello che Maria Rosa scrive, a pag. 14 : del resto cos’è, nella sua più intima sostanza, una cornice? Nient’altro che una chiusura. […] la fotografia, piccolo taglio di realtà, conferisce a ciascuna forma o figura un carattere di mistero, stimola l’immaginazione. Ma solo se andiamo oltre la cornice possiamo comprendere quel mistero. Solo se aboliamo i confini.

In realtà nel libro sono presenti solo due foto-immagini, quella che apre il libro e quella che lo chiude, tutte le altre che aprono ogni capitolo, sono descritte attraverso un procedimento ecfrastico. Tra le due foto, di apertura e di chiusura, si crea uno spazio altro, uno spazio libero dove far intrecciare le vite di molte donne, di andare avanti e indietro nel tempo e mettere in relazione le donne di ieri con quelle del presente. Con questo procedimento Maria Rosa (che, ricordiamolo, appartiene alla generazione del neofemminismo degli anni settanta), ha operato quella che Adrienne Rich ha descritto nel suo saggio quando noi morti ci destiamo, cioè la spinta a decodificare le vite delle donne con un gesto di re-visione creativa. Scriveva Adrienne Rich:  l’atto di guardarsi indietro, di vedere con occhi nuovi, di affrontare un vecchio testo con una nuova disponibilità critica – è per noi donne più di un capitolo di storia culturale, è un atto di sopravvivenza. Ed è quello che ha fatto Maria Rosa, ha ri-visto le fotografie di Maria Giudice attraverso la propria vita, il proprio vissuto, il proprio sguardo e attraverso la vita e lo sguardo di Goliarda, e di altre donne, per poi tessere un racconto a tre e più voci, capace di andare amorevolmente oltre l’immagine secca, nuda, cruda, alla quale la storia ufficiale aveva consegnata, confinata, e quindi restituirci un’altra Maria Giudice quanto più autentica possibile.  

Come la sua amica Angelica Balabanoff, Maria Giudice non vuole essere definita femminista, era riluttante a questo tipo di definizione (ma, in realtà le stava stretto qualsiasi tipo di definizione). È quindi femminista di fatto, diciamo così, con la sua vita, le sue idee, la sua pratica politica e sociale. E comunque è sempre accanto alle donne nel loro cammino di rivendicazioni dei diritti e di emancipazione. E lo fa con ogni mezzo, anche con i giornali, infatti già in uno dei suoi primi articoli su L’uomo che ride affronta l’argomento spinoso delle donne e il loro diritto al voto (ricordiamo che siamo tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900, Maria è nata nel 1880 ed è morta nel 1953), sottolineando, soprattutto alle lavoratrici non convinte, come senza diritto di cittadinanza, cioè senza il voto, non avessero alcun potere di incidere sulla società. E durante il suo esilio in Svizzera, insieme a Balabanoff, fondò un giornale dal chiaro titolo, Su compagne! che avrà un’ampia diffusione (in Svizzera e in Italia). La sua idea di emancipazione è che bisognasse concentrarsi, più che sui problemi specifici delle donne, sulla grande lotta di classe. Secondo lei il femminismo non è nato dal malcontento di una classe ma dal malcontento di un sesso. Comunque più di una volta ha sostenuto di non combattere le femministe ma di trovare le loro richieste, le loro rivendicazioni filantropiche, piuttosto che politiche, come ad esempio migliorare la vita delle operaie, eliminare la prostituzione, e altro. Maria arriva poi anche a punte di radicalità, arriva a parlare degli uomini come di una classe, per cui, analogamente alla classe borghese, gli uomini non rinunceranno spontaneamente ai propri antichi privilegi: dunque le donne dovranno lottare per la loro dignità in nome dei nostri dolori, come lei stessa diceva.

C’è un aspetto della vita di Maria Grazia che ha suscitato, e suscita ancora, delle perplessità, degli interrogativi, perché tocca un nodo non ancora risolto (nemmeno dal femminismo storico degli anni ‘70, del quale la stessa Maria Rosa è stata teorica e militante), che è quello della maternità. Ricordiamo che Maria ebbe 10 figli, tutti fuori dall’istituzione matrimoniale, e che sicuramente è una maternità ambivalente, apparentemente contraddittoria, perché se da una parte partoriva figli dall’altra non esitava a lasciarli in accudimento di altri quando lei era chiamata ad occuparsi dei suoi impegni pubblici. Quindi ci si è interrogati, da più parti, sul perché di questo eccesso di maternità, insolito per una socialista, come ha avuto modo di dire lo storico Vittorio Poma. Ma credo che anche questo sia una perplessità che proviene da una cultura maschile o maschilista, che vede la divisione dei ruoli, la teoria delle due sfere, perché invece non è difficile comprendere che per Maria Giudice la maternità e una scelta e un desiderio, (due parole fondamentali, due parole-chiave), un desiderio non molto diverso dal suo desiderio della politica, della sua passione quasi erotica della politica. Entrambe sono una forza intima, una pulsione vitale. in entrambe c’è la stessa energia erotica, che parte dal suo corpo e si apre al mondo. Quindi in questo senso i figli e la politica sono due esigenze irrinunciabili e non in contrasto, che non necessariamente devono escludersi a vicenda. A riguardo,  c’è stato un punto del libro su questo argomento che mi ha immediatamente riportato a Beatrice Hastings, alla sua visione della maternità, individuando tra le due donne un punto di contatto inaspettato e illuminante. Beatrice Hastings, nel suo libro del 1908 Il peggior nemico della donna: la donna (che noi abbiamo pubblicato integralmente) quando parla della vera madre (pag. 47) sembra proprio incarnare e descrivere Maria Giudice, e in particolare quella raccontata da Maria Rosa attraverso la descrizione della foto n.° 5 (pag. 83) dove Maria è raffigurata al centro della scena con intorno tutti i figli che le fanno corona: una sorta di visione profana della sacra famiglia, ma senza l’elemento maschile, quindi rimanda a una dimensione sacrale della maternità esattamente come l’ha pensata Beatrice Hastings.

(lettura dei due brani)

Sul matrimonio Maria ha idee precise, e infatti non si è voluta mai sposare. Come scrive Maria Rosa, questa posizione non è ideologica, né eccentrica (come qualcuno ha detto), ma è una forma di autodifesa, di difesa della propria libertà. Non dimentichiamo che all’epoca una donna sposata era sottoposta alla c.d. potestà maritale, e sposarsi quindi significava privazione di qualsiasi forma di libertà, e questo era inaccettabile per Maria Giudice. Ma certamente questa sua scelta, questa sua determinazione a viversi i rapporti al di fuori del vincolo matrimoniale le procurò moltissimi problemi e sofferenze, anche nella gestione dei figli.

Maria Giudice e Livorno. Il primo punto di contatto con Livorno è l’incontro con Emanuele Modigliani, fratello di Amedeo, parlamentare socialista, che in qualità di avvocato ha difeso Maria Giudice in un procedimento giudiziario a suo carico; e l’altro è che Maria Giudice è stata a Livorno in occasione del Congresso del 1921, al quale partecipa ma senza intervenire. Qui trova ulteriore conferma di quella che lei stessa definisce cultura barbuta, cioè una cultura maschilista e sessista anche dentro il partito socialista, tra i suoi stessi compagni. Maria lamenta la marginalità in cui sono tenute le donne, anche al congresso, per cui reputa umiliante intervenire in quella situazione ancillare per le donne.

Ad un certo punto Maria Giudice si ritrova in Sicilia, inviata come propagandista dal sindacato, dove continua il suo impegno nel giornalismo militante, nella politica e nell’attività sindacale. E in Sicilia vive una seconda vita soprattutto dal punto di vista personale, perché stabilisce una relazione con Peppino Sapienza, l’avvocato dei poveri, padre di Goliarda, vivendo tutti insieme, in una grande famiglia allargata, aperta con i suoi figli e quelli di Peppino, nati da un precedente matrimonio e fuori dal matrimonio. Maria con Peppino ha altre tre gravidanze, tre figli, ma solo Goliarda sopravvive. Ma non va incontro a una vita facile, sia nel privato (Peppino non era esente da tradimenti), e sia nel pubblico perché in Sicilia subisce le persecuzioni del regime fascista che la allontana dall’insegnamento per “inadeguata condotta politica e morale”, subisce un attentato, è costretta all’isolamento con sorveglianza speciale. Non dimentichiamo che in Sicilia la mafia stringe alleanze con i fascisti, dato che va a complicare la già compromessa situazione generale. Ma in compenso è ben accolta dal popolo, dai siciliani, tanto da guadagnarsi il titolo, il nome di “samaritana”.

L’ultima parte della vita di Maria si svolge a Roma, Maria accompagna Goliarda che ha vinto una borsa di studio per studiare recitazione, e qui a Roma frequenterà l’Accademia di arte drammatica.  Si crea così, tra madre e figlia, un rapporto strettissimo e ambivalente, di dipendenza reciproca, anche problematico, soprattutto per Goliarda, perché Goliarda è diventata “l’ultimo rifugio” per la madre, e come dirà Goliarda, lei era ormai “madre di sua madre”.  Maria però lascerà alla figlia il suo ultimo insegnamento, quello della libertà, (come d’altra parte aveva sempre fatto) ora era la libertà da conquistarsi nonostante la guerra, nonostante il fascismo, nonostante la vita sempre più difficile per le donne. In questa ultima fase della sua vita, Maria conosce una forma di depressione, di malattia mentale (nella quale scivola pian piano) che lascerà un segno profondo nella figlia Goliarda, e di questo poi racconterà nel libro Il filo di mezzogiorno dove si evidenzia il suo doloroso percorso di analisi, di lenta risalita verso la conquista di un rapporto più sano e libero con la figura materna, la madre, questa madre così ingombrante e così determinante dalla quale non ci si libera facilmente. La parabola discendente di Maria Giudice non era esente da lampi di ribellione a questa condizione, Maria continua, anche se a sprazzi, ad esercitare la sua determinazione: risale a questo periodo, infatti, la sua attività di resistenza al fascismo, di partigiana, come anche Goliarda che fece da staffetta, portando alla brigata partigiana di Peppino, “i vespri” i testi scritti da Maria sul suo giornale antifascista. E confesso che leggendo le pagine finali del libro di Maria Rosa Cutrufelli mi sono commossa, fino alle lacrime.

M. D.